Sebbene il suo massimo splendore appartenga a un’epoca troppo lontana, cui nessuno dei nostri contemporanei ha avuto la possibilità di assistere, Babe Ruth è considerato uno dei più grandi sportivi di tutti i tempi. È stato una stella pressoché impareggiabile nel firmamento del baseball, uno sport che gli ha permesso di abbandonare pericoli e tentazioni della vita di strada e trovare il proprio posto nel mondo. E se ai posteri è stata tramandata l’immagine di un uomo poco atletico e goffo, la realtà è stata diversa: Babe Ruth è stato uno dei primi atleti della storia ad allenarsi in maniera maniacale nel suo sport, capitalizzando e accentuando i doni che Madre Natura gli ha dato, diventando perfino oggetto di approfondimenti scientifici.
Un personaggio che merita un’analisi a tutto tondo, tra infanzia difficile, dedizione, vizi, passioni e perfino una maledizione che ha cambiato la storia di una delle più prestigiose franchigie della storia della MLB.
Babe Ruth non è mai stato bambino
George Herman Ruth nasce il 6 febbraio 1895 a Baltimora, per la precisione nel quartiere di Pigtown, da una famiglia di origine tedesca. Una circostanza tutt’altro che casuale: la zona in cui è cresciuto è il simbolo della cultura operaia della città del Maryland, nonché famosa sin dall’Ottocento per ospitare immigrati provenienti dalla Germania, perlopiù giunti per aprire macellerie in una zona la cui attività economica principale era proprio la presenza di mattatoi. Tant’è che il nome stesso del quartiere – letteralmente “città dei maiali” – deriva dalla costante presenza di maiali lungo le strade, accompagnati fino ai macelli. Ancora oggi il Pigtown Festival celebra questa tradizione con la Squeakness, una corsa tra maiali.
Al giovane George viene affibbiato il soprannome Babe (“bambino”) in maniera beffardamente ironica, non perché sia o sembri un bambino quanto, piuttosto, per il motivo opposto. La sua infanzia ha una durata brevissima, dato che, sin da piccolo, Babe inizia a comportarsi come un adulto. Non un adulto modello, tutt’altro. Il contesto familiare non aiuta una crescita lineare: i genitori del ragazzo gestiscono un saloon di Pigtown che li impegna giorno e notte, al punto da impedire loro una vita genitoriale ed educativa all’altezza. Senza dimenticare i numerosi lutti che affliggono la famiglia: Babe è il primo di otto fratelli ma sei di loro muoiono durante l’infanzia.
Non il contesto ideale per un ragazzino esuberante come Babe: a 5 anni inizia a rubare, a 7 anni a fumare e bere alcolici di straforo, a volte addirittura presi di nascosto dall’attività dei genitori. Di andare a scuola, ovviamente, neanche se ne parla. I genitori non riescono a tenerlo a freno, neanche con le cattive, quindi si rassegnano e affidano il ragazzo a un collegio – anche se forse sarebbe più calzante chiamarlo orfanotrofio – di matrice religiosa, la St. Mary’s Industrial School for Boys. Qua, tra i frati che gestiscono l’istituto, ce n’è uno che diventa il suo punto di riferimento. Si chiama Martin Leo Boutilier ma per tutti è Brother Matthias, l’uomo che sarà capace di togliere Babe Ruth dalla strada e a portarlo nel suo habitat naturale: il campo da baseball.
Il rispetto che Babe Ruth prova per Frate Matthias raggiunge picchi impensabili per quel ragazzino irriverente e ingestibile che era prima di entrare alla St. Mary’s. È di gran lunga superiore a quello provato e dimostrato nei confronti dei genitori. Forse è una sorta di ricompensa nei confronti di un uomo che si dedica a lui e alla sua educazione, curandone gli interessi e il talento in una maniera che i Ruth non avevano mai fatto. Con lui Babe si confida, riconosce i propri errori e ammette di essere stato una canaglia e trova nel frate la sponda che gli serviva per dare una svolta alla propria vita. Di se stesso e della sua infanzia, nella sua biografia dirà:
Ripensando alla mia infanzia, onestamente non ricordo esser mai stato in grado di capire la differenza tra il bene e il male.
