C’è una vecchia foto di un bambino su una bicicletta, che sorride godendosi il semplice fatto di pedalare, che pensa che la bici sia soltanto gioia, libertà, immensa voglia di vivere. Quel bambino era Marco Pantani, e ci piace ricordarlo con quel sorriso. Una gioia capace di andare oltre la fatica della pedalata. Disse di lui Gianni Mura:
Un giorno, al Tour, gli avevo chiesto: “Perché vai così forte in salita?”. E lui ci aveva pensato un attimo e aveva risposto, questo non riesco a dimenticarlo: “Per abbreviare la mia agonia”.
Dall’infanzia al Giro d’Italia dilettanti
Quando scriviamo di Marco Pantani, abbiamo a che fare con qualcosa di incandescente, di immenso, di sublime. Qualcosa che fa vibrare le corde del cuore e dell’anima. Qualcosa che non sai bene da dove iniziare, perché la sua leggenda è eterna. Perché Marco vivrà in eterno. Pantani è nato a Cesena il 13 gennaio del 1970, fin da piccolo era appassionatissimo di calcio e tifava Cesena e Milan, frequentando spesso sia il Manuzzi che San Siro. Sarebbe troppo facile dire che le cose cambiarono, eccome se cambiarono, quando nonno Sotero gli regalò la sua prima bici e che, salendoci sopra, il Destino cambiò per sempre.
Sarebbe fin troppo facile partire dall’impresa della doppietta Giro-Tour del 1998, che lo ha consacrato nella dimensione dell’epica, così come da Oropa 1999 e da quel guasto meccanico che diede origine a una delle rimonte più epiche dello sport o da Madonna di Campiglio 1999, quando la mattina presto fu fermato per valore di ematocrito troppo alto, segnando l’inizio della fine, in una sospensione piena di ombre, su tutte l’ombra della mafia. E forse sarebbe fin troppo facile partire dall’anno seguente, dal Mont Ventoux e da Courchevel, dove Marco sconfisse due volte la maglia gialla Lance Armstrong o, infine, da quel maledetto giorno di San Valentino del 2004, quando Marco Pantani terminò i suoi giorni sulla Terra, a 34 anni da poco compiuti.
Poiché Friedrich Nietzsche diceva che il tempo non è una linea ma un cerchio, così come lo dicevano molti antichi filosofi greci, percorreremo le gesta di Marco seguendo un cerchio, un cerchio di oscurità profonde e della luce del giallo più fulgido di quella maglia portata sui Campi Elisi. Perché Nietzsche credeva nell’eterno ritorno dell’eguale: perché tutto si ripete e perché Marco è eterno e il cerchio, lo vedremo, collega il suo nome proprio al soprannome con cui tutti gli appassionati lo conoscono: il Pirata.
Già si è detto di come il piccolo Pantani amasse il calcio e di come le cose cambiarono con la bicicletta regalatagli dal nonno. Perché su quella bici il piccolo volava già a 14 anni, vincendo la sua prima gara in pianura, a Cesena. Ma era sulle salite che già adolescente faceva la differenza. Da dilettante partecipò, dal 1990 al 1992, a tre edizioni consecutive del Giro d’Italia dilettanti, finendo sempre sul podio e conquistando il gradino più alto all’ultima delle tre edizioni, nella quale vinse la classifica di miglior scalatore.
Sfortuna e incidenti
Questa è una delle pagine più difficili da scrivere. Qui ci sono molte sliding doors della vita di Pantani.
Sebbene futili, retoriche e fini a sé stesse, le seguenti domande senza risposta sono più che legittime. Quanto sarebbe più ampio il suo palmarès senza gli incidenti che gli hanno tolto gli anni che avrebbero dovuto essere dorati? Quanti Giri d’Italia avrebbe vinto? Quanti Tour? Avrebbe vinto la Vuelta a España e messo così in bacheca la tripla corona di chi vince tutti e tre i grandi giri? Avrebbe vinto classiche come il Giro di Lombardia, la Liegi o addirittura una Milano-Sanremo? Non abbiamo possibilità di risposta. Tuttavia è da ricordare con estremo piacere il suo famoso attacco sulla Cipressa, provando da lontano a sorprendere i velocisti nella Sanremo del 1999 per essere poi raggiunto in discesa.
