All’esterno dello stadio del Barcellona, il Camp Nou, si trovano statue dedicate a due leggende del club blaugrana. La più recente, lì dal 2019, ritrae Johan Cruijff, stella olandese che ha segnato la storia del calcio prima sul campo e poi da allenatore. L’altra si trova in quel luogo da dieci anni prima e rappresenta colui senza il quale, forse, lo stesso Camp Nou non sarebbe mai esistito. Stiamo parlando di László Kubala.
Il racconto della vita e della carriera di Kubala farebbe invidia a uno sceneggiatore hollywoodiano: negli anni si è trovato davanti a numerose sliding doors che avrebbero potuto far prendere una piega decisamente diversa al suo destino. Eppure, ha sempre saputo imboccare la strada giusta e fortunata verso il successo. È stato l’unico giocatore nella storia del calcio a militare per tre nazionali diverse, l’Ungheria, la Cecoslovacchia e la Spagna. Ha scritto il proprio nome nel grande libro del Barcellona, elevando il club fra i migliori al mondo. Ancora oggi si posiziona al quarto posto nella classifica dei marcatori all time dei catalani, dietro solo a Leo Messi, César Rodríguez e Luis Suárez.
Dai tifosi viene considerato il calciatore più forte di sempre del club, come è stato sancito da un referendum popolare di qualche anno fa. Il 17 maggio 2002, giorno della sua morte, il presidente dell’epoca Joan Gaspart ha interrotto la conferenza stampa di presentazione del nuovo allenatore del club, l’olandese Louis Van Gaal, per annunciarne la scomparsa e chiedere un minuto di silenzio in suo ricordo:
Vorrei interrompere la conferenza stampa per informarvi e mantenere un minuto di silenzio perché mi hanno appena comunicato che Kubala è venuto a mancare. “Laszli”, il mago, il maestro, l’idolo di tutti è morto e tutti noi barcelonistas ci sentiamo un po’ orfani. E il nostro compito, in qualità di barcelonistas e amici, è garantire che le nuove generazioni sappiano chi era Ladislao Kubala e cosa ha significato per il nostro Barça. È stato uno dei migliori giocatori della storia del Barcellona.
Dalle strade di Budapest
Ladislao Kubala nasce a Budapest, in Ungheria, il 10 giugno 1927. Proviene da una famiglia umile: il padre è slovacco, ha avuto un passato nel mondo del calcio ma ora lavora come muratore; la madre invece è un’operaia di origine ungherese. Sin dall’infanzia la passione di László per il calcio è viva: inizia a giocare per strada con palloni di fortuna, assemblati con pezzi di carta e cartone dalla madre. Nel suo quartiere è conosciuto come “il ragazzo con il pallone”. La leggenda prende forma intorno alla metà degli anni ’30, su un campo erboso in via Esterházy, a Budapest, prima che la guerra stravolga la città.
È lo stesso quartiere dove, nel 1907, lo scrittore Ferenc Molnár ambientò il romanzo I ragazzi della via Pál. Proprio lì, Kubala rincorre nel tempo libero sfere fatte di carta pressata, tenute insieme da colla da falegname, insieme ad altri bambini. Come da consolidata legge del calcio di strada, le squadre devono essere equilibrate, quindi i due più forti non possono giocare insieme. Uno è lui. L’altro è un certo Ferenc Puskás. Quando scoppia la guerra, quella vera, i due si perdono di vista e nessuno si può immaginare che qualche anno dopo il destino li ricongiungerà sui campi più illustri del grande calcio internazionale.
Da giovanissimo inizia a lavorare in fabbrica, ma il richiamo del calcio è irresistibile: gioca con la formazione del dopolavoro, il Ganz, ma presto esordisce anche con la maglia delle rappresentative giovanili ungheresi. Nel 1945, a guerra conclusa, viene ingaggiato dal Ferencváros ancora minorenne, esordendo il 29 aprile di quell’anno e presentandosi agli occhi di tutti da subito come talento cristallino in grado di determinare ogni partita. È tarchiato, con gambe robuste che ricordano dei paracarri: caratteristiche che solitamente non si ritrovano nei calciatori, men che mai in quelli di alto livello. Eppure il segreto del suo gioco risiede proprio nel baricentro basso e nella sua struttura fuori dal comune: Kubala è rapidissimo nei movimenti, ma il suo pregio principale è il controllo palla: quando corre, sembra che il pallone gli resti incollato ai piedi.
