Sebbene non si possa parlare propriamente di fulmine a ciel sereno, quella arrivata alla vigilia della sfida contro la Moldavia ha sicuramente i contorni della “notizia bomba”: Luciano Spalletti non sarà più il commissario tecnico azzurro. Ma non si tratta di dimissioni, come si poteva pensare: è stato un esonero deciso dalla FIGC. Si tratta dell’ennesimo passaggio che certifica la crisi della nazionale, una problematica ormai pluriennale ma che ancora sembra sorprendere tutti.
Tutti colpevoli. Ma fino a che punto?
La federazione ha emesso la sua sentenza: il colpevole è Spalletti, scaricato senza appello. Lo ha fatto in maniera decisamente poco elegante, senza esporsi: è stato lo stesso tecnico di Certaldo a dichiararlo in conferenza, nonostante il presidente federale Gravina avesse parlato il giorno stesso, glissando sulla decisione finale e, anzi, sostenendo che la Norvegia fosse una “corazzata”. Un’investitura forse eccessiva ma che fa da contraltare a un presupposto: per mesi la Norvegia è stata ingiustamente snobbata. Se è vero che da anni fatica ad approdare alle grandi manifestazioni internazionali, è altrettanto sotto gli occhi di tutti che facciano parte della rosa giocatori di livello europeo, a partire da Haaland, il miglior centravanti al mondo. Secondo il popolo calciofilo, l’Italia, col suo blasone, non dovrebbe preoccuparsi di una nazionale che da 25 anni manca l’accesso alle grandi competizioni.
Dire che Spalletti sia stato perfetto nella sua gestione sarebbe un chiaro errore. Ma anche ritenerlo l’unico colpevole è piuttosto eccessivo. L’ex allenatore del Napoli è subentrato a Mancini a ridosso di un Europeo rivelatosi insoddisfacente ma l’unica sua colpa è stata quella di aver accompagnato scelte talvolta cervellotiche con un’abilità comunicativa spesso fuori registro. Ha escluso a lungo Riccardo Orsolini, apparentemente fuori dal suo progetto tattico ma poi richiamato a furor di popolo. Allo stesso modo, dopo aver escluso Francesco Acerbi per motivi anagrafici, lo ha richiamato come “Haaland Stopper”, impermalosendosi per il rifiuto del centrale dell’Inter. Ha dichiarato il proprio dispiacere in conferenza stampa per non aver convocato Gianluca Mancini, salvo sostituire gli infortunati del reparto arretrato con Ranieri e Rugani.
In difesa del tecnico, hanno fatto molto rumore, nel giorno successivo alla disfatta per 3-0 con la Norvegia che complica il cammino verso il Mondiale del 2026, le parole del tecnico Silvio Baldini, arrivate – con lucidità piuttosto invidiabile, visto il momento di gioia a livello personale – al termine della vittoria ai rigori del suo Pescara nella finale dei playoff di Serie C:
Se l’Italia ha perso 3-0 contro la Norvegia non è il problema se c’è Spalletti, c’è Conte, c’è Lippi, c’è Capello. Il problema è che creano una generazione di persone che non sanno più nemmeno che cos’è la bandiera italiana, che cosa vuol dire indossare la maglia azzurra. La nazionale, quella vera, per me era quella dell’82. Quella che ha vinto con Scirea, con Tardelli, con Conti, con Graziani, con Rossi, quelli lì sono stati eroi. Zoff, Collovati, tutti questi giocatori. Quello era il calcio, quelle erano persone che per il loro allenatore hanno vestito la maglia azzurra. E quindi se i nostri dirigenti non capiscono queste cose andranno sempre avanti lestofanti.