Tornando agli incidenti, purtroppo già in tenera età iniziarono a perseguitarlo. Nel 1986 finì contro un camion e ciò lo costrinse a 24 ore di coma, quindi fece il bis contro un’auto, collezionando una brutta serie di fratture. Ebbe una grave tendinite che lo costrinse a mesi di stop. Una caduta per colpa di un gatto. Ma l’incidente più grave fu durante la Milano-Torino del 1995. Una falla nelle comunicazioni, un veicolo contromano e Pantani e altri ciclisti furono investiti in pieno, in discesa. Le conseguenze furono terribili. Fu messa in discussione dai medici la possibilità stessa per il campione di tornare a camminare. È doveroso, inoltre, iniziare a parlare già qui di un capitolo che, anche se non ascrivibile né alla sfortuna né agli incidenti, si aggiunge alla tragedia: la camorra. Fa quasi effetto sentir dire nel documentario Pantani (2014) la seguente frase da sua madre Tonina:
Quando era passato professionista, venne al chiosco e disse che avrebbe smesso di correre. Non divento professionista perché di là c’è la mafia.
Agli occhi di quello che sarebbe poi accaduto, queste parole fanno accapponare la pelle. Tuttavia il direttore sportivo della Carrera si accampò due settimane a Cesenatico e alla fine Marco firmò con la sua prima squadra, diventando così un ciclista professionista.
Marco: una nuova speranza
Non c’è miglior modo di passare al professionismo che vincendo una tappa in un grande Giro. Pantani ci riuscì nella quattordicesima tappa del Giro 1994, sulle Dolomiti, su quelle pendenze che diventeranno il suo habitat naturale e dove farà la differenza e su quelle discese dove si butterà a capofitto con quella posizione tanto pericolosa quanto performante, la posizione “a uovo” detta poi anche “alla Pantani”. E con quella tappa vinta e i piazzamenti nelle successive riuscì ad arrivare secondo, dietro al giovane Evgenij Berzin e davanti a Miguel Indurain, colui che aveva dominato a tutto tondo il ciclismo mondiale nei 5 anni precedenti.
Dopo un’iniziale fase di dubbio, il suo direttore sportivo Giuseppe Martinelli lo convinse a partecipare al Tour de France dello stesso anno: attacchi da lontano, prestazioni stellari, una cronoscalata conclusa al secondo posto nonostante la sua scarsa attitudine alle prove contro il tempo. Risultato? Terzo dietro a Indurain e Richard Virenque nella classifica generale, secondo nella classifica scalatori, primo nella classifica dei giovani e conquista della Maglia Bianca. Era nata una stella.
Ma l’anno seguente riecco gli infortuni: uno in allenamento, con serio interessamento del ginocchio, gli costò la rinuncia alla partecipazione al Giro. Si concentrò sul Tour de France, preparandosi al meglio dopo aver registrato prestazioni monstre al Giro di Svizzera, dove per la prima volta sfoggiò il look con capelli rasati – che, paradossalmente, lo facevano sembrare più giovane – e l’orecchino. Stava nascendo il Pirata ma non era ancora il momento. Al Tour de France 1995 inizialmente Marco non brillò, causa le molte cronometro e il dolore al ginocchio. Poi la strada iniziò a salire e la musica ovviamente cambiò. Vinse per la prima volta sull’Alpe d’Huez, staccando tutto il gotha del ciclismo dell’epoca. Vinse in salita Guzet-Neige. Agile, potente, leggero, formidabile, elegante.
Tuttavia, due giorni dopo, la morte si abbatté sul Tour. Fabio Casartelli perse la vita in una caduta terrificante nella discesa del colle di Portet-d’Aspet. Le immagini sono crude, dure e crudeli come la morte stessa, in un tempo in cui non esisteva l’obbligo del casco. Marco, uomo molto sensibile e profondo, fu scosso dentro da quella tragedia. Finì il Tour in decrescita, con uno sguardo diverso. Ottenne comunque a Parigi la sua seconda Maglia Bianca consecutiva. Poi, come già detto, alla Milano-Torino dello stesso anno, un veicolo contromano in discesa centrò in pieno Pantani e altri ciclisti. E come già detto, dopo tale incidente i medici misero in dubbio la possibilità di ritornare a camminare. Tuttavia tutto quel dolore fu necessario. Fu lì che morì Marco Pantani.
La nascita del Pirata
Dalla morte di Marco Pantani nacque il Pirata. Il campione, dopo una riabilitazione densa di determinazione, esercizi, fatica, voglia, forza di volontà, tornò non solo a camminare ma anche a correre, sebbene una gamba resterà per sempre più corta dell’altra. La stagione del 1996 fu molto scarna di gare, come è ovvio che fosse dopo un incidente tanto distruttivo per il corpo e per la mente. Ma il Pirata stava crescendo. Nel 1997 la Carrera non rinnovò la sponsorizzazione e Marco, con il ds Martinelli, firmò per la Mercatone Uno, una squadra romagnola. Al direttore e amico Luciano Pezzi dirà “Non ti preoccupare, vengo più forte di prima”.
Quell’anno si presentò alle gare con l’orecchino e il pizzetto. Il Pirata era sempre più vicino al completamento. Cominciò ad andare fortissimo già nelle classiche di primavera ma fu costretto al ritiro al Giro d’Italia a causa di una caduta che gli causò la lacerazione di un centimetro del muscolo della coscia sinistra. Si presentò allora al Tour de France, oltre al pizzetto e all’orecchino, anche con una bandana. Il Pirata era pronto. A causa del ritardo di condizione dovuto all’incidente, accumulò molto ritardo nella prima settimana. Ma quando le strade salirono iniziò a danzare come una libellula e a pungere come un’ape. Sempre piazzato nelle tappe pirenaiche, vinse nuovamente sull’Alpe d’Huez, tuttavia non riuscì a recuperare il distacco, finendo comunque terzo dietro a Virenque e al poderoso tedesco Jan Ullrich, che sembrava avviato a un regno simile a quello di Indurain.
Vedremo, nella prossima battaglia, che il peso massimo tedesco, 1,83 metri per 80 chili, avrebbe trovato a sfidarlo sul ring un peso piuma: il Pirata, 1,70 metri per 50 chili. Eppure, sull’Alpe si capì, definitivamente, come il Pirata avesse conquistato il cuore degli appassionati di ciclismo. Era amato da tutti, aveva sempre più amici, adesso. Aveva lasciato il segno su una generazione. E sulle generazioni future, fino ai bambini piccoli che oggi, quando uno va forte in bici, chiedono “Ma chi sei, Pantani?”.
Perché il Pirata saliva agile e potente, era spesso Sturm und Drang, Uomo contro Natura. Era il sublime. Era un angelo, un’antilope, “il falco alto levato”, era Febo Apollo sceso nuovamente dall’Olimpo tra i comuni mortali. Per molti, sia nel mondo del ciclismo, dove ha lasciato un’impronta indelebile, che nell’immaginario collettivo è lo scalatore più forte di sempre. Ha fatto urlare una nazione intera e telecronisti come Adriano De Zan, Riccardo Magrini e Auro Bulbarelli. Ha scolpito il suo nome nel muro dell’Immortalità.
L’epica doppietta Giro-Tour nel 1998
Il 1998, seppur anch’esso difficile dal punto di vista delle cadute e della sfortuna, consegnò il Pirata alla leggenda. Gli avversari erano di un livello elevatissimo: lo svizzero Alex Zülle e il russo Pavel Tonkov al Giro, Virenque e l’invincibile Ullrich al Tour. Ai nastri di partenza della Corsa Rosa, più passavano le tappe più Pantani perdeva terreno da Zülle, in un’atmosfera di sudditanza del gruppo di fronte allo svizzero che solo il Pirata aveva provato a scalfire, ad esempio con l’attacco e il secondo posto a Pampeago. Tuttavia, con le salite vere, il Pirata arrivò a recuperare tutto: Zülle crollò, Pantani superò Tonkov e indossò la prima maglia rosa della sua carriera.
E la conquistò in un modo non banale ma con l’impresa della Marmolada, una salita durissima, da cui tutto il gruppo era intimorito. A un certo punto erano rimasti in pochi e un gregario gli chiese, col fiatone: “Perché non scatti? Siamo in salita.”. Al che Marco rispose: “Quando inizia la Marmolada?”. Il gregario, stupefatto lo lanciò, il Pirata staccò tutti e vinse. Vinse di nuovo a Montecampione, tappa passata alla storia per il duello vinto con un Tonkov a dir poco solido e combattivo. Tutti gli italiani lo amavano, tutti seguivano il ciclismo quasi come ai tempi del Dopoguerra, in cui lo Stivale intero era incollato alla radio per ascoltare le imprese di Fausto Coppi e Gino Bartali. Perché seppur ci siano stati ciclisti italiani più vincenti – Felice Gimondi e Vincenzo Nibali – nell’epica italiana del ciclismo sono scolpiti tre cognomi: Coppi, Bartali, Pantani.
Nel 1998 Pantani non aveva in programma di partecipare Tour de France, viste le fatiche del Giro. Ma quando, a due settimane della partenza, venne a mancare il suo amico, mentore e ds della Mercatone Uno Luciano Pezzi, Marco cambiò idea e si presentò alla Grande Boucle, praticamente senza allenamenti. Forse giusto due pedalate sulla salita del suo cuore, il Carpegna. “Mi basta il Carpegna” rispondeva con laconico entusiasmo ai giornalisti che gli chiedevano della sua condizione. E probabilmente il Carpegna gli aveva dato la sua benedizione. Tuttavia si trovò di fronte colossi come Ullrich e Virenque che avevano incentrato la preparazione solo sul Tour.
Ma la partenza fu ritardata dallo scandalo Festina. L’intera squadra dovette lasciare la corsa francese per le sostanze dopanti trovate nelle ammiraglie, fra cui l’EPO. Fu la prima edizione del Tour a rischiare di non terminare, anche a causa della giusta protesta dei corridori, che elessero il Pirata come colui che poteva mettere d’accordo tutte le parti in causa e che venivano trattati come criminali e perquisiti e maltrattati e umiliati. Alla fine, l’accordo fu trovato e il Tour partì, con Pantani che perse molto vantaggio dalla maglia gialla. Ma la sua condizione era in crescendo e sui Pirenei dimezzò lo svantaggio anche grazie alla storica vittoria di Plateau de Beille. Era quarto e l’Italia, in delirio, seguiva e credeva nella rimonta del Pirata.
Rimonta che si concretizzò in una infernale giornata di fredda pioggia sulle Alpi. Pantani usò una frase che aveva già utilizzato e che avrebbe nuovamente usato in seguito: “O salto io o salta il Tour”. Il suo era un ciclismo senza calcoli, epico, antico. Attaccò sul Galibier a meno 50 chilometri dal traguardo. Il gigante in giallo Ullrich crollò. Pantani vinse, la sua foto al traguardo è una delle più iconiche della storia di questo sport. Il Pirata si era vestito di giallo. Contenne senza problemi il tedesco sulle Alpi che provò a dar fondo a tutte le sue energie. Contenne anche il suo vantaggio a cronometro.
La leggenda era compiuta: Marco Pantani aveva vinto nel 1998 sia il Tour de France che il Giro d’Italia. Al suo ritorno a Cesenatico fu accolto da 80.000 persone, fra cui il Presidente del Consiglio Romano Prodi, romagnolo e grande appassionato di ciclismo. Il Pirata era l’idolo delle folle, l’uomo più amato d’Italia. Era diventato un gigante. E quando un gigante crolla fa un rumore assordante.
Sotto la pioggia battente, Pantani si prende il Galibier e la Maglia Gialla
Madonna di Campiglio, tutto cambia in meno di un giorno
Si arriva a Madonna di Campiglio nel 1999 dopo il già accennato attacco sulla Cipressa, dopo la vittoria della Vuelta a Murcia. Dopo l’impresa al Giro d’Italia a Oropa. Qui, ai piedi della salita che porta al santuario, al Pirata in maglia rosa saltò la catena. Si ritrovò ultimo. Poi iniziò una delle più grandi scalate in rimonta della storia dello sport. Superò tutti, cosa che adorava fare. Come quando superò Ullrich, Indurain o Virenque, come quando da piccolo prese la bicicletta di sua madre e su un cavalcavia superò dei ciclisti di pari età su bici da corsa nuove di zecca. Non esultò al traguardo di Oropa perché non era sicuro di averli superati tutti. E così si arriva alla vittoria di Madonna di Campiglio, il popolo in festa, la maglia rosa che taglia il traguardo. Tutto sembrava procedere verso un’altra doppietta Giro-Tour. Marco andò a letto sereno.
Quello che accadde la mattina del giorno seguente a Madonna di Campiglio fa parte dell’immaginario collettivo sia della storia del ciclismo sia della cronaca italiana. Pantani, dopo i controlli di routine, fu sospeso per quindici giorni per un valore di ematocrito leggermente più alto della norma. Non era un caso di positività al doping. Era una sospensione per tutelare la sua salute. Ciò nonostante, dovette lasciare la Corsa Rosa. Per la rabbia spaccò uno specchio con un pugno. Spezza davvero il cuore vedere il Pirata con una maglietta grigia, scortato dai carabinieri e circondato da giornalisti, con un trattamento riservato soltanto ai boss mafiosi, andarsene dal Giro. Dirà due frasi emblematiche, sia a caldo che a freddo.
Mi sono ripreso da tante cadute, ma questa volta rialzarsi per me sarà molto difficile.
E, ancora più forte:
Vogliono vedere chi è un drogato, glielo faccio vedere io come è un drogato.
Pochi mesi dopo il Pirata cominciò a fare uso di cocaina.
All’inferno e ritorno
Pantani avrebbe potuto tornare tranquillamente al Tour de France del 1999, dove oltre a Ullrich si presentò e vinse un redivivo Armstrong, guarito da un grave tumore e con un fisico completamente diverso. Ma non vi partecipò. La delusione era tanta, cadde in depressione e nella spirale terribile della cocaina. Il ds Martinelli provò a convincerlo a partecipare al Tour, al Mondiale o magari alla Vuelta a España per completare la tripla corona. Non accettò. La stampa, gli amici, molti componenti del gruppo lo avevano scaricato. E quella folla festante adesso era divisa. I tifosi lo aspettavano ma l’umore delle masse cambia facilmente. Qualcuno lo fischiava, lo criticava, lo offendeva.
Ci sono alcuni giorni, racconta la madre Tonina nel documentario del 2014, in cui usciva con il completo giallo della Mercatone Uno, bello come il sole. Ma dopo pochi chilometri tornava. Diceva che gli urlavano di tornare a casa. “Vattene dopato” e altre cose che possiamo ben immaginare, purtroppo. Per lui la bici non era più gioia, libertà, sorriso e voglia di vivere come in quella foto da bambino. Adesso era anche tutto il male di un mondo che rappresentava un sistema che non funzionava più, marcio fin nel midollo, che usò Marco come capro espiatorio per tutti. Il lato oscuro era iniziato e il futuro sembrava incerto.
Ma ecco che il Pirata si rialza, seppur in difficoltà fisiche e psicologiche, partecipando al Giro. Non era assolutamente in condizione di vincere ma Nonostante questo, da grande uomo e campione, dopo aver vinto tutto si trasformò in un umile mozzo, un gregario chiamato ad aiutare il campione in erba Stefano Garzelli a vincere il Giro d’Italia. Si presentò poi al Tour de France del 2000. La sfida sembrava stellare: Armstrong, Ullrich, Pantani, Virenque. Riguardo ad Armstrong ci sarebbe molto da dire circa il danno enorme che ha fatto al mondo del ciclismo, il grande imbroglio basato sull’Epo da lui stesso ammesso da Oprah di cui abbiamo già parlato. Ma qua ci interessa la sfida con il Pirata, non ancora al top, nella leggendaria, iconica, epica battaglia sul Mont Ventoux.
Attacchi, contro-attacchi, rasoiate, scatti secchi in quel paesaggio lunare raccontato secoli addietro da Francesco Petrarca. I due rimasero soli. O meglio, Armstrong raggiunse il Pirata dopo il suo scatto, gli disse “alè”. Sarebbero andati su insieme. L’episodio è magistralmente descritto nella rubrica Il Magro Racconta, dove Riccardo Magrini, ex corridore e ora conduttore di Eurosport, spiega di come il Pirata fosse partito male nella scalata e come il suo orgoglio, la sua forza di volontà – che per un periodo, come riportato in molte biografie lo aveva tenuto lontano dalla cocaina – e la sua forza di scalatore fecero sì che superasse tutti per ritrovarsi primo. Poi arrivò l’americano, strafottente, arrogante, sembrava quasi burlarsi di Marco.
Arrivarono alla flamme rouge senza flamme rouge. Il vento era troppo forte per poter allestire bandiere o gazebo. Il traguardo era segnalato solo a terra. E con uno scatto, racconta Magrini, Marco vinse mettendo la sua ruota davanti a quella di Armstrong. Armstrong si arrabbiò moltissimo, come Agamennone nell’Iliade durante il litigio con Achille, punzecchiò Pantani dopo il suo arrivo, probabilmente lo offese. E alla stampa diede la seguente versione vestendosi da re magnanimo: “Ho fatto vincere Pantani, sarà un errore che non ripeterò”.
Ma il Pirata, con uno stato di forma migliore, nella tappa alpina con arrivo a Courchevel, con il suo solito ragionamento “O salto io o salta il Tour”, partì a 16 chilometri dal traguardo e vinse la sua seconda tappa in quel Tour, dando ad Armstrong un minuto e mezzo in classifica. Purtroppo, lo sforzo fu troppo, sia per il caldo che per essersi scordato di mangiare. Passò la notte in bagno e non riuscì a ripartire la tappa seguente.
La morte di Marco, lasciato solo
Pantani non avrebbe partecipato mai più al Tour de France. Fu accusato di essersi ritirato dopo la vera impresa di Courchevel per evitare i controlli antidoping. La grande massa di sedicenti tifosi lo aveva abbandonato. Fu abbandonato dalla stampa, dal gruppo, dai direttori delle corse. Marco entrò nella spirale depressiva che lo portò alla solitudine e alla cocaina. Nel 2001 non riuscì a incidere. Ci fu un terzo ritorno nel 2003 ma non era più il Pirata, era il capitano fantasma di una nave altrettanto fantasma, si può vedere dai suoi occhi tristi e vuoti nei filmati di quell’anno, dove partecipò per l’ultima volta al Giro d’Italia. Non riuscì a partecipare al Tour e non ebbe la forza di presentarsi alla Vuelta.
Marco era solo ed era solo anche quando fu trovato morto in un hotel di Rimini. Secondo l’autopsia, il decesso fu dovuto a un’overdose di cocaina. Forse, come disse nella celebre risposta a Gianni Mura, voleva solo abbreviare la sua agonia, come quando saliva le pendenze impossibili a velocità così alta. Forse ripensò a tutto il male che gli avevano fatto. Fu trovato da lui scritto “La vera ferita è Armstrong”. Che sapesse del The Program? Non lo sapremo mai. O forse ci sono forze oscure sotto. L’ombra più grande. L’ombra della camorra.
Le inchieste furono molte, a seguire un funerale in cui c’erano tutti, straziati e increduli con la bandana gialla al braccio. C’era la madre Tonina, che aveva finito le lacrime ma non la rabbia e il desiderio di giustizia che la mandano avanti ogni giorno, anche oggi. C’erano i suoi amici sinceri della Mercatone Uno. C’era perfino il Pibe de Oro Diego Armando Maradona, suo amico, che rilasciò un’intervista dicendo che siamo stati tutti colpevoli nell’averlo lasciato solo.
La notizia è molto recente. Il 14 luglio 2024 è stato riaperto il caso Pantani. Non ci addentriamo nei meandri giudiziari ma le ombre erano già molte e possiamo facilmente menzionarle: andando a ritroso, resta il dubbio se sia stato omicidio o suicidio e sul suo trattamento dopo Madonna di Campiglio. Resta il dubbio di Madonna di Campiglio, dove uno degli ispettori stessi disse che il test sull’ematocrito fu eseguito in modo non regolare. E poi l’ombra della camorra e delle scommesse clandestine, le intercettazioni in cui personaggi di dubbia moralità affermano, prima di Madonna di Campiglio: “Pantani non arriva a Milano”, “Scommetti pure sul secondo, ci pensiamo noi a Pantani”. Perfino nel gruppo di gara girava quella voce.
La giustizia, sul doppio binario divino e umano, farà il suo corso. E se quella divina la lasciamo a chi per noi, per quanto concerne quella umana c’è solo da essere felici per la riapertura dell’inchiesta, chiedendo a gran voce, a vent’anni dalla sua morte, che Marco abbia finalmente ciò che merita: giustizia. In nome di quel bambino su una bicicletta, che sorride godendosi il semplice fatto di pedalare, che pensa che la bici sia soltanto gioia, libertà, immensa voglia di vivere.
Fatica e sorriso su una bici: il mondo del Pirata prima che tutto crollasse
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