Lenny Wilkens, l’ultimo eroe dei Seattle Supersonics

L'addio di Lenny Wilkens, grande campione sul campo e in panchina, oltre che simbolo storico dei Sonics.

Quando pensiamo a Lenny Wilkens, deceduto lo scorso 9 novembre all’età di 88 anni, appare nella mente lo stesso volto, segnato da epoche diverse. Un volto che abbiamo imparato a veder invecchiare, pur non avendolo vissuto nel periodo giovanile, ma che ha abbracciato oltre 40 anni di pallacanestro. Se iniziamo a conteggiare, partendo dal 1960 (anno del suo approdo in NBA con i St. Louis Hawks) fino al gennaio del 2005 (quando si dimise dalla panchina dei Knicks), sono la bellezza di 45 anni di onorata carriera.

Giocatore strepitoso e allenatore leggendario, Wilkens in realtà chiuse nella National Basketball Association con un ruolo dirigenziale per i Seattle Supersonics, coincidente, più o meno, con il cambio di sede della franchigia che, passando dalla Emerald City a Oklahoma City e diventando “Thunder”, di fatto scomparve nel 2008. Si era dimesso dal ruolo di presidente delle operazioni cestistiche, appena un anno prima: il 6 luglio del 2007. Quando tutto stava per sgretolarsi. E i Sonics hanno rappresentato per lui una costante di successo nell’arco della sua vita, che purtroppo si è conclusa prima di rivedere la storica squadra tornare a competere per il Larry O’Brien Trophy. A coronamento di una serie di promesse più o meno ufficiali, che si sono susseguite (e rimandate) praticamente da quando l’allora commissioner David Stern avallò quello che nello Stato di Washington viene ricordato come “lo scippo” della loro amatissima squadra.

Per onorare un personaggio tanto importante per una storia tanto densa di eventi ed eroi come quella della NBA, che compie 80 anni questa stagione, ha senso ripercorrerne la storia anche guardando al futuro dei Sonics. Perché a proposito di quelle “promesse” di cui sopra, pur sembrando ancora una volta rimandate, forse siamo davvero alle porte dell’agognato ritorno.

Chi era Lenny Wilkens

Nato nel 1937 a Brooklyn da madre di origini irlandesi e padre afroamericano, Leonard Randolph Wilkens non sembrava un predestinato nel mondo della pallacanestro, visti i complicati anni di infanzia e adolescenza, segnati dal prematuro decesso del padre. Lenny aveva appena cinque anni e la madre lo indirizzò alla fede cattolica fin da subito, iscrivendolo alla Holy Rosary Church di Chauncey Street, nel quartiere di Bedford-Stuyvesant. Dopo il primo anno alla Boys High School decise di abbandonare la squadra di pallacanestro, perché quindicesimo di rotazione in un gruppo di quindici elementi: viste le difficoltà economiche familiari, meglio concentrarsi su un lavoro da affiancare agli studi.

Appassionato di baseball e grande tifoso dei Dodgers, dopo essere stato assunto dalla catena di supermercati Anastasio, conobbe Jackie Robinson (uno dei più grandi giocatori di baseball di ogni epoca) consegnandogli quotidianamente la spesa. Fu lui a convincerlo di tornare a praticare la sua passione sportiva, tanto da ottenere una borsa di studio per il Providence College, grazie a una lettera di raccomandazione da parte del reverendo della Holy Rosary Church a coach Joe Mullaney, che prima di prenderlo sotto la sua ala protettiva lo aveva visto dominare i pari età in un torneo estivo nel distretto di Flushing, a New York. Era il 1956. In quel periodo storico, però, a Providence non era permesso alle matricole di prendere parte alla squadra cestistica universitaria, così Wilkens passò il suo primo anno dietro a Mullaney, osservandone la metodologia di allenamento e la gestione della squadra in campo. Un qualcosa che gli sarebbe tornato utile con il prosieguo della carriera.

