Non sempre una caduta è rumorosa. A volte il crollo è silenzioso e invisibile e può arrivare anche sotto i riflettori, con il mondo intero pronto a osservare. Emil Ruusuvuori, tennista finlandese di 26 anni nel pieno della carriera, ha deciso di rompere il silenzio. In un post pubblicato su Instagram, ha raccontato la sua battaglia contro ansia e attacchi di panico. Sul sito ufficiale dell’ATP ha dichiarato:
Per quattro mesi e mezzo, l’anno scorso, non ho toccato una racchetta. Ma non è stato per un motivo che ci si potrebbe aspettare. Il motivo era la mia salute mentale. Quando le cose non andavano bene iniziavo a dimenticare le cose. Il mio corpo era lì, ma la mia mente era altrove. Passavo da qualcosa di semplice come dimenticare le racchette a soffrire di attacchi di panico. Non riuscivo a dormire bene e ho iniziato ad avere incubi. Mi svegliavo sudato, con il cuore che batteva all’impazzata e non riuscivo a respirare. Pensavo di essere impazzito. La mattina mi svegliavo e andavo ad allenarmi, ma in realtà non c’ero. Era diventata una questione di routine. Quando è arrivato il momento del mio primo turno a Parigi, mi è sembrato di non essere davvero in campo.
Il mondo del tennis ambisce alla perfezione
Le sue parole sono chiare e dirette. Raccontano di mesi trascorsi in apnea, come se la mente si fosse presa una lunga pausa. E alla fine il finlandese ha fatto una scelta molto chiara: concedersi una pausa dal circuito, ma soprattutto accettare che qualcosa, dentro, si fosse incrinato. Il tennis è uno sport che fatica ad accettare il concetto di fragilità, essendo basato sulla forza mentale assoluta e sull’autocontrollo, al servizio di una resilienza capace di portare l’atleta fino all’eccesso.
Per comprendere la pressione che viene esercitata costantemente sui tennisti del circuito, basta vedere la nuovissima docuserie di Carlos Alcaraz, A mi manera. Il peso delle aspettative, insieme agli impegni promozionali e alla perenne corsa al primato, è accompagnato dalla retorica del “restare sé stessi”. Un equilibrio onestamente impossibile e al contempo quasi crudele, quando la tua vita è strettamente intrecciata a un rendimento costante.
In questo contesto, la confessione di Ruusuvuori racconta una crisi personale e professionale durata anni, ma anche lo specchio di un sistema che continua a ignorare le sue stesse crepe. È un invito – forse l’ennesimo, ma ancora troppo spesso ignorato – a rimettere al centro la persona e non solo l’atleta. Dietro ogni punto decisivo e ogni premiazione in mondovisione, si nasconde un peso difficile da raccontare: ore di solitudine e di vincoli economici. E una pressione fatta di attese e obblighi esterni che gravano direttamente sul giocatore.
Quando un tennista commette un errore su una palla break o perde concentrazione in un tie-break decisivo, non può passare la palla a un compagno né chiedere il cambio. In quell’istante è solo. È una norma non scritta del tennis, che a differenza degli sport di squadra rappresenta una prova estrema di individualismo, dove ogni minima imperfezione viene scandagliata e sottoposta a giudizi affrettati e continui.
Il calendario del circuito è spietato, con quasi 40 settimane all’anno di viaggio, attraversando continenti e fusi orari e senza mai avere un vero margine per staccare. C’è sempre un torneo da giocare e una posizione nel ranking da difendere, cercando di prevenire gli infortuni. La pressione è costante e ha due facce: devi vincere e la sconfitta non deve essere contemplata.
Chi esce presto da un torneo, non perde solo una partita. In ballo ci sono punti e soldi, ma soprattutto fiducia. La sconfitta rischia di farti smarrire ciò che dovrebbe restare intatto: la tua identità. In questo meccanismo, il benessere mentale non trova spazio se non in relazione all’effettiva performance sul campo. Non c’è una concreta cultura della cura, soppiantata piuttosto da una sorta di “educazione alla sopportazione”. E quando la corda si spezza, come nel caso di Ruusuvuori, l’atleta non viene supportato o pienamente compreso dalla struttura che lo circonda. Diventa un imprevisto da gestire. Un errore di sistema, più che una persona da comprendere. L’interruzione di un flusso perpetuo, che nel tennis sembra non debba verificarsi in alcun modo.
Lo ha dichiarato recentemente anche Casper Ruud, evidenziando i ritmi frenetici imposti proprio dall’ATP con i suoi tornei obbligatori e i potenziali rischi di infortunio legati a queste scelte imperscrutabili.