Una vita in fuga, tra calcio e famiglia
Caratterialmente non è un ragazzo facile da gestire: odia ricevere ordini e pretende di potersi esprimere a modo suo. Un problema che non si limita al rettangolo di gioco, perché nel 1946 fugge dalla dittatura oppressiva ungherese e si trasferisce in Cecoslovacchia, sfruttando il doppio passaporto ottenuto grazie alla nazionalità del padre. Qui inizia a giocare per lo Slovan Bratislava. Se da una parte il suo carattere non è facile, è altrettanto vero che il campione magiaro ha fame e voglia di migliorarsi, tanto da chiedere al suo nuovo club di poter dormire nel centro sportivo, accontentandosi di sdraiarsi sul pavimento pur di allenarsi il più possibile, senza sprecare ore negli spostamenti. Una fame che lo porta fino alla nazionale cecoslovacca guidata da Ferdinand Daučík, che sarà anche il suo futuro suocero. È proprio qua infatti che conosce Ana Viola, figlia del ct, con la quale si sposerà e avrà tre figli.
Ma la spola tra Ungheria e Cecoslovacchia è appena iniziata: quando la situazione politica e militare nella città slovacca si fa critica, Kubala è costretto a tornare in Ungheria per non essere arruolato. A Budapest milita per il Vasas ed esordisce con la nazionale ungherese, ritrovando così, da compagni in nazionale e da avversari nell’Honvéd, gli amici d’infanzia con cui giocava da bambino, come Puskás, József Bozsik e Mihály Lantos.
Ancora una volta, però, le vicende extra campo finiscono per prevalere su ciò che accade all’interno del rettangolo verde: il calciatore non gode più della protezione e delle conoscenze di un tempo e deve arruolarsi nell’esercito ungherese, in particolare nella Legione Rossa, con il divieto di espatrio. La sua militanza viene vista dal governo come occasione per offrire ai più giovani un modello da seguire.
Come si può intuire, László rifiuta l’imposizione: a Bratislava ci sono Ana Viola e il figlio Branko, che non ha ancora conosciuto. È di nuovo obbligato a scappare, ma questa volta la modalità è tra le più teatrali: In un primo momento si fa trasferire presso le truppe al confine e poi entra in contatto con un’organizzazione clandestina dedita al traffico di persone che, in cambio di una cospicua somma di denaro, ne facilita la fuga. Nella notte scappa dalla caserma, travestito da soldato sovietico. Lo nascondono su un camion diretto al confine austriaco, in un punto isolato tra le montagne: da lì deve procedere da solo. È il 27 gennaio 1949. Con l’aiuto di uno pneumatico riesce ad attraversare un fiume e a raggiungere Innsbruck, senza alcun documento. Durante il viaggio non manca la paura: essendo un volto noto, in un eventuale controllo le autorità ungheresi lo riconoscerebbero facilmente. E la prospettiva, in caso di cattura, è la condanna per diserzione. Attraverso la Svizzera riesce a raggiungere l’Italia, dove sei mesi dopo si ricongiunge con la sua famiglia, che nel frattempo è riuscita a fuggire grazie all’aiuto del suocero Ferdinand.
In Italia, la carriera di Kubala ancora una volta subisce numerosi colpi di scena. Grazie all’aiuto dei connazionali ungheresi István Turbéky e Jenő Vinyei, riesce a raggiungere Busto Arsizio per giocare nella Pro Patria, che in quel momento milita in Serie A. Ma nel Nord Italia László potrà solo allenarsi e giocare partite non ufficiali, perché dalla FIFA arriva un verdetto pesante come un macigno: aver stracciato unilateralmente il contratto con il Vasas gli costa una squalifica a vita. Il presidente della Pro Patria, Enrico Cerana, tenta in tutti i modi di far annullare o ridurre la pena. Arriva persino a inviare forniture di tessuti ai dirigenti della Federazione ungherese e fa pressioni anche tramite il PCI.
Si fanno avanti altre squadre con maggior peso politico nei confronti della FIFA, tra le quali il Torino del presidente Ferruccio Novo, che cerca di convincerlo anche con la presenza di due ungheresi in organico, l’allenatore Ernő Erbstein e l’attaccante Július Schubert. In questo contesto troviamo il bivio più clamoroso della vita di Kubala: Novo lo invita a giocare in amichevole a Lisbona, il 3 maggio 1949; quando è ormai in procinto di imbarcarsi, Cerana si oppone e in questo modo gli salva la vita, impedendogli di salire sull’aereo che si schianterà contro la basilica di Superga.
In seguito, non potendo avere un futuro nel calcio italiano, László si trasferisce a Roma, più precisamente a Cinecittà, dove raggiunge il suocero Ferdinand Daučík, con il quale fonda un club amatoriale composto principalmente da profughi conosciuti nel centro dove vive. La squadra si chiama Hungaria FbC e in panchina siede proprio Daucik. In questo modo può continuare a giocare in giro per l’Italia, offrendo spettacolo e facendosi conoscere.
L’ennesimo freno alla carriera del campione ungherese arriva però dalla politica: una volta venuto a conoscenza dell’iniziativa, il PCI, su ordine proveniente dall’URSS, impone all’Hungaria il divieto di giocare sul territorio italiano. È proprio grazie a questo veto che Kubala approda in Spagna.
L’arrivo al Barcellona
Il 5 giugno 1950 si disputa un’amichevole tra l’Hungaria e il Real Madrid di Santiago Bernabéu. La partita finisce 4-2 per i blancos, ma con una prestazione stellare di Kubala, autore di entrambe le reti dei suoi. Tre giorni dopo, l’Hungaria riesce addirittura a battere 2-1 la nazionale spagnola, che si sta preparando per la Coppa del Mondo in Brasile. Le sue giocate stregano il presidente, che gli propone di vestire la maglia del Real. Anche sul piano politico il profilo di Kubala si rivela adatto alla propaganda anti-comunista della Spagna di Francisco Franco: un giovane e promettente atleta che fugge dall’inferno rosso per trovare riparo e rinascere sotto l’egida franchista. László si mostra ovviamente molto interessato, ma pone una condizione prima di accettare la proposta, ossia che il suocero, Ferdinand Daučík, venga assunto come allenatore della prima squadra. Santiago Bernabéu non può accogliere la richiesta: sulla panchina del Real siede il promettente inglese Michael Keeping e sarebbe azzardato sostituirlo con un allenatore dalla fama radicalmente inferiore.
È in questo momento che entra in scena il Barcellona. Due giorni dopo, il 10 giugno, nella città catalana si gioca un’amichevole tra l’Espanyol e l’Hungaria: finisce 6-4. Sugli spalti è presente il segretario tecnico del club blaugrana, Josep Samitier, che rimane talmente colpito dalla prestazione del campione magiaro da muoversi immediatamente: sei giorni dopo, il 16 giugno 1950, intorno alle 18:30, László Kubala firma un contratto triennale con il Barcelona. Chiaramente, tra le clausole del contratto appare l’assunzione di Daučík come allenatore. Ma non basta: giova ricordare che sulla sua testa pende ancora la squalifica a vita da parte della FIFA.
All’inizio disputa solo qualche amichevole. La squalifica sembra un problema irrisolvibile, finché dalla Colombia arriva un invito all’Hungaria FbC per una tournée nella Liga Pirata, il campionato ribelle che sta scuotendo il calcio mondiale. Di fronte alla concreta possibilità di perdere il calciatore, il club blaugrana intensifica le pressioni sulla FIFA per ottenere una riduzione della squalifica. Ad aprile 1951, a Kubala viene riconosciuto lo status di rifugiato politico, condizione necessaria per l’ottenimento della cittadinanza spagnola, per la quale si deve anche convertire al cattolicesimo, battezzandosi. La svolta arriva con un risarcimento: 300 mila pesetas al Vasas e 12 milioni di lire alla Pro Patria.
Partendo dalla fine, negli anni al Barcellona mette a segno 256 reti; vince 4 campionati spagnoli, 5 Copas del Generalísimo (l’odierna Copa del Rey), 2 Copas Eva Duarte (antenata della supercoppa nazionale), 2 Coppe delle Fiere e una Coppa Latina. Dopo aver ottenuto la cittadinanza spagnola, Kubala fa il suo esordio con la nazionale, diventando il primo e unico giocatore nella storia a militare per tre nazionali diverse.
La prima stagione è la più prolifica: segna 26 gol in 19 incontri. Il 10 febbraio 1952 raggiunge un record che ancora oggi divide con Agustín Sauto Arana, detto Bata, dell’Athletic Bilbao: realizza 7 reti in una singola partita di Liga, contro lo Sporting Gijón, dopo sei giornate di assenza per infortunio. Un gol arriva su tiro al volo, due su rigore, uno sugli sviluppi di un calcio d’angolo e gli altri tre con azioni personali. Tra i tifosi esplode la “Kubala-mania”. In un’epoca senza televisione, le sue gesta si tramandano a voce. Chi vuole vederlo deve andare al Camp de Les Corts e pagare un biglietto. La leggenda narra che è proprio l’entusiasmo generato da Kubala a spingere il club, e in particolare Samitier, a progettare la costruzione di un nuovo impianto, che oggi conosciamo come Camp Nou.
L’anno seguente deve saltare diversi incontri a causa di una grave forma di tubercolosi che mette a serio rischio la sua carriera. Grazie a un miracoloso recupero riesce a tornare in campo e a guidare i compagni alla conquista della Liga e della Copa del Generalísimo. Nel 1958 convince due suoi compagni ungheresi, Sándor Kocsis e Zoltán Czibor, a unirsi a lui nel club catalano: insieme al giovane Luisito Suárez e a Evaristo, i magiari danno vita a una squadra stellare, che si conferma in Liga e in coppa.
Tutto il meglio di László Kubala
Il lascito di László Kubala
Come spesso accade nel calcio, accanto al genio emerge la sregolatezza. Fuori dal campo Kubala non è esattamente un atleta esemplare: numerose sono le serate passate nei locali notturni, altrettanti i problemi causati dalla sua passione per l’alcol, in particolare il whisky. Le prestazioni sul campo fanno dimenticare tutto ciò ai tifosi, ma il rapporto con l’allenatore, quell’Helenio Herrera che diventerà il condottiero della Grande Inter, si incrina. Tra i due non scorre buon sangue: Herrera preferisce il giovane Suárez al veterano magiaro, che spesso viene relegato in panchina. Scalda la panchina anche nella doppia semifinale di Coppa dei Campioni contro il Real Madrid: saranno le merengues a spuntarla, segnando la fine dell’esperienza di Herrera a Barcellona. Nell’annata successiva, la 1960-61, l’ungherese si prende la sua personale rivincita, portando i blaugrana a diventare il primo club a sconfiggere il Real nella massima competizione europea, salvo poi perdere in finale 3-2 contro il Benfica.
Al termine di questa stagione, Kubala appende gli scarpini al chiodo, intraprendendo la carriera da tecnico, prima delle giovanili del Barça, poi della prima squadra nel 1962-63. La sua fortuna in panchina è nettamente inferiore rispetto a quella in campo. Sorprendentemente, ritorna per due anni in campo come allenatore-giocatore nell’Espanyol, rivale cittadina, riuscendo anche a giocare insieme al figlio Branko. La sua esperienza più significativa da allenatore arriva però con la nazionale spagnola, che guida per undici anni. Sotto la sua direzione, le Furie Rosse partecipano ai Mondiali del 1978 e agli Europei del 1980, uscendo in entrambi i casi nella fase a gironi.
A distanza di oltre sessant’anni, László Kubala vive nel ricordo dei tifosi come uno dei più grandi – per alcuni addirittura il più grande – ad aver indossato la maglia blaugrana. Ciò che ha fatto in carriera è stato così significativo che da alcuni viene considerato superiore perfino a Leo Messi. Lo stesso Messi che, poco prima della sua scomparsa, Kubala aveva visto giocare nel 2002, riconoscendone subito il talento. Le sue parole, riportate dal figlio Carles, recitano:
Ho visto giocare un ragazzino argentino che mi ha impressionato. È fisicamente molto povero ma ha un’intelligenza calcistica che spaventa.
La vita e la carriera di László sono uniche, ma avrebbero potuto concludersi molto prima. Cosa sarebbe accaduto se non fosse riuscito a fuggire dall’Ungheria? Se avesse accettato l’offerta del Torino? E se avesse scelto il Real Madrid anziché il Barcellona? Domande che resteranno senza risposta, ma che contribuiscono ad alimentarne il mito e a renderlo una figura leggendaria nel panorama calcistico mondiale.
A lui il cantautore catalano Joan Manuel Serrat ha dedicato una canzone, degna conclusione di questo ritratto.
Pelé era Pelé y Maradona uno y basta.
Di Stéfano era un pozo de picardía.
Honor y gloria a quienes hicieron brillar el sol de nuestro fútbol de cada día.
Todos tienen sus méritos; a cada quien lo suyo,
pero para mí ninguno como Kubala.
Pelè era Pelé e Maradona era unico.
Di Stéfano era un pozzo di malizia.
Onore e gloria a chi ha fatto brillare ogni giorno il sole del nostro calcio.
Tutti hanno i loro meriti, a ciascuno il suo,
ma nessuno, per me, è come Kubala.