Un’accusa forte in assoluto ma, soprattutto, parole perfette da dare in pasto ai forconi social di quest’epoca, in un momento in cui l’Italia viene da due mancate qualificazioni alla competizione iridata. In sostanza, Baldini ha buttato la croce addosso all’establishment del calcio italiano e ai calciatori, a suo dire poco onorati di giocare in nazionale. Una circostanza che probabilmente ha anche un fondo di verità, che suona perfetta per l’attuale situazione alla luce della già menzionata querelle tra l’ormai ex ct e Francesco Acerbi ma che forse è più una chiacchiera da bar che un’analisi realistica.
Baldini evidenzia come “la vera nazionale sia quella del 1982” che tuttavia, nel percorso di qualificazioni, ha perso 3-1 contro la Danimarca, all’epoca mai qualificata ai Mondiali né agli Europei. Discorso analogo si può fare per l’Italia del 2006 che nel girone di qualificazione – in cui, ironicamente, figuravano anche Norvegia e Moldavia – ha perso 1-0 in Slovenia, punita da un gol di Boštjan Cesar, che di lì a qualche anno sarebbe divenuto una bandiera del Chievo. Senza nulla togliere a una disfatta ingiustificabile, la logica che regge le nazionali è diversa da quella dei club e non è un disonore perdere, al termine di una stagione molto faticosa e senza diversi uomini importanti, contro una squadra di qualità. Ed è proprio il talento uno dei punti centrali del dibattito calcistico italiano.
La ciclicità del talento alla base della crisi della nazionale
Le già menzionate chiacchiere da bar – o da social, per adeguarle ai tempi moderni – ci riportano una narrativa sempre più diffusa, quella che vorrebbe il talento nostrano non sufficientemente tutelato dalle squadre di club. Entrando più nel merito, sempre più spesso sentirete e leggerete il pubblico italiano dire che il calcio è in mano ai procuratori e vanno avanti i raccomandati, mentre allenatori e società non fanno giocare i giovani bruciandoli. Oppure che nelle categorie inferiori esistono talenti eccellenti e molto migliori degli stranieri che popolano la Serie A, spesso vituperati, almeno finché non raggiungono lo status di fuoriclasse.
Strumentale a questa corrente di pensiero, ormai sempre più maggioritaria, è anche il recente servizio de Le Iene – che, d’altronde, sguazza da sempre in queste modalità sobillatorie – sui pagamenti richiesti per ottenere un posto nell’organico di una squadra di Serie C. Una vicenda sicuramente reale ma che non rappresenta la centralità del problema, come non lo è nessuna delle frasi tanto di moda tra tifosi e, spesso, occasionali del calcio italiano. La verità è che il talento calcistico, in Italia, è ai minimi storici. E non dipende ovviamente dal fatto che i ragazzi non giocano più a pallone per strada, nei campetti e negli oratori, altra argomentazione che sta assumendo i contorni della mitologia.
Semplicemente, se da una parte la carenza di strutture – quello sì, un problema federale che occorrerebbe sistemare – non aiuta, dall’altra è la direzione che sta prendendo il calcio a compromettere il movimento. L’Italia ha dato da sempre il meglio quando a comandare era la tattica, una qualità in cui siamo maestri ma che oggi non basta più. La tenuta difensiva, agevolata da un sistema calcio che premiava la creazione di campioni nei ruoli conservativi rispetto a quelli creativi, ha permesso agli azzurri di costruire il proprio palmarès, oggi ritenuto sufficiente dall’italiano medio per avvalorare in assoluto l’intero movimento. In un calcio più fisico e dove si tende a segnare di più, la mancanza di giocatori strutturati e bomber di razza – problema annoso, considerando che il miglior marcatore azzurro di sempre ha segnato meno della metà del suo pari in ogni altra grande nazionale – ci sta penalizzando in maniera radicale.
Non che sia la prima volta: da spettatori abbiamo assistito spesso a oscillazioni di talento in altre grandi nazionali: basti pensare alla Spagna. Campione d’Europa in carica, la Roja ha vivacchiato per decenni, con un solo successo continentale nel 1964, proprio nel cuore del periodo più oscuro della sua storia calcistica, nel quale ha collezionato solo due partecipazioni in sei edizioni dei Mondiali. Peraltro raddoppiando – 1950 e 1954 la prima volta, 1970 e 1974 la seconda – l’impresa negativa compiuta dall’Italia nel fallire l’accesso alla rassegna iridata per due edizioni di seguito. Dal 2008, tuttavia, le cose sono radicalmente cambiate: un Mondiale, tre Europei, una Nations League, cui si aggiungono i risultati della selezione olimpica (un oro e un argento) e dell’Under 21 (tre titoli europei).
Un discorso analogo può essere fatto per la Francia: un percorso più o meno simile a quello degli iberici, ancorché traslato di 20 anni (Europeo vinto nel 1984, mancata partecipazione ai Mondiali nel 1970 e 1974 e nel 1990 e 1994) prima dell’esplosione in concomitanza del Mondiale disputato in casa nel 1998. Da allora due Mondiali e altrettante finali perse, un titolo Europeo e una Nations League. Se sicuramente la programmazione e la presenza di strutture adeguate hanno aiutato, così come ha contribuito pesantemente un impianto legislativo – conseguenza del sentire comune – molto meno refrattario nella concessione della cittadinanza, è di tutta evidenza come queste nazionali (così come l’Inghilterra, ancora a secco di successi recenti ma in crescita costante) abbiano beneficiato della direzione che sta prendendo il calcio.
Esattamente come accade in Sud America, dove si assiste in maniera ormai inesorabile all’inversione dei poli calcistici, con l’Argentina in una posizione di forza che ha messo in ombra il Brasile, un Paese dalla grande tradizione pallonara e in cui sicuramente si gioca per strada e nei campetti ma con risultati in netto calo. Per contro, altri movimenti che in passato hanno dominato il calcio si sono trovati a vivere momenti di buio, come Uruguay, Ungheria o Paesi Bassi. In tal senso, il successo agli Europei nel 2021 ha regalato una gioia ma ha anche illuso di poter nascondere sotto il tappeto la polvere della realtà.
È davvero possibile cambiare qualcosa?
L’Italia sta semplicemente vivendo la sua Banter Era. Il mondo cambia, il calcio si è globalizzato e con lui si è spostato anche l’equilibrio sportivo. Disciplina dopo disciplina, la geografia dei successi si è riscritta. Fino a qualche anno fa era impensabile che l’Italia potesse vantare un numero uno al mondo nel tennis, un oro olimpico nei 100 metri di atletica leggera, il livello altissimo raggiunto dalla pallavolo femminile (anche nei club) o lo slancio del nuoto, dove siamo passati dalle sette medaglie olimpiche complessive di tutto il Novecento – di cui un argento e sei bronzi – alle ventiquattro medaglie, di cui sette d’oro, nelle ultime sette edizioni dei Giochi.
Se il talento c’è ma non viene coltivato, allora si può dire che la mancanza di strutture adeguate rappresenta un vero problema. Ma il problema di oggi è che il talento è sempre più raro: il calcio si pratica meno di un tempo e al momento del salto di qualità i giovani si perdono. Le nazionali giovanili azzurre sono competitive fino all’Under 21. Da lì, lo scenario cambia drasticamente. Le convocazioni del ct Nunziata per l’Europeo di categoria hanno messo in luce, al netto del buon inizio nella rassegna continentale, una delle selezioni meno attrezzate degli ultimi decenni. Lo stesso Nunziata lamenta il fatto che i suoi giocatori abbiano ancora troppo poco spazio nei club, ma il problema pare sia da ricercarsi nello scalino eccessivo tra la Primavera e il calcio dei grandi.