Nel frattempo concluse la sua esperienza con 1.193 punti complessivi segnati, diventando il primo nella storia del basket collegiale a veder ritirata la propria maglia, dopo esser stato per due volte All-American (nel 2006 sarebbe stato uno dei primi membri eletti di sempre nella neonata College Basketball Hall of Fame). In quegli anni, raggiunti i 185 centimetri di altezza, si sviluppò come gran palleggiatore dallo stabile controllo ambidestro, dotato di un ottimo tiro dalla media, ma soprattutto con doti da passatore fuori dal comune. Favorite da una capacità di lettura, sia offensiva che difensiva, che ne fecero la sesta scelta assoluta del Draft del 1960, chiamato dai St. Louis Hawks, con i quali si giocò le NBA Finals nell’anno da rookie.

Si tratta dell’edizione del 1961, vinta dagli imbattibili Boston Celtics, nel secondo degli otto titoli consecutivi conquistati. Anzi, per amor di completezza sarebbero stati 11 successi in 13 anni, con dodici apparizioni all’ultimo atto nell’era dominata da Bill Russell, al centro del progetto. Un nome che si è intrecciato con il percorso di Wilkens, che come lui sarebbe diventato anche allenatore e giocatore in contemporanea, dapprima in quel di Seattle e poi a Portland.

Ma prima ci sono otto anni strepitosi con la maglia degli Hawks da citare, in cui Lenny divenne una delle migliori point guard della lega e all’interno dei quali mantenne medie pari a 15,5 punti, 5,5 assist e 4,9 rimbalzi per incontro. Anzi, nella stagione 1967-68 fece registrare 20 punti e 8 assist a sera, arrivando secondo dietro a Wilt Chamberlain nella speciale classifica per l’MVP stagionale. A quel punto della carriera, raggiunti i 30 anni, gli Hawks (che nel frattempo si stavano trasferendo ad Atlanta) decisero di proporgli una soluzione contrattuale che al playmaker apparve al ribasso rispetto al valore raggiunto nella lega. Lenny quindi rifiutò senza mezzi termini. Più o meno per questa ragione venne ceduto ai Seattle Supersonics, giovane franchigia appena entrata nella lega e decisamente in cerca d’autore.

Allenatore-giocatore di successo

Il primo anno nella Città di Smeraldo fu un mezzo disastro, seppur a livello personale Wilkens fece registrare i suoi migliori numeri di sempre. Del resto si trattava di un gruppo mal strutturato, com’era normale per una squadra appena nata. I Sonics vinsero appena 30 partite su 82 e, per quanto fossero sette in più rispetto alla stagione precedente, il coach Al Bianchi decise di presentare le proprie dimissioni. Fu il General Manager Dirk Vertlieb ad avere la grande idea, cercando una soluzione tanto rapida quanto semplice: proporre a Lenny di diventare allo stesso tempo giocatore e allenatore.

Una proposta che venne accolta con un principio di scetticismo, durante una cena tra i due appositamente convocata da Vertlieb. Durante la serata, il GM spiegò con grande onestà alla sua superstar che nei fatti sarebbe cambiato poco, perché già aveva diretto la squadra dal campo nella stagione precedente, al netto dell’influenza di Bianchi. E lui decise di accettare, convinto di avere ancora poche cartucce da sparare prima del ritiro e considerando che un nuovo tecnico alla guida di una squadra poco coesa avrebbe fatto perdere terreno al loro sviluppo, piuttosto che agevolarlo. Divenne così il secondo allenatore di origine afroamericana nella storia del campionato, preceduto solo dal già citato Bill Russell, che si era appena ritirato dopo aver fatto anche lui il player-manager nelle sue ultime tre stagioni ai Celtics.

Del resto, per quanto poco lo si ricordi, la pratica di avere un giocatore a dirigere la squadra della quale faceva pare, era una “moda” della lega prima degli anni ’80. E quindi in un periodo piuttosto buio a livello di memoria, sia per la mancanza di testimonianze video che per appeal della NBA stessa. Dalla fondazione al 1979, ben 40 giocatori ricoprirono contemporaneamente anche il ruolo di coach. Talvolta per questioni economiche, altre per politiche interne alle franchigie, ma molto spesso perché si vedeva un senso pratico nell’aver il miglior giocatore a disposizione alla guida del tutto. Anche a livello carismatico. E per Wilkens le cose funzionarono esattamente così, visto che nei tre anni a seguire non solo i compagni ne apprezzarono le metodologie di lavoro, ma pure lui riuscì a trarne beneficio a livello personale.

Del resto, ai tempi di St. Louis aveva giocato per Richie Guerin, anch’egli nella doppia veste di allenatore e giocatore, spesso trovandosi in disaccordo con le sue scelte da “sergente”. Pertanto sapeva esattamente come fare per restare vicino ai compagni, mantenendo la leadership. Agevolato dalla rapidità di lettura, in campo e fuori, che gli permetteva di gestire in modo armonico l’intera vita di squadra (facendosi anche aiutare da altri giocatori esperti, come Rod Thorne e Tom Meschery).

I Sonics migliorarono progressivamente il loro record, pur senza mai raggiungere la post-season. Wilkens guidò la lega negli assist nel 1969-70 e nel 1971 vinse il premio di MVP all’All-Star Game, convincendosi di poter ancora disputare qualche stagione in più del previsto come atleta di alto livello. Per tale ragione chiese alla dirigenza di poter “tornare indietro per concentrarsi di più sul campo e propose un nuovo allenatore che gestisse lui e il gruppo. Seattle assunse così Tom Nissalke, ma immediatamente dopo decise di cedere Lenny, probabilmente per timore che i ragazzi ascoltassero più lui che il nuovo allenatore deputato a guidarli.

Wilkens finì a Cleveland, dove a suo dire imparò non poco dal coach Bill Fitch. Probabilmente perché, dopo un triennio a guidare la squadra anche a livello organizzativo, pose ulteriormente attenzione su aspetti che comunque aveva già osservato ai tempi del primo anno a Providence. E pur avvicinandosi ai 40 anni, giocò alla grandissima nel biennio con i Cavaliers, con rendimenti in linea con l’ottimo periodo vissuto nell’esperienza precedente, fino a quando iniziò a maturare l’idea di ritirarsi nell’estate del 1974. Durante quei mesi strinse un solido legame di amicizia con il proprietario dei Portland Trail Blazers Herman Sarkowsky, che lo convinse per un’ultima danza: inizialmente credeva di essere stato chiamato solo come tecnico, salvo scoprire che Portland aveva acquisito anche i suoi diritti di giocatore.

Fu l’occasione per lavorare a tutto campo in una squadra che aveva appena selezionato al Draft Bill Walton, in cui Lenny iniziò da titolare per poi “sistemarsi” da panchinaro, controllando il proprio minutaggio ma al contempo lavorando allo sviluppo del roster. L’anno seguente proseguì finalmente solo in panchina anche se, a causa di alcuni dissapori con il management, l’esperienza non sarebbe andata avanti, portandolo a scegliere di prendersi un anno sabbatico. Al suo posto arrivò Jack Ramsay, che nel 1977 avrebbe guidato quella squadra, con Walton finalmente in salute, al primo e unico titolo della storia dei Blazers. Ma quella parentesi servì soprattutto a chiarirgli la propria vocazione definitiva: essere allenatore. E la grande occasione era dietro l’angolo.

Portare Seattle sul tetto del mondo

All’alba della stagione 1977-78, il proprietario dei Seattle Supersonics Sam Schulman sembrava giunto ad una sorta di vicolo cieco. Aveva un roster promettente a disposizione con Fred Brown, Dennis Johnson, l’idolo delle folle Slick Watts e il rookie Jack Sikma, ma le posizioni vacanti di allenatore e General Manager. Anche perché aveva appena chiuso un periodo in cui Bill Russell aveva ricoperto, con scarso successo e scarsa empatia verso l’ambiente, il ruolo di plenipotenziario in entrambi gli ambiti. E non voleva rifare l’errore di lasciarli occupare di nuovo a una sola e unica figura.

Con coach Wilkens a disposizione, amatissimo dalla piazza come testimoniato dalle ovazioni ricevute ogni volta che era tornato a Seattle come avversario, avrebbe probabilmente risolto il nodo di gestione tattica del campo. Ma, per seguire una sorta di continuità con la struttura imbastita negli anni precedenti, optò per la promozione dell’assistente Bob Hopkins. Il quale, tra l’altro, era cugino di Bill Russell e destava non pochi dubbi sulle sue capacità di reggere la pressione dell’ambiente in un momento in cui erano finalmente tangibili aspettative di maggior rilievo. Anche perché nel frattempo si erano aggiunti alla truppa giocatori come Paul Silas, Marvin Webster e soprattutto Gus Williams.

L’inizio di Hopkins si rivelò disastroso, con cinque vittorie e diciassette sconfitte prima dell’esonero ormai inevitabile e la chiamata tanto attesa di un Wilkens rimasto fin lì in disparte. Lenny, in quel momento, era alla prima vera grande occasione da head coach, quella che di fatto avrebbe decretato l’inizio della sua carriera da allenatore.  Il “nuovo” allenatore si confrontò con i giocatori e si guadagnò un immediato rispetto, promuovendo in quintetto Sikma e modificando le rotazioni. Fred Brown, di ritorno da un infortunio al ginocchio, accettò senza particolare entusiasmo il ruolo di sesto uomo, che si sarebbe però rivelato determinante per offrire un’alternativa offensiva dietro al titolare Gus Williams. Anche il veterano Paul Silas accettò la “retrocessione”.

L’unico che non riuscì ad accettare la riduzione di minutaggio fu il beniamino Slick Watts, che chiese una trade e finì a New Orleans, poiché Wilkens rifiutò di assecondare il “ricatto” con cui pretendeva almeno 30 minuti di impiego a partita. E anche in questo caso ebbe ragione, dato che la squadra iniziò a inanellare vittorie, presentandosi in postseason con il vento in poppa. Dopo aver vinto 47 gare stagionali, eliminò i Lakers di Kareem Abdul-Jabbar e Jamaal Wilkes, i Blazers di Bill Walton e Maurice Lucas e infine i Nuggets di David Thompson.

Raggiunte delle insperate NBA Finals, l’ultimo ostacolo era rappresentato dai Washington Bullets, che sotto canestro proponevano un duo devastante come Wes Unseld e Elvin Hayes, oltre a un attaccante come Bob Dandridge. Malgrado tutto, Wilkens e i suoi ragazzi iniziarono bene vincendo la prima sfida, riconquistando l’inerzia della serie in Gara 3 per poi portarsi a una partita dal titolo, vincendo il pivotal game di Gara 5 in casa dopo esser stati sempre ripresi dagli avversari. L’entusiasmo per il successo era assoluto, la città intera stava assaporando il successo dandolo quasi per scontato, probabilmente attivando nei propri beniamini quella paura di vincere che solo al proverbiale “ultimo chilometro dal traguardo” può attanagliarti. E infatti i Sonics avrebbero perso pesantemente Gara 6 nella capitale, per poi sciogliersi clamorosamente davanti al pubblico amico nella decisiva Gara 7.

Ma, nonostante la pesante delusione, né il proprietario Schulman né coach Wilkens si arresero, modificando il gruppo con piccoli accorgimenti e ripresentandosi l’anno seguente con la stessa idea di pallacanestro. Questa volta l’obiettivo era chiaro: costruire la stagione fin dal training camp, capitalizzando l’esperienza e le lezioni del passato. Il mantra divenne quello di mantenere alta la concentrazione sull’obiettivo, che appariva meno impossibile di quanto non fosse percepito la stagione precedente, ma forse più complesso nell’ottica di ripetersi senza l’energia dell’outsider.

Il piano tattico di Wilkens prevedeva transizioni rapide che avrebbero permesso di sfruttare gli scorer di piccola taglia di cui poteva disporre: la regular season si chiuse con 54 vittorie in 82 partite, bissando l’eliminazione ai danni dei Lakers e infine sconfiggendo i Suns nelle Conference Finals. Sulla strada per l’anello, ecco nuovamente i Bullets. Che avendo chiuso con un record superiore rispetto a loro – appena due partite vinte in più – avrebbero giocato l’ultimo atto con il vantaggio del campo. Il rocambolesco successo dei campioni in carica in Gara 1 sembrava potesse ripresentare, nelle teste dei Sonics, tutte le insicurezze e i timori vissuti nelle ultime sfide di finale giocate circa 365 giorni prima.

