I primi due anni senza Gianluca Vialli

Sono passati due anni dalla scomparsa di Gianluca Vialli ma rimane ancora uno dei personaggi più amati del calcio italiano.

Mancano due giorni alla finalissima, in casa loro. Solo qualche settimana fa Wembley ci appariva come la Durango di De André per Maddalena: un ricordo cristallino, ma ormai cristallizzato, di antichi fasti strappati via da un fato dall’espressione vagamente sardonica. Eppure eccoci qua, a rosicchiare le pellicine delle dita, a passeggiare nervosamente per casa, a organizzare serate a base di maxischermi in piazza. Non ci basta, non ci può bastare aver eliminato un vecchio lupo di mare come il Belgio ai quarti o una corazzata tutta velluto, eleganza e armonia come la Spagna in semifinale. Ora ci sono gli inglesi, nel loro salotto di casa. Tra i lati positivi troviamo una non proprio indimenticabile tradizione dei servi di Sua Maestà nei tornei continentali ed internazionali, mentre per i lati negativi basta aprire Transfermarkt e dare un rapido sguardo al valore economico della loro rosa.

I nostri ragazzi però sembrano coesi e fortemente inclini a ricreare quel senso di unità e di volontà comune tipico delle migliori versione dell’Italia. Ma una finale è una finale e bisogna fare i conti con una valigia da 20 chili fatta di un’attanagliante tensione e di un continuo fantasticare su quelle che saranno le vibes di sessanta milioni di italiani tra qualche dozzina di ore. Mister Roberto Mancini, col suo solito ciuffo curvo a metà fronte e i suoi modi non sempre accomodanti ma molto spesso efficaci, si è circondato di grandi vecchi draghi della nazionale azzurra: Oriali, De Rossi, Evani e Lombardo sono, idealmente e non, i suoi scudieri in battaglia, i prolungamenti del Mancio laddove il lavoro dello stesso ct non riesce ad arrivare.

E poi c’è ovviamente Gianluca Vialli, il fratello professionale di Roberto. Sono agli antipodi, lo sono sempre stati, ma la forza attrattiva che li lega sembra inossidabile. Gianluca è purtroppo vittima di un tumore al pancreas che lo perseguita da quattro anni, ma da grande ex centravanti lotta, sgomita e allarga il robusto quadricipite a protezione della sua salute. È ormai sera e mancano meno di due giorni all’evento, ma non è importante. Vialli prende la parola nella sala dove tutti sono riuniti. Sta in piedi, unico a farlo in uno spazio sempre più rispettosamente silenzioso. Il viso è temprato dal tempo che scorre inesorabile e da un male che lo corrode e lo tormenta da quel maledetto 2017.

La sua presenza scenica è però granitica e la geografia spaziale di quegli attimi è quella dei momenti migliori: il protagonista, con il suo portamento lucidamente carismatico pronto a catechizzare i presenti e ad esorcizzare i timori. Ha in mano un libretto, del quale decidere di condividere un passaggio con tutti. Riprende un famoso discorso di Theodore Roosevelt riguardante la natura umana e la grandezza di coloro che lottando riescono a raggiungere le proprie vittorie, pur essendo consci che un possibile fallimento del domani sarà solo frutto del coraggio dimostrato nell’agire. Gianluca legge per un minuto circa, a stento trattiene le lacrime e la voce rotta dalla commozione finisce per tradirlo in qualche passaggio. Sa benissimo che la sua clessidra rovescia i granelli al doppio, se non al triplo della velocità normale e sa anche quanto vale quel suo lascito all’Europeo, all’Italia, alla vita.

Al termine del discorso, non appena richiude il libricino sulla sua mano destra, viene subito incalzato da applausi e da “Grande Luca!” vari. Due giorni più tardi, a Wembley, ci regalerà uno degli abbracci più emotivamente laceranti della storia del nostro calcio: si stringono l’uno con l’altro, con Roberto. Siamo campioni d’Europa. I due gemelli del gol hanno colpito ancora, a distanza di trent’anni esatti da quando con la Samp scioccarono l’intera penisola del pallone vincendo Scudetto e Supercoppa italiana. Sono stati lo yin e lo yang, l’aristocrazia e la ribellione, il 9 e il 10, la fame brutale e ancestrale di calciare per spaccare la porta e l’imbucata verticale tra terzino e centrale capace di mandare in tilt un intero reparto. A cavallo tra gli ultimi due decenni del secolo scorso hanno riacceso la pipa e il vigore impolverato del Baciccia che campeggia in campo blucerchiato.

Negli anni genovesi hanno vinto e condiviso tanto, ma quello del 2021 è un trionfo unico. È stato l’ultimo grande ballo insieme, l’ultima apparizione a un grande torneo con gli azzurri dopo gli sciagurati anni ’90 da calciatori della Nazionale. E se da un lato Mancini rappresenta il vero e proprio comandante della spedizione vittoriosa, dall’altro Vialli ha avuto il merito di incarnare lo spirito umano e valoriale del gruppo. Nel format Fenomeni di Prime Video, Leonardo Bonucci ne ha parlato come un “insegnamento quotidiano, un esempio umano che ha dato tantissimo al gruppo, uno che la mattina andava in palestra o a correre nonostante la difficile situazione nota a tutti”. Tutti elementi che ne sottolineano una volta ancora, qualora ce ne fosse bisogno, lo spirito di indomabile umanità che lo ha contraddistinto anche nel momento più buio.

L’abbraccio tra Roberto Mancini e Gianluca Vialli a Wembley

La mistica attorno alla figura di Gianluca Vialli

Gianluca Vialli si è spento il 5 gennaio del 2023 all’età di 58 anni. Il suo ricordo è stato abbracciato e rimboccato con calde coperte in lana dal suo inseparabile Roberto, dalla Cremonese, dalla Sampdoria, dalla Juventus, dalla Nazionale e dal Chelsea, di cui è stato giocatore ed allenatore. In generale, tutto il mondo del calcio continentale si è stretto intorno al ricordo di uno degli attaccanti più forti degli anni Novanta. La sua figura è oggi legata specialmente alle grandi vittorie da calciatore e all’Europeo del 2021, ma sarebbe quanto mai delittuoso scindere i risultati di campo dall’essere umano. Come spesso accade a seguito di uno strano, forse subdolo, meccanismo mentale dell’opinione pubblica, la caduta di un eroe ritenuto invincibile e il palesarsi della sua fragilità terrena fanno sì che si attivi un particolare sentimento di vicinanza ideologica al suddetto paladino caduto.

Quello con Roberto Baggio, seppur con dinamiche differenti, ne è il parallelismo più incastonabile: Pasadena non può e non deve essere sovrapponibile all’avvento di un male subdolo come un tumore, ma l’ideale di caduta che sta dietro ai due momenti può essere, per certi versi, assimilabile. Un’altra caratteristica che unisce i due fuoriclasse azzurri è la parabola professionale intrapresa. Non è tanto un discorso di squadre in cui hanno giocato – anche perché l’unica che hanno in comune è la Juventus – quanto di percorsi intrapresi. Entrambi hanno calcato grandi, grandissimi palcoscenici, Gianluca ha vinto una Champions League e Roby ha preso per mano l’Italia a USA ’94 fino alla sciagurata finale, ma ciò che veramente ne ha fatto un oggetto di culto per il nostro Paese è stata la loro detonazione in contesti solo apparentemente subordinati ai grandi stadi della Serie A di fine Novecento.

La migliore versione del Divin Codino, semmai sia possibile individuarla nell’arco di una carriera straordinaria, tralasciando la maglia azzurra, si è probabilmente vista a Brescia, nel suo crepuscolo, quando Carletto Mazzone ne fece il comandante in capo di una delle più belle “squadre di provincia” degli ultimi trent’anni di calcio italiano. Lo stesso Vialli, pur avendo trascorso un quadriennio vittorioso a Torino, lega inesorabilmente il proprio nome al vecchio marinaio Baciccia e alla Genova blucerchiata, a cui ha procurato un biglietto extralusso per l’Olimpo.

Una scalata fulminea che, a un anno di distanza dallo storico scudetto del 1991, si sarebbe potuta tramutare in un’impresa omerica nella Coppa dei Campioni 1991-92. Un’edizione a modo suo inedita, quantomeno nella struttura: nella fase a eliminazione diretta, i quarti e le semifinali erano stati sostituiti da due giorni all’italiana, le cui prime classificate sarebbero state le finaliste. La finale, guarda un po’, era in programma a Wembley. La contendente al titolo era il dream team di Johan Cruijff, Hristo Stoickov e Ronald Koeman, nonché di un giovane Josep Guardiola. Un Barcellona probabilmente inferiore rispetto alle sfavillanti versioni blaugrana del nuovo millennio ma architettato dal genio olandese in panchina con precisione certosina.

La partita era scivolata via per quasi due ore di gioco senza gol, con i due numeri uno, Pagliuca e Zubizarreta, veri protagonisti del match. Fino a quando, al minuto 112, un missile terra aria di Koeman su calcio di punizione non aveva regalato la prima Coppa dei Campioni ai culers catalani e riportato bruscamente la Samp con i piedi per terra. Vialli aveva giocato fino al primo tempo supplementare, per poi lasciare spazio al non irreprensibile Renato Buso. Non era stata una delle sue grandi serate e Gianluca lo sapeva: aveva più volte, invano, sparato contro Zubizarreta, ma niente da fare.

Dopo lo scotto si trasferisce alla Juventus, lasciando però aperta una ferita con il tempio di Wembley che riuscirà a rimarginare solamente 29 anni più tardi. Ma se la caduta da una tale altitudine era stata dolorosa, è bene soffermarsi anche sull’altra parte del moto, ovvero il decollo e il volo verso il sole, rappresentato dal tricolore conquistato nella stagione precedente. Quella Sampdoria, guidata dall’enciclopedico Vujadin Boškov, era una squadra che, se non per lo scudetto, appariva ormai matura per consolidare il proprio status nelle vette alte della classifica: aveva conquistato tre coppe Italia e una Coppa delle Coppe nel giro di cinque anni e la rosa esplodeva di grandi nomi.

Oltre alla coppia d’attacco, Boškov poteva contare su una colonna vertebrale di alto livello composta da Gianluca Pagliuca in porta, Vierchowod e Pellegrini sulla retroguardia e Cerezo come costruttore di gioco, con al lato Attilio Lombardo, una delle ali più impattanti dell’epoca. Nonostante l’ingombrante ombra del Milan di Arrigo Sacchi e dell’Inter trapattoniana, la squadra era riuscita a chiudere con un vantaggio di cinque punti su entrambe le squadre meneghine, oltre che a più 11 sui rivali cittadini del Genoa. Al di là del grande traguardo della finale di Champions conquistata l’anno successivo, è probabilmente nel 1991 che si chiudono i sette anni più belli della storia della Sampdoria. Gianluca Vialli, manco a dirlo, era stato capocannoniere con 19 reti.

Con la maglia azzurra, invece, la carriera dell’attaccante cremonese ha vissuto periodi di alterne fortune: nel Mondiale casalingo non era infatti riuscito a ritagliarsi un posto di primo piano all’interno del gruppo, per poi essere tagliato fuori dalla lista dei convocati da Arrigo Sacchi per il torneo statunitense a causa di una tenuta fisica non ottimale e di un rapporto ondivago con l’allenatore emiliano.

La scomparsa di Gianluca Vialli è un inno alla vita

Nel corso di un’intervista del marzo 2022 a opera di Alessandro Cattelan per Netflix, Vialli, interrogato sul rapporto con le proprie figlie in relazione alla malattia, ha affermato che “è giusto che i figli seguano l’esempio dei genitori prima ancora che le parole”. In quel momento mancano meno di dieci mesi alla sua scomparsa in una clinica londinese, lui questo non può saperlo ma, pur ben conscio “di non poter morire di vecchiaia”, dà l’idea di un uomo in pace con se stesso, pronto ad accogliere il proprio destino con la serenità d’animo di chi sa che è inutile rammaricarsi per qualcosa che è fuori dal controllo umano e che è giusto vivere gli ultimi moti esistenziali a cuor leggero e senza eccessivi patemi. La sua espressione, contestualizzata con le parole pronunciate, rivela questo suo sentimento di stabilizzazione emotiva, talvolta coronato da una patina di ineluttabile malinconia.

Ma il suo slancio umano vince su tutto, la consapevolezza della condizione lo rasserena a tal punto che sottolinea come “il cancro non è un nemico, è solo un compagno di viaggio che spero che prima o poi si stanchi”. La sua lucida resistenza alle onde d’urto e il granitico ottimismo ne fanno, idealmente e non, un inconsapevole discepolo fuori tempo di Zenone di Cizio, fondatore dello stoicismo nel 300 a.C., il quale riteneva che l’armonia umana potesse essere raggiunta solo conducendo un’esistenza equilibrata in accordo con il logos, la ragione divina e universale che impregna il mondo e lo dirige. Un’accettazione attiva dell’imponderabile che irradia l’animo e lo spirito degli uomini lucidi e razionali di ogni epoca.

Gianluca Vialli è stato un aristocratico, più probabilmente un lord o un baronetto all’interno di una geografia muscolare da feroce oplita spartano. Ha iniziato la sua carriera a sedici anni nei campi di periferia della Serie C dei primi anni Ottanta e l’ha chiusa con quindici trofei in bacheca tra Italia, Inghilterra ed Europa. Ha mosso i primi passi a Cremona, a casa sua, e ha spezzato la camminata a più di mille chilometri a nord, in quella Londra che è diventata la sua dimora fuori dall’Italia, restando sempre saldo e fedele al sentimento di coerenza valoriale che lo ha accompagnato per quasi un ventennio nei campi di tutto il continente. E oggi, a distanza di due anni e poco più da quel maledetto giorno del gennaio del 2023, possiamo dirci un po’ più depauperati di umanità e romanticismo nel vivere lo sport più bello del mondo.

I gol più belli della carriera di Gianluca Vialli scelti da Dazn