Troppo poco allenanti le giovanili in termini di intensità, nonostante i lodevoli tentativi dei ct di promuovere in nazionale alcuni ragazzi ancora in età Primavera, come accaduto con Zaniolo o con Pafundi, rivelatisi per motivi diversi due cavalli non esattamente vincenti. Il dislivello è talmente ampio che anche le nostre poche squadre B hanno faticato a esprimere talenti: si pensi a Francesco Camarda, giovane promessa incensata dall’opinione pubblica, su cui la tifoseria milanista – e non solo – ha puntato moltissimo. Ma che, pur con mille scusanti, ha chiuso la sua prima stagione in Serie C con un gol ogni 284 minuti, circostanza che induce a pensare che il ragazzo avrebbe fatto enorme fatica se inserito – come richiesto a furor di popolo – con continuità in un contesto più competitivo, finendo addirittura per rischiare di bruciarlo.
Non aiutano neanche le dinamiche economiche del nostro calcio: le risorse si riducono, ma le valutazioni di mercato restano sproporzionate, senza tenere conto del potere di spesa dei club – una neopromossa inglese può spendere più di una big italiana – e della “concorrenza” dall’estero: l’impressione netta è che, a parità di valore tecnico, comprare un giocatore proveniente da una squadra italiana costi il doppio rispetto a quanto accadrebbe da un altro campionato. E, visto che le società di calcio non sono delle Onlus, i bilanci e la classifica contano più della prospettiva tecnica su scala nazionale.
Oggi siamo in un limbo da cui neppure la vittoria, modesta e priva di slancio, contro la Moldavia è riuscita ad allontanarci. Al di là del dibattito prevalente, il disamore per l’azzurro è palpabile, tra la gente, ma anche tra molti calciatori. Qualche vecchia gloria come Fabio Capello si indigna per i rifiuti a vestire la maglia della nazionale – dimenticando forse che succedeva anche ai suoi tempi – ma siamo certi di poter biasimare totalmente chi si tira indietro? Alla luce della crisi tecnica e d’immagine, rispondere presente oggi espone i calciatori e gli allenatori al pubblico ludibrio, peraltro, nel caso degli atleti, rischiando infortuni che comprometterebbero la stagione con i club che li stipendiano.
Una problematica che investe anche il ruolo del ct e che trova chiarezza con un dato piuttosto allarmante: ad eccezione di Conte e, in maniera residuale, di Donadoni, tutti gli ex ct dal 1990 ad oggi sono stati di fatto esclusi dal giro del calcio italiano, salvo esperienze tutt’altro che esaltanti e perlopiù limitate ad ambienti in cui avevano già allenato. Giovanni Trapattoni, Marcello Lippi e Roberto Mancini non hanno avuto più chance in Italia, Arrigo Sacchi (Milan e Parma) e Cesare Maldini (ancora Milan) hanno avuto un’occasione solo in squadre nelle quali avevano già avuto incarichi.
Un’esperienza simile a quella vissuta da Azeglio Vicini con il Cesena, Dino Zoff con la Lazio e Cesare Prandelli con la Fiorentina, sebbene a questi ultimi sia stata concessa una parentesi poco memorabile anche altrove (Udinese nel caso del ct delle Notti Magiche, Fiorentina per il portiere del Mundial del 1982 e Genoa per il tecnico di Orzinuovi). Gian Piero Ventura e Gigi Di Biagio, invece, hanno tentato di rientrare in pista, finendo più dal peso dei fallimenti precedenti – nel caso di Di Biagio principalmente a livello Under 21, visto che in nazionale maggiore ha vissuto solo un periodo ad interim – che non dagli effettivi demeriti a livello di club. Destino analogo per i ct dell’Under 21, tutti sostanzialmente scomparsi dalla scena che conta.
Insomma, oggi per un allenatore accettare la nazionale significa rischiare la carriera e per questo, dopo il rifiuto di Claudio Ranieri – che la carriera l’avrebbe già chiusa ma che ha preferito mantenere la parola data alla Roma, evitando conflitti di interesse – la sostituzione di Spalletti è diventata un problema e una corsa tra profili di seconda fascia. La scelta è ricaduta su Gennaro Gattuso, un “eroe azzurro” come lo ha definito Gravina. Nella speranza che non abbia compromesso il suo domani accettando di allenare un gruppo che, semplicemente, non è all’altezza.