Per Ruth, l’ecclesiastico è il padre di cui aveva bisogno e, soprattutto, “il più grande uomo che abbia mai visto”. Una frase dal duplice significato, spesa in maniera tutt’altro che casuale. Perché non solo evidenzia la grandezza morale del suo educatore ma anche quella fisica: Frate Matthias, con i suoi 198 centimetri d’altezza, aveva sfruttato il fisico in ambito sportivo prima di intraprendere la vita religiosa. La famiglia Boutilier si era trasferita dal Canada a Boston quando Martin Leo era solo un bambino. Una città pazza per il baseball, che coinvolge anche i dieci figli della famiglia Boutilier, incluso il futuro Frate Matthias. Un battitore potentissimo, che Babe Ruth avrebbe dichiarato di ammirare mentre spediva la palla a oltre cento metri con facilità. All’interno della St. Mary’s, trova posto non solo come uomo di fede ma anche come allenatore di baseball dei ragazzi.
Un legame, quello tra Babe Ruth e la città di Boston, destinato a dare frutti nel tempo, nato proprio dai primi rudimenti appresi dal suo mentore. Che, avendo avuto l’onere di educare e allenare molti ragazzi, intuisce che nel ragazzo c’è qualcosa di speciale, quasi sovrannaturale. Vede in lui una scintilla speciale e capisce che la strada per la redenzione passa proprio dal baseball.
Dono naturale e cambio di ruolo
La strada è tracciata, grazie al lavoro della St. Mary’s dal punto di vista della disciplina e di Frate Matthias a livello sportivo, Babe Ruth diventa rapidamente un giocatore di baseball fatto e finito. Anzi, un giocatore sopra la media. Lo dimostra un percorso tutt’altro che lineare: a 19 anni, nel 1914, firma un contratto con i Baltimore Orioles, squadra della sua città e militante nelle minors. Arriva appena in tempo per ripartire, stavolta per motivi più che onorevoli. Gli scout dei Boston Red Sox, attratti dal suo talento, decidono di dargli un’occasione in MLB.
Come può un ragazzo passare in poche settimane da un orfanotrofio a una delle squadre più prestigiose del baseball, già vincitrice di due World Series? La risposta è tanto eccezionale quanto semplice: Babe Ruth sa fare tutto. Arriva nella lega come lanciatore ma allenatori e staff, che già hanno nel roster diversi lanciatori mancini, notano qualità sopra la media anche come battitore. I motivi non sono ancora noti, lo saranno solo qualche anno dopo, quando si sottoporrà a una serie di test clinici effettuati dalla Columbia University che ne evidenzieranno doti visive fuori dal comune. In sostanza, gli occhi di Ruth anticipano i movimenti degli avversari di circa 20 millisecondi: un intervallo minimo, ma sufficiente per cogliere il moto della palla e colpirla con precisione.
A tutto questo si aggiunge una tecnica di battuta insegnata da Frate Matthias, che gli permette di spedire la palla fino a 140 metri. E poi c’è un’altra dote sovrannaturale, un dono che occhi e cervello confezionano per lui: semplificando, il Bambino sembra vedere le cose più grandi di quanto siano realmente, rendendo i lanci avversari meno minacciosi. Una circostanza che gli avrebbe fatto molto comodo nel tempo.
Sta di fatto che, pur senza mai salire sul monte di lancio, Ruth partecipa alle World Series del 1915, dove i suoi Red Sox affrontano i Philadelphia Phillies. Ancora giovane e fuori dalle rotazioni dei lanciatori, viene solo occasionalmente impiegato in battuta, potendo comunque fregiarsi dell’anello al primo anno di carriera, grazie al successo in rimonta per 4-1 della franchigia del Massachusetts. A Boston, Ruth trova la felicità: ha un posto nel mondo, un futuro nel baseball, raccoglie successi e trova l’amore. Al momento della vittoria del titolo, il ragazzo è già sposato con Helen Woodford, di professione cameriera, conosciuta appena arrivato in città.
