Endre Boros, la vittima della Shoah che sognava la Serie A

Endre Boros è stato uno dei tanti calciatori e sportivi vittime della Shoah.

Questa è una storia di sport e persecuzione, di un ragazzo che ha cercato il proprio posto nel mondo facendo ciò che amava: giocare a calcio. Ma invece di trovare una strada luminosa, ha incontrato un terreno minato, disseminato di ostacoli causati dalla sua religione. Così, il nome di Endre Boros, che avrebbe potuto brillare negli almanacchi del calcio, è invece scolpito in una lista di tutt’altra natura: quella delle vittime della Shoah.

 

Chi è Endre Boros: esordi e primi problemi

Endre Boros nasce il 13 novembre 1901 a Neszmély, un piccolo paese dell’Ungheria. All’epoca, il suo Paese era ancora parte dell’Impero austro-ungarico, una realtà geopolitica destinata a sgretolarsi nel giro di pochi anni. La dissoluzione dell’Impero e l’instaurazione della Repubblica dei Consigli d’Ungheria nel 1919, poi trasformata in monarchia, segnano l’inizio di un periodo turbolento. È proprio nel mezzo di questa instabilità che Endre avvia la sua carriera calcistica, debuttando nella massima serie magiara. E non in una squadra qualunque. L’MTK Budapest, il club che lo accoglie, è già una potenza del calcio ungherese, con sei titoli nazionali in bacheca, inclusi gli ultimi tre consecutivi. Ancora oggi, l’MTK è la seconda squadra più titolata della NB1, alle spalle dei rivali cittadini del Ferencváros.

La prima stagione di Boros – attaccante di ruolo – non è da titolare, ma è sufficiente a lasciare intravedere del potenziale. In tre presenze segna tre gol, contribuendo al dominio dell’MTK, che chiude il campionato con 26 vittorie, un pareggio e una sola sconfitta, con un incredibile +10 sulla seconda classificata, il Kispesti (oggi Honvéd). Numeri impressionanti: 113 gol segnati e appena 17 subiti. Eppure, emergere non è facile. Davanti a lui c’è un talento straordinario, György Orth, coetaneo ma già una stella. Orth aveva esordito in NB1 a soli 14 anni con il Vasas, per poi approdare al Pisa nel 1916 e in Nazionale poco dopo. Nel campionato 1919-20, Orth non solo è capocannoniere con 28 gol, ma vanta già 5 presenze e 2 reti con la selezione magiara.

Ma la concorrenza con Orth non è il vero ostacolo che frena Boros. La vera ombra che si staglia sul suo futuro è la sua identità religiosa: Endre Boros è ebreo. Un dettaglio che, nel contesto ungherese dell’epoca, pesa come una condanna.

 

Un’Ungheria ferita e il seme dell’odio

La Prima guerra mondiale è finita, ma i suoi effetti devastanti sono ben visibili. L’Ungheria, uscita sconfitta, subisce il colpo più duro con il Trattato del Trianon, che mutila il Paese di oltre due terzi del territorio. Milioni di ungheresi si ritrovano improvvisamente stranieri nelle terre annesse agli Stati confinanti. Ma non è solo una questione territoriale. La Repubblica dei Consigli d’Ungheria, seppur effimera, aveva incarnato agli occhi di molti il volto di una rivoluzione giudaico-bolscevica: Béla Kun, il leader, era ebreo, e 20 dei 26 membri del consiglio erano di religione ebraica. Questo alimenta un sentimento di intolleranza verso la comunità ebraica, che, sebbene già radicata e attiva nel tessuto economico e sociale – rappresentava il 6% della popolazione ma il 50% dei commercianti – diventa il capro espiatorio perfetto.

Non si parla ancora di persecuzioni sistematiche, ma il clima è pesante. Boros lo avverte sulla propria pelle. Costretto a lasciare l’MTK, ripiega nel 33 FC, un club meno prestigioso. Ma nemmeno questo basta: l’Ungheria non è più il luogo dove può costruirsi un futuro.