Non solo Emil Ruusuvuori: gli altri casi
Quella di Emil Ruusuvuori, che ha scelto di non partecipare, tra gli altri tornei, al Roland Garros di quest’anno, non è una storia isolata. È solo l’ultima di una lunga serie che continuiamo a trattare come anomalie.
Prima di lui c’è stata Naomi Osaka, che nel 2021 aveva deciso di non partecipare all’Open di Francia per proteggersi da un contesto che la stava lentamente logorando. Amanda Anisimova si era presa una pausa dichiarando apertamente il proprio burnout. Jelena Dokić ha impiegato anni di tormento, interiore e nel corpo, prima di rivelare gli abusi psicologici e fisici subiti, nascosti dietro l’immagine della prodigiosa teenager dell’Est Europa. Mardy Fish, ex top 10 statunitense, ha affrontato pubblicamente i suoi attacchi d’ansia paralizzanti, diventando persino oggetto di una docuserie distribuita da Netflix.
Infine, Genie Bouchard – un’apparizione abbagliante del circuito – è stata lentamente consumata dalle aspettative e successivamente trascurata. Queste storie non sono rare, bensì costituiscono la norma che il sistema preferisce ignorare. Si manifestano quando l’atleta non fa più notizia per i risultati ma per la sua “caduta”. E allora quella fragilità diventa improvvisamente utile alla narrazione collettiva. Il vero nodo è culturale prima ancora che psicologico. Il tennis, come molti altri sport d’élite, vive in una dicotomia brutale: forza o vulnerabilità, vittoria o sospensione. Non esiste spazio per le cosiddette zone grigie, per le ambivalenze emotive. È un lusso che quasi non ci si può concedere.
Lo abbiamo sempre notato anche parlando dei Big Three. Li abbiamo santificati ed elevati a divinità moderne. Ma abbiamo quasi perso di vista il fatto che erano (e rimangono) esseri umani imperfetti, fallibili, fatti di carne, ossa, ansie e pensieri contrastanti.
Parlare di tennis unisce la narrativa di uno sport e quella, più complessa e per certi versi difficile da comprendere, di un dispositivo sociale d’intrattenimento, in cui certe identità sono più tutelate di altre. Le sue regole non scritte rendono ancora più difficile ammettere la propria fragilità se non si rientra nel profilo del tennista riconosciuto come autentico, conforme all’immagine dominante. In questo contesto, anche il diritto al malessere è diseguale. Esiste un privilegio nel potersi dire vulnerabili senza pagare un prezzo troppo alto e i pochi dati che abbiamo a disposizione confermano quello che le storie raccontano da tempo.
Uno studio pubblicato su Frontiers in Psychology ha rilevato un’incidenza significativamente più alta di sintomi ossessivo-compulsivi nei tennisti professionisti rispetto alla popolazione generale, in particolare tra quelli ancora attivi nel circuito. Si parla di un tasso d’ansia e conseguente depressione compreso tra il 17% e il 47%, spesso più alti rispetto ai coetanei non sportivi. Pertanto, lo stigma persiste e in molti continuano a tacere finché non vengono spinti fino al limite.
Le differenze di genere, di orientamento sessuale e di classe sociale non sono dettagli, ma fattori strutturali che influenzano profondamente come la salute mentale viene vissuta e raccontata. Se sei una donna, una persona queer, transgender o sei cresciuto in un contesto svantaggiato, allora è molto più probabile che la tua crisi venga ignorata o addirittura ridicolizzata. Non capita solo nel tennis, ma in questo contesto tale meccanismo diventa ancora più spietato. E allora non bastano più i comunicati stampa emotivi o le campagne sulla salute mentale confezionate appositamente per i social: occorrono strutture reali e soprattutto politiche concrete sul tema. Servono accessi equi a figure di supporto. E, prima ancora, serve un cambio di narrazione: basta trattare la salute mentale come un incidente di percorso.
C’è qualcosa di profondamente umano e radicale nel gesto di un tennista che si ferma, che riconosce di non riuscire a reggere la pressione e le aspettative. In un panorama sportivo globale, fagocitato da iper-prestazioni e pronto a rendere invisibile tutto ciò che non è funzionale al risultato, la scelta di Emil Ruusuvuori si oppone al racconto dominante, quello che pretende l’atleta invincibile, incapace persino di respirare.
È fondamentale una narrazione alternativa dello sport, che prenda in considerazione anche la fatica mentale, l’ambivalenza, la paura, la sensazione di insuccesso e tutte quelle storie che possano normalizzare la vulnerabilità degli sportivi. Finché il sistema non cambierà, ogni confessione individuale rischia di restare un’eccezione, un intermezzo retorico e dimenticabile tra due tornei.
Emil Ruusuvuori in un match contro il nostro Sinner