Nel 1916 entra anche nelle rotazioni dei lanciatori, comunque non disdegnando sporadici turni di battuta. I risultati per la squadra e per il giocatore sul monte di lancio sono sotto gli occhi di tutti: bissando il 4-1 dell’anno precedente, i Red Sox si confermano campioni – stavolta a discapito dei Brooklyn Robins – e diventano la franchigia con più titoli della storia della MLB. A livello personale, durante Gara 2 inizia una serie di 29 inning in cui i Red Sox non subiscono punti quando Ruth è sul monte di lancio. A 21 anni il Bambino è già una delle stelle della lega e nel 1918 è protagonista anche del terzo titolo della sua carriera. L’orfanotrofio, paradossalmente, è la cosa migliore che gli potesse capitare. Mentre lui trova il successo, la sua famiglia va in rovina: il padre viene ucciso dal cognato fuori dal suo saloon, al culmine di una rissa.
Neanche il cambio di ruolo riesce a fermarlo. Lui vorrebbe giocare di più, il suo allenatore è assolutamente d’accordo sul fatto che tutta la squadra beneficerebbe di una sua maggior presenza sul diamante. Sta di fatto che a partire dal 1919 Ruth viene ufficialmente trasformato in un esterno. Una scelta che, secondo molti addetti ai lavori, rischia di penalizzarlo: con un fisico non esattamente atletico, potrebbe faticare a rincorrere le battute avversarie sul campo. Ma Babe Ruth è un fenomeno in tutto ciò che fa e le sue doti sovrannaturali gli offrono un vantaggio anche in fase difensiva.
Senza dimenticare che, pur non apparendo al massimo della forma fisica – complice il modo in cui indossa la divisa, che lo fa sembrare più corpulento del reale – Ruth si allena con costanza per essere sempre competitivo. Anche quando sgarra un po’ troppo e deve smaltire qualche chilo in eccesso. Il risultato? In campo è più veloce e agile di quanto si possa immaginare. Da esterno non penalizza la squadra, da battitore è un’arma letale. Tutto sembra andare per il meglio, ma nel giro di poco arriva un grande cambiamento: se la sua carriera ne beneficerà, la sua vita personale sarà sull’orlo del baratro.
Un evento che celebra l’importanza di Babe Ruth per i Boston Red Sox nel 1919
New York e le luci accecanti della ribalta
Il 1919 segna una svolta per Ruth, ma per i Boston Red Sox è l’inizio della crisi: la squadra è sull’orlo del baratro economico. La squadra è vicina alla bancarotta. Il proprietario Harry Frazee ha investito pesantemente per acquistare nuovi giocatori, ma nel frattempo la sua attività principale – quella di impresario teatrale – sta crollando. Per sopravvivere, Frazee prende una decisione destinata a farlo odiare dai tifosi dei Red Sox: vendere il suo giocatore simbolo. In cambio di una cifra che lambisce il mezzo milione di dollari, di cui in parte erogati nella forma di un prestito a condizioni agevolate, all’inizio del 1920 Ruth lascia il Massachusetts e passa ai New York Yankees. Un trasferimento che, come vedremo, avrà risvolti pesanti e perfino esoterici per Boston.
Nel 1920 gli Yankees sono una squadra derelitta, ragion per cui l’arrivo del Bambino viene benedetto da tutti. L’unico scontento è un esterno già a roster, George Stanley Halas. L’arrivo di Ruth sembra una condanna per lui, ma si rivelerà una benedizione. Nel 1920, infatti, lascia il baseball e, trasferitosi a Chicago per lavoro, entra a contatto con il football americano, diventando fondatore, allenatore e giocatore dei Chicago Bears.