 

L’Hakoah Vienna: rifugio e simbolo

Nel 1922 Boros lascia il suo Paese e si unisce all’Hakoah Vienna, un club fondato da sionisti austriaci e composto prevalentemente da giocatori ebrei. L’Hakoah non è solo una squadra: è un simbolo di resistenza e unità, un faro per gli ebrei appassionati di calcio sparsi nel mondo. Partecipa al campionato nazionale ma si impegna anche in tournée internazionali, con lo scopo di consolidare una rete di legami culturali e sportivi. Purtroppo, le tracce di Boros in questi anni sono frammentarie. È probabile che abbia fatto parte della rosa dell’Hakoah anche nella stagione 1924-25, quella dello storico titolo nazionale del club. Le cronache calcistiche riporteranno nuovamente il suo nome solo nel 1926, in un contesto completamente diverso: a Roma.

Endre Boros - Puntero

Una formazione dell’Hakoah Vienna, campione d’Austria nel 1925

 

A Roma, la fine prima dell’inizio

La stagione 1926-27 rappresenta una parentesi singolare nella storia della Fortitudo Pro Roma, la squadra che accoglie Endre Boros. Dopo l’introduzione della Carta di Viareggio, era stata istituita una Divisione Nazionale, che prevedeva la partecipazione di due club capitolini – l’Alba Audace e, appunto, la Fortitudo – al massimo campionato italiano. Alla guida della Fortitudo c’è Italo Foschi, uno degli artefici della stessa Carta di Viareggio, che però non si accontenta di una semplice partecipazione al campionato. Foschi immagina una squadra romana capace di competere con lo strapotere delle formazioni settentrionali e lavora per un progetto ambizioso: la fusione delle principali realtà calcistiche della capitale. È così che la prima stagione di Boros a Roma diventa anche l’ultima nella storia della Fortitudo.

Un’annata tutt’altro che memorabile, almeno sul campo. La squadra rossoblù chiude all’ultimo posto del Girone B con un magro bottino: 5 punti in 18 partite, frutto di due vittorie, un pareggio e ben 15 sconfitte. Anche per Endre – o meglio, Andrea, nome che il regime fascista gli impone con la forzata italianizzazione – il bilancio è modesto: 9 presenze e 3 gol. Eppure, in una squadra che segna appena 18 reti in tutto il campionato, le sue cifre assumono un peso diverso, rivelando comunque una certa incisività.

Ma a Roma, in quel momento, l’attenzione è tutta proiettata verso il futuro. Il progetto di Foschi prende forma, e il 7 giugno 1927 viene ratificata la fusione: nasce l’A.S. Roma, destinata a rappresentare la capitale nel massimo campionato italiano. La neonata società eredita dal Roman – il club più piccolo ma anche il più ricco – i colori giallorossi e guarda con ambizione alla Divisione Nazionale 1927-28. La questione dell’organico è cruciale, e una prima impronta viene data nell’amichevole inaugurale della nuova squadra. Endre Boros è in campo, ma per lui sarà solo un ultimo, fugace bagliore.

 

La Roma, l’Ungheria e un destino comune

Domenica 17 luglio 1927, al Motovelodromo Appio, la Roma scende in campo per la prima partita ufficiale della sua storia. Il giorno prima era toccato alla squadra riserve inaugurare la stagione, ma ora è il momento della formazione principale. Indossa la divisa giallorossa del Roman, recuperata per l’occasione da Giorgio Carpi, ex calciatore del Roman e figura simbolica del club capitolino. A guidare la squadra è una coppia di tecnici: Pietro Piselli, ex allenatore dell’Alba Audace, e l’ungherese József King, già alla guida della Fortitudo.

La formazione è un mosaico di giocatori provenienti dalle due squadre più prestigiose della fusione: sei dall’Alba, cinque dalla Fortitudo e nessun reduce del Roman. Tra loro c’è Endre Boros, schierato nel reparto avanzato accanto a un altro ungherese, Tomasz Heger. Curiosamente, l’avversario della Roma è una squadra ungherese, l’Újpesti TE, che in patria si sta affermando ma non ha ancora conquistato alcun titolo. Per Boros, è una sfida dal sapore speciale: da quando ha lasciato l’Ungheria, non ha mai più affrontato una formazione della sua terra natale. La partita si chiude con una vittoria per la Roma, che si impone 2-1 grazie ai gol di Enrico Cappa e Heger, intervallati dalla rete di Gábor Szabó per l’Újpesti.

Su Il Messaggero, il giorno dopo, si celebra il successo ma non mancano le critiche. La difesa viene lodata per la solidità, ma l’attacco appare poco incisivo, privo di un finalizzatore. Nel resoconto si sottolineano i limiti di Heger e Boros, e il quotidiano liquida quest’ultimo con una frase lapidaria:

“E di questi due ormai è inutile più parlare.”

Un giudizio spietato, ma non casuale. Per la Roma, quella partita è l’inizio di una nuova era; per Boros e Heger, rappresenta la fine di un capitolo.

 

L’addio al calcio italiano e un destino incerto

Le politiche del regime fascista decretano la fine dell’avventura italiana di Endre Boros. Una nuova norma impone il rimpatrio di tutti i calciatori stranieri privi di origini italiane. Nella Roma, l’unico a rimanere è l’argentino Arturo Chini Ludueña, che può vantare radici italiane. Heger torna in Ungheria, ma per Boros la situazione è più complessa: in patria non è ben accetto e in Italia non può più giocare.

Costretto a vagare per l’Europa, si trova di nuovo a fare i conti con un’identità che è per lui tanto una fonte di orgoglio quanto una condanna. Sbarcare il lunario diventa una necessità, e il calcio – il sogno che un tempo gli aveva dato una direzione – scivola sempre più ai margini della sua vita.

 

Il cerchio di Endre Boros si chiude in un lager

Di ciò che accade nella vita di Endre Boros dopo l’Italia si sa poco. Le tracce della sua carriera riaffiorano nel 1932, quando il suo nome compare negli annali del Brühl San Gallo, club della seconda divisione svizzera. Probabilmente la scelta di rifugiarsi in Svizzera, un Paese neutrale, fu dettata dalla necessità di sfuggire a un clima sempre più ostile. Ma la parabola calcistica di Boros era ormai in declino. Se i limiti caratteriali citati da Il Messaggero hanno giocato un ruolo, è più probabile che siano stati fattori esterni, legati alla sua identità e alla complessità del periodo storico, a soffocare i suoi sogni di calciatore.

Dopo l’esperienza al Brühl, la sua vita rimane avvolta nel mistero. Non si hanno notizie su dove abbia vissuto o giocato nei dodici anni successivi, fino a che il suo nome riappare in un contesto tragico.

 

Da rifugio a trappola: l’epilogo a Mauthausen

Il destino è stato crudele con Boros fino alla fine. Nel 1944, si trovava nuovamente in Austria, il Paese che un tempo gli aveva dato un’opportunità attraverso l’Hakoah Vienna. Ma questa volta non c’era un campo di calcio ad accoglierlo, bensì le mura di Mauthausen, uno dei campi di concentramento più spietati del regime nazista. Endre Boros morì lì, come una delle circa 90.000 vittime del lager. La data della sua morte non è certa, ma secondo alcune testimonianze sarebbe avvenuta il 21 agosto 1944. L’ultima pagina della sua vita si chiuse in uno dei luoghi più oscuri della storia, un simbolo dell’odio e della brutalità che già avevano segnato la sua carriera.

Di Manuel Fanciulli

Laureato in giurisprudenza e padre di due bambini, scrivo di sport, di coppe e racconto storie hipster. Cerco le risposte alle grandi domande della vita nei viaggi e nei giovedì di Conference League.