Da Gara 2 in poi però i Supersonics non si fermarono più, raggiungendo l’agognato successo in Gara 5 nella Capitale, con Wilkens sul tetto del mondo cestistico da autentico mago della panchina, capace di trasformare una squadra talentuosa ma disunita in una corazzata in grado di superare i propri errori, correggendoli a stretto giro e conquistando il titolo. L’anno seguente i suoi ragazzi fecero ancora meglio in stagione regolare con 56 vittorie, ma senza riuscire a concedere il tris contro i Lakers alle finali di Conference, anche perché nel frattempo in gialloviola era approdato Magic Johnson a supporto di Kareem Abdul-Jabbar. Più che sufficiente per condurli al successo nelle finali contro Philadelphia. Il tutto fu comunque sufficiente per consolidare la considerazione di Wilkens nella lega come uno dei migliori allenatori in circolazione.

Rimase sulla panchina di Seattle fino al 1985, quando spostò la sua posizione nella franchigia dietro la scrivania del General Manager, assumendo come allenatore Bernie Bickerstaff e scegliendo al Draft Xavier McDaniel, tra le altre cose. Sostanzialmente contribuendo alla ricostruzione di un percorso vincente che avrebbe avuto poi la sua esplosione negli anni ‘90.

L’ultimo quarto di Gara 5, che ha assegnato il primo e unico titolo a Seattle

Tra i migliori allenatori di sempre

Dopo aver vinto 478 partite in 11 anni da allenatore dei Sonics (contando anche il primo periodo in cui giocava e allenava), Lenny Wilkens decise di tornare anche a Cleveland, dove aveva prestato onoratissimo servizio in campo per una manciata di stagioni. E anche qui – amatissimo dai tifosi – fu capace di vincere 316 partite in sette anni, alla guida di una squadra ricca di talento e profondità. Peccato soltanto che quel periodo sia coinciso con la crescita e l’esplosione di Michael Jordan e i suoi Chicago Bulls, che nella rincorsa al vertice della lega interruppero a più riprese i sogni dei Cavs rendendoli, nella memoria collettiva, meno legittimati di quanto meritassero per la qualità espressa. E lavorando in modo rispettato e apprezzato con i suoi giocatori, in primis un Mark Price al quale insegnò i suoi trucchi per migliorare le capacità negli assist direttamente dal palleggio.

Finita quell’esperienza, quasi a voler chiudere un cerchio ideale, Lenny accettò l’offerta in panchina degli Atlanta Hawks, eredi diretti della squadra che lo aveva scelto al Draft ai tempi di St. Louis. In Georgia riuscì a vincere il suo unico premio di Coach of the Year alla prima stagione di servizio, centrando la postseason in ogni stagione fino al 2000, ultima stagione prima di passare ai Toronto Raptors e poi ai New York Knicks. La sua carriera di allenatore si chiuse così, con 1332 vittorie in 32 stagioni, terzo di sempre nella classifica dei tecnici più vincenti dopo Don Nelson e Gregg Popovich (classifica in cui, per un periodo, fu anche al vertice). Nel 1996 è stato nominato tra i migliori 50 giocatori di sempre e 25 anni dopo tra i Top 75, figurando anche nella speciale classifica dei 10 (e in seguito dei 15) allenatori più importanti nella storia della lega.

In mezzo a tutto questo, ha vinto due medaglie d’oro con Team USA, una da assistente con il Dream Team del 1992 e l’altra da capo allenatore in occasione di Atlanta 1996. È stato inevitabilmente inserito nella Hall of Fame sia per quel che ha dato al gioco a livello cestistico che per quanto lo ha influenzato direttamente dalla panchina. Si tratta, a livello generale, di uno di quei personaggi che hanno seriamente scritto la gran parte della storia NBA percorrendola da protagonista in differenti forme. Un po’ come il pluricitato Bill Russell o il recentemente scomparso Jerry West, che sono riusciti a lasciare un’impronta a tutti i livelli. Anche – e soprattutto nel caso di West – a livello manageriale.

Un aspetto che per Wilkens è stato meno impattante, forse profondamente simbolico, e che ha decretato l’ultimo capitolo della sua vita legata più o meno direttamente al campo. Anche se con un epilogo amaro.

Il cerchio che si chiude, a Seattle

Dopo anni di gestione disastrosa, l’amministratore delegato di Starbucks Howard Schultz decise di vendere i Supersonics – che aveva rilevato dopo i fasti degli anni ‘90 – a una cordata di imprenditori di Oklahoma City tra cui spiccava tale Clayton Bennett. Nella storia di quello che sarà ricordato come il Sonic Gate (cioè il modo in cui Seattle perse la propria squadra NBA), ricoprirà il ruolo del villain. Anche se, senza l’assenso occulto dell’allora commissioner David Stern, niente sarebbe stato possibile.

Ad ogni modo, a vendita avvenuta, Bennett decise di ingraziarsi il popolo di Seattle nominando proprio Lenny Wilkens come vicepresidente del nuovo gruppo di proprietà. con il compito di creare un ponte tra la nuova proprietà e la comunità, malgrado le voci di una volontà di “portar via” la franchigia verso Oklahoma City fossero già esistenti e il gruppo acquirente fosse già ampiamente guardato con sospetto. Tra l’altro, il progetto apparentemente determinante che avrebbe permesso alla città di trattenere i Sonics riguardava la costruzione (o ricostruzione, come poi effettivamente è avvenuto) di una nuova arena, che fosse in linea con i canoni moderni richiesti dalla lega. Wilkens, oltre a riaccendere l’entusiasmo dei tifosi, aveva anche il compito di attrarre finanziatori che potessero offrire un futuro più stabile a una squadra storica, piena di tradizione.

Pochi mesi dopo, nell’aprile del 2007, venne annunciato che Lenny avrebbe ricoperto anche il ruolo di President of Basketball Operations, aumentando in teoria anche le sue responsabilità in relazione al lavoro di campo, contribuendo a un’impostazione manageriale utilissima per sperare di riportare i Sonics in alto. Perché nel frattempo anche nei risultati erano precipitati in disgrazia.

Nonostante l’ottimismo sbandierato soprattutto da Bennett, il connubio durò ben poco. Lenny Wilkens, leggenda cittadina, decise di dare le dimissioni da tutto nel luglio del 2007, quando effettivamente si rese conto che le voci sulla nuova proprietà erano fondate. Non appena si accorse che Bennett e compagnia stavano esplorando opzioni di “relocation” (ai tempi, sembrava quotatissima Las Vegas), decise di abbandonare la nave. L’epilogo di questa storia lo conosciamo perfettamente, con i Sonics spostati di lì a poco a Oklahoma City e la città capace solo di recuperare la loro storia, chiudendola in un metaforico cassetto. Con la promessa che, in un futuro in cui Seattle si sarebbe dotata di un’arena appropriata, la NBA sarebbe tornata riabbracciando così i Supersonics, i loro colori, il logo e la loro storia. Che comprende anche tutto ciò che Wilkens aveva contribuito a costruire a più riprese, partendo sostanzialmente dalla fondazione.

Quell’impegno, rinnovato più volte anche dall’attuale commissioner Adam Silver ma oggi superato da altri progetti che – a suo dire – allontanano l’urgenza per una “expansion” che vedrebbe nella città di Seattle la capolista per un ritorno, è rimasto tale fino al giorno della sua dipartita. E come detto in avvio di questo articolo, è davvero un peccato. Anche perché se la colpa più grave di Clayton Bennett è stata essersi servito di Wilkens per allontanare la tensione dei tifosi nel 2007 mentre lavorava per portare via la squadra, un merito di Silver avrebbe potuto essere quello di correggere l’errore del suo predecessore Stern nell’avallare quel piano, restituendo i Supersonics alla Emerald City.

Chissà se la commozione per la morte del più grande Sonic di sempre potrà riportare in vita quel sogno rimasto in sospeso.

L’omaggio della NBA a Lenny Wilkens

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