In poco tempo gli Yankees si trasformano e già nel 1921 e nel 1922 arrivano a giocarsi le World Series, uscendo tuttavia sconfitti contro i rivali cittadini dei Giants. Il riscatto arriva nel 1923, quando a permettere il definitivo salto di qualità alla squadra arriva il prima base Lou Gehrig, oggi tristemente noto per essere stato il primo atleta famoso a contrarre la SLA (che proprio per questo prende anche il nome di Morbo di Lou Gehrig). A fine anno, gli Yankees prendono la loro rivincita, piegando i Giants e conquistando il primo anello della loro storia, mentre Babe Ruth si assicura il titolo di MVP.
L’esplosione degli Yankees ha un nome e un cognome: Babe Ruth. Nel suo primo anno a New York mette a segno 54 fuoricampo e colleziona 172 battute valide su 458 turni, totalizzando 388 basi conquistate. Il suo slugging percentage – un coefficiente che misura l’efficienza offensiva – è di .847, un record rimasto imbattuto per 81 anni. Anche senza ripetere quell’impresa nelle stagioni successive, Ruth chiude la carriera con la slugging percentage più alta della storia della MLB: .690. Nel 1921 supera il proprio record con 59 fuoricampo e si guadagna il soprannome che lo accompagnerà per sempre: The Sultan of Swat.
Il 1927 segna la stagione più dominante nella storia degli Yankees. Una squadra quasi invincibile, soprannominata Murderers’ Row per il dominio assoluto sugli avversari. Nel corso della stagione Babe Ruth infrange ogni record, mettendo a segno 60 fuoricampo – un primato degli Yankees che durerà 34 anni – e conducendo la lega in basi conquistate, strikeouts e slugging percentage. È l’anno del secondo titolo per gli Yankees, il primo di una nuova striscia vincente: trionferanno ancora nel 1928 e nel 1932. A 37 anni, Ruth è ancora una superstar e regala uno dei momenti che hanno segnato la storia del baseball: il “called shot” sul lancio di Charlie Root. In Gara 3 delle World Series contro i Cubs, dapprima con la mano segnala i due strike che prende volontariamente, quindi indica la staccionata e spedisce la palla esattamente lì, davanti a un pubblico incredulo.
Quarto titolo agli Yankees e settimo personale, nella fase finale di una carriera sin lì non così lineare e perfetta. New York è la città che non dorme mai e Babe Ruth non fa eccezione. Il richiamo della vita notturna e degli eccessi lo porta spesso fuori strada. La passione per il cibo è un fatto notorio ed è stata più volte motivo di dileggio per la sua condizione fisica non sempre perfetta. Ma le distrazioni in una città così grande sono molte e, in fondo, dentro di lui c’è ancora quel bambino ribelle di Pigtown, pronto a riemergere tra un’abbuffata e una notte brava.
Un raro filmato che mostra quanto avvenuto in occasione del famoso “called shot”
L’impegno nel sociale e il lato oscuro di Babe Ruth
Un campione dentro e fuori dal campo. Memore della sua infanzia difficile, Babe Ruth dedica tempo e denaro agli orfanotrofi e ai bambini malati, diventando un punto di riferimento per molti di loro. Ma tra i temi sociali particolarmente cari al campione c’è quello del razzismo. In particolare, Babe Ruth è anche uno dei pochi a schierarsi apertamente contro la segregazione nel baseball. Sfida il sistema giocando partite di esibizione contro squadre delle Negro League, spesso in maniera assolutamente provocatoria, in luoghi dove la competizione interrazziale è addirittura ritenuta illegale.
Ma Babe Ruth non è solo un eroe. Ha anche un lato oscuro, dentro e fuori dal diamante. Il primo segnale di ribellione arriva nel 1921: ignora gli ordini della lega e partecipa a una serie di partite di esibizione ben pagate. La punizione arriva puntuale: squalifica a inizio stagione 1922. Che è un anno turbolento: Ruth viene nominato capitano, ma il titolo gli viene revocato poco dopo. Troppo irascibile, troppo istintivo. Accumula quattro squalifiche per proteste eccessive contro gli arbitri e in un’occasione arriva addirittura alle mani con un tifoso in tribuna.
Ma non è solo il giocatore, è l’uomo dietro il Bambino che viene fuori con atteggiamenti deprecabili, soprattutto per un’epoca contraddistinta dