Nel capitolo precedente, abbiamo lasciato un de Coubertin ormai arrivato al termine della sua esperienza a capo del CIO. Con Parigi, le Olimpiadi avevano raggiunto lo status di evento sportivo con la E maiuscola. Tutti sognavano che il proprio nome fosse scolpito per sempre nella storia dei Giochi. Il momento ideale dunque per uscire di scena per il Barone, non prima però di aver lasciato designazioni chiare e precise su quelle che sarebbero dovute essere le sedi future. In passato la scelta della location deputata a ospitare la rassegna fu sempre fonte di ripensamenti, scontri o decisioni dell’ultimo minuto. Questa volta invece – con ben sette anni di anticipo – la nona edizione non avrebbe generato alcun dubbio. I neutralissimi Paesi Bassi sarebbero stati la migliore cornice possibile per la nona edizione. Cominciarono così i Giochi di Amsterdam 1928.
Le Olimpiadi furono un grande successo e rivelarono una volta di più al mondo le potenzialità degli olandesi, una nazione piccola i cui abitanti però erano – e sono tutt’ora – capaci di fare le cose in grande. Se quasi tutte le città ospitanti infatti ebbero diverse grane nell’edificare uno stadio adeguato, al contrario Amsterdam 1928 ebbe come centro nevralgico un impianto per l’atletica nuovo di zecca, costruito su terre paludose bonificate nella nuova regione a sud-ovest della città. Un’opera di ingegneria civile monumentale che andava ben oltre la semplice finalità sportiva, capace di creare nuovi terreni abitabili per una popolazione in costante crescita.
Per risolvere il problema di una pista troppo morbida a causa del terreno umido, gli ingegneri olandesi lavorarono febbrilmente nei giorni precedenti ai Giochi per fornire una base più solida. Vennero introdotte, oltre a un fondo più adatto alla prestazione sportiva, le corsie, che diedero maggiore ordine alle gare di velocità.
Le Olimpiadi sempre più globali
Come nelle edizioni passate, anche per questi Giochi non fu necessario costruire un villaggio olimpico perché molte squadre, in particolare gli Stati Uniti, alloggiarono nelle rispettive navi ormeggiate nel porto di Amsterdam. Gli atleti di Team USA si sistemarono non più nella bagnarola che portò all’ammutinamento di Anversa 1920, bensì nella President Roosevelt, un lussuoso transatlantico dotato di tutti i comfort. Qui però è necessaria una deviazione, accade spesso con gli americani.
Il capo della spedizione olandese era Douglas MacArthur, già figura di spicco dell’esercito americano e futuro personaggio chiave per il secondo conflitto mondiale e la guerra in Corea. Il generale arrivò nei Paesi Bassi con la spocchia e il senso di superiorità tipico degli Yankees dell’epoca, annunciando la squadra americana più forte mai messa in piedi. In realtà i Giochi di Amsterdam 1928 furono il punto più basso della storia olimpica a stelle e strisce: vinsero sì il medagliere, ma con il minor numero di podi di sempre.
Il quotidiano London Evening Standard, con la tipica ironia britannica, ipotizzò che le performance sottotono degli americani fossero da attribuirsi a un trattamento eccessivamente lussuoso goduto dagli atleti a bordo della nave, in particolare per quanto riguarda il cibo. Si calcolavano infatti circa 580 bistecche a pasto a fronte di poco più di 250 bocche da sfamare. MacArthur, si difese sostenendo che quello era la condizione minima prevista per tutti, dagli atleti agli altri ospiti.
Non solo agli atleti, ma anche agli altri ospiti della nave sono state servite le stesse pietanze. Il tenore di vita sulle navi americane è molto alto – molto più alto di quello delle linee concorrenti. Questo non deve essere motivo di biasimo ma di gratificazione.
La cerimonia di apertura dei Giochi si svolse di sabato pomeriggio sotto un plumbeo cielo olandese. Malgrado il meteo avverso, le note di colore arrivarono dalle splendide divise delle delegazioni invitate, 46 in totale, due in più rispetto a Parigi. Tra i più pittoreschi si distinsero i sudafricani, con blazer scarlatti brillanti e copricapi abbinati, i turchi con i tipici fez e gli americani con giacche blu, pantaloni bianchi e cappelli di paglia con una striscia bianca, rossa e blu a richiamare la bandiera. Curiosa fu la decisione del Belgio di vestire i suoi atleti di rosa. Non fu una scelta ma una necessità, visto l’errore nel tingere le uniformi.
Particolare interesse invece generò la prima squadra tedesca a competere alle Olimpiadi dalla Prima guerra mondiale. La delegazione “sembrava un gruppo di steward delle navi” con giacche Eton, camicie rigide e un passo preciso e ordinato in ogni movimento. Anche la squadra italiana sfilò con un portamento militare. Gli atleti azzurri indossavano una divisa verde esercito e, passando davanti alla tribuna reale, esibirono il saluto fascista.
La delegazione italiana saluta il pubblico e gli ospiti del palco reale durante la cerimonia di apertura
Amsterdam 1928 segnò un punto di rottura con una tradizione consolidata fin dalla prima edizione ateniese. Le famiglie reali dei paesi ospitanti, infatti, furono sempre molto coinvolte nelle questioni olimpiche, un po’ per sincero interesse, un po’ perché lo sport era una cassa di risonanza perfetta per strappare consensi. La regina dei Paesi Bassi, Guglielmina, in controtendenza con i suoi predecessori, non prese parte alla cerimonia e non mostrò il minimo interesse per le gare. Un’assenza legata al carattere molto rigido della sovrana, che non riteneva adatto al suo ruolo partecipare a tali manifestazioni. Per la prima volta dunque una rassegna olimpica partì senza la benedizione della casa reale del paese ospitante.
I grandi assenti della sfilata inaugurale furono però i francesi. Il giorno prima dell’inizio dei Giochi, infatti, un guardiano poco disponibile si rifiutò di far entrare gli atleti transalpini nello stadio per una sessione di allenamento. La situazione degenerò nel giro di pochi minuti e il custode dell’impianto giunse alle mani con Paul Méricamp, il segretario generale della Fédération française d’athlétisme. Quando la squadra francese scoprì il giorno successivo che il solerte guardiano non era stato rimosso dall’incarico, decise di boicottare la cerimonia, minacciando addirittura di ritirarsi dai Giochi. Scoppiò un caso diplomatico non indifferente in cui dovette intervenire perfino il Ministro degli Esteri olandese, spedito a L’Aia a negoziare con il suo pari ruolo francese. Solo le scuse ufficiali dal comitato organizzatore e qualche cassa di champagne presentata ai francesi come offerta di pace furono in grado di ristabilire la normalità.
Rimanendo in tema di bevande, le Olimpiadi olandesi si distinsero tra le altre cose per un primato tutt’altro che marginale. Quelli di Amsterdam 1928 furono infatti i primi Giochi con uno sponsor ufficiale. La Coca-Cola, che già aveva gettato le basi per diventare la bibita più famosa del mondo, siglò una partnership con il CIO che avrebbe portato a un legame indissolubile negli anni a venire. Non a caso l’edizione del 1996 – quella del centenario – si svolse proprio ad Atlanta, la città sede della compagnia.
Nel 1928 inizia la collaborazione tra #CocaCola e i Giochi Olimpici. Eccoci alle #olimpiadi di Amsterdam! pic.twitter.com/1exg0B9T9d
— Coca-Cola Italia (@CocaColaIT) June 10, 2015
Arrivano ufficialmente le donne
Nelle edizioni precedenti la partecipazione delle donne fu sempre oggetto di dispute e scontri. Il Barone, con la sua mentalità estremamente influenzata dall’Ottocento vittoriano, non accettava la partecipazione femminile ai suoi Giochi e considerava le poche discipline nelle quali le atlete potevano competere una sorta di contentino, una nota a margine per nulla importante.
Tuttavia, dall’edizione di Amsterdam 1928, si ritiene che il movimento femminile entri ufficialmente a far parte della rassegna olimpica. Questo perché per la prima volta in assoluto, l’atletica – la classe regina delle Olimpiadi – aprì alle ragazze. Il primo impatto non fu certo dei migliori. Le gare furono relativamente poche, con un programma decisamente più ristretto della controparte maschile. La prima storica medaglia d’oro fu della polacca Halina Konopacka nel lancio del disco ma furono gli 800 metri a fare notizia.
Lina Radke – già detentrice del record del mondo – vinse la finale rispettando il proprio ruolo da favorita; tuttavia, ciò che preoccupò i giudici e gli addetti a lavori fu quanto accadde alle sue spalle. Gli osservatori sul posto infatti, raccontarono come più di una concorrente si trascinasse per la pista, crollando a terra dopo il traguardo per lo sforzo eccessivo. Si riaprì dunque una questione che il CIO sembrava aver definitivamente messo a tacere. Più di un delegato infatti riteneva che le donne non avessero la struttura e la preparazione atletica per reggere gli sforzi degli uomini. Non era il caso di esporle a prove così estreme. Perfino Papa Pio XI intervenne nella disputa, schierandosi apertamente contro la partecipazione con parole durissime:
Le competizioni di atletica femminile offendono la fede cristiana e gli usi e i costumi della nostra civiltà.
L’opinione si diffuse a macchia d’olio e influenzò pesantemente le decisioni del CIO. Così, fino ai Giochi di Roma 1960, la distanza massima aperta alle donne furono i 200 metri. Solo prove di velocità, completamente cancellato il fondo e il mezzofondo.
Rimanendo in campo femminile, una delle storie più incredibili di Amsterdam 1928 riguardò la vincitrice dei 100 metri. Elizabeth Robinson a soli 16 anni conquistò la medaglia d’oro in una finale estremamente tesa e tirata, caratterizzata da diverse false partenze (all’epoca non era prevista la squalifica).
La leggenda della nativa di Chicago tuttavia cominciò tre anni dopo quando, coinvolta in un drammatico incidente aereo e ritenuta da tutti morta, venne portata all’obitorio. Malgrado le fratture sparse e la gravissima commozione cerebrale, gli addetti si accorsero per miracolo che la ragazza in realtà era ancora viva. Betty Robinson rimase in coma sette settimane e, al suo risveglio, furono necessari due anni interi di riabilitazione per tornare anche solo a camminare. Una situazione che la costrinse a saltare le Olimpiadi di casa a Los Angeles ma non le impedì di vincere la staffetta a Berlino nel 1936. Siamo di fronte alla storia di una medagliata olimpica data da tutti ormai per morta, che incredibilmente tornò in pista per trionfare otto anni più tardi.
L’atletica maschile ad Amsterdam 1928
Per quanto riguarda gli uomini, ai Giochi olandesi si confermò quella che ormai da dieci anni era la nazione di riferimento, la Finlandia. Paavo Nurmi, arricchì il suo già scintillante palmares con un altro oro e due argenti, mentre Harry Larva, Ville Ritola, Toivo Loukola e Paavo Yrjölä trionfarono rispettivamente nei 1.500 metri, 5.000 metri, 3.000 metri e nelle prove del decathlon.
Da diverse edizioni la maratona non portava alla ribalta personaggi degni di nota o gare da raccontare. Ad Amsterdam 1928, nella prova più lunga trionfò Boughera El Ouafi, un operaio di origine algerina, in realtà arruolato nell’esercito franco-marocchino come portalettere al fronte per le sue straordinarie doti di corsa e resistenza. Vinse una gara emozionante battendo più di 100 avversari attraverso “il tipico paesaggio olandese, tra argini grigi e paludi desolate, punteggiate da mulini a vento coperti di fiori, sotto cieli grigi e acquosi attraverso i quali il sole era incapace di far trapelare anche un solo raggio di incoraggiamento” – per rubare la poetica narrazione del New York Times.
L’oro nella maratona fu il solo acuto ai Giochi Olimpici della carriera di El Ouafi, ucciso in un bar nel 1959. Varie sono le versioni che spiegarono quanto accaduto. I giornali dissero che fu preso di mira da alcuni membri del Fronte di Liberazione Nazionale – il movimento indipendentista algerino – dopo che si era rifiutato di perorare la causa. Altri sostennero che fu vittima casuale di una lite tra gruppi rivoluzionari.
Sempre nella maratona di Amsterdam 1928, il nostro Attilio Canton non riuscì a terminare la prova e fu costretto a ritirarsi a soli due chilometri dal traguardo. Mancava così poco, non poteva stringere i denti e chiudere la minima distanza rimasta? Canton non sapeva che rimanevano solo duemila metri alla linea di arrivo, le indicazioni erano scritte in olandese – lingua decisamente ostica – e il ragazzo era comunque analfabeta. Non aveva la minima percezione di quanto potesse mancare perché non era in grado di interpretare i cartelli. Così, affidandosi unicamente alle sensazioni delle sue gambe, decise di ritirarsi a un nonnulla dalla fine.
Gli Stati Uniti, da sempre dominanti nella categoria, fallirono l’appuntamento con le gare di velocità non centrando neanche un podio tra 100 e 200 metri. Il trionfatore delle due gare – ad aumentare maggiormente lo smacco – fu il canadese Percy Williams che ripeté l’impresa di Archie Hahn nel 1904. Il campione olimpico era allenato da un personaggio piuttosto particolare, tale Bob Granger, che impose delle abitudini a dir poco insolite. Oltre a massaggiare il ragazzo con burro di cocco per migliorarne il recupero muscolare, il coach nelle giornate più rigide era solito coprire Williams con diverse tute per evitare dispersioni di calore e tenerlo pronto alla competizione. Anche ad Amsterdam 1928, mentre gli americani erano in pista a preparare la gara, il canadese rimaneva negli spogliatoi fino all’ultimo momento disponibile, accoccolato in diverse coperte.
Gli asiatici alla ribalta
Se gli americani dovettero scontrarsi con i finlandesi nell’atletica, nel nuoto c’era un’altra nazione che stava facendo passi da gigante, il Giappone. Nelle edizioni precedenti i risultati degli asiatici erano stati molto magri. Ad Anversa soltanto due nipponici erano scesi in vasca con prestazioni peraltro marginali, mentre a Parigi la staffetta della 4×200 metri non andò oltre il quarto posto. Tuttavia, grazie agli allenamenti del leggendario Ikkaku Matsuzawa, la squadra giapponese di nuoto con Amsterdam 1928 conquistò un posto di rilievo nel panorama mondiale.
Matsuzawa era un assistente presso il dipartimento di chimica dell’Università Imperiale di Tokyo con una grande passione per la piscina. Dopo aver ottenuto diverse soddisfazioni come atleta a livello nazionale, Kaku-San – come verrà chiamato dai suoi allievi – divenne il punto di riferimento per il nuoto giapponese. Matsuzawa credeva che per costruire un atleta era innanzitutto necessario plasmare la persona. Quindi, oltre a sedute estenuanti di allenamento, sottoponeva i ragazzi a diete severe e controllate, sempre in un contesto di comunità e mai isolati. Questo avrebbe diminuito l’ansia e stemperato lo stress pre-gara.
Dal punto di vista tecnico, fondamentale fu la collaborazione con il dipartimento di Medicina, per studiare a fondo la fisiologia e la biomeccanica degli atleti in acqua. Grazie alla disponibilità di dati scientifici sempre più specifici, Matsuzawa, riprendendo esercizi anche dalla ginnastica ritmica, concentrò il movimento dei suoi atleti soprattutto nella parte bassa del corpo, ritenendo il colpo di gambe un fattore chiave per aumentare la spinta in piscina. Gli allenamenti furono un grandissimo successo e la squadra giapponese cominciò a raccogliere i primi frutti. Yoshiyuki Tsuruta vinse i 200 metri rana, mentre Katsuo Takaishi ottenne il bronzo nei 100 metri stile libero, guidando i suoi giovani compagni all’argento nella 4×200 metri.
Gli olandesi non erano pronti a un oro nipponico: d’altronde il paese del Sol Levante non aveva un atleta di punta o una squadra in grado di dominare in alcuna specialità. Il momento di massimo imbarazzo si verificò quando, durante la premiazione di Tsuruta, il direttore della banda non aveva idea di come far suonare l’inno giapponese. In fretta e furia dovette andare a comprare lo spartito in un negozio specializzato.
Ai Giochi di Amsterdam 1928 assistiamo alla nascita della più grande dinastia olimpica, con cui forse solo Team USA nel basket può reggere il confronto. Ai tempi il subcontinente indiano non era ancora diviso nel modo attuale: era infatti un protettorato unico sotto il dominio diretto degli inglesi, il Raj o Impero anglo-indiano. Il controllo britannico, oltre a influenzare la cultura e i costumi locali, esportò in India anche la passione per lo sport, in particolare il cricket e l’hockey su prato.
Gli indiani – appena introdotti alla disciplina – vinsero nettamente il torneo di hockey su prato (cinque vittorie su cinque con 29 reti all’attivo e nessuna subita) inaugurando una striscia di imbattibilità che sarebbe rimasta immacolata fino alle Olimpiadi di Roma 1960. Nessuna squadra ha mai vinto e vincerà per così tanti anni di fila ai Giochi. Un trionfo che ebbe una valenza doppia. Non solo l’onore di un oro olimpico ma il grande senso di rivalsa nell’affermarsi come la nazione più forte di fronte ai propri maestri e dominatori.
I Giochi di Amsterdam 1928 si conclusero con la ormai tradizionale cerimonia di chiusura, questa volta presenziata anche dalla regina Guglielmina, che nel corso della rassegna ammorbidì la sua posizione assistendo a qualche finale. Neanche il tempo di pensare alle gare appena concluse che l‘attenzione era già rivolta oltreoceano dove gli americani non vedevano l’ora di dimostrare quanto fossero più avanti rispetto al resto del mondo, a maggior ragione dopo il clamoroso fiasco dei Giochi andati in scena a Saint Louis nel 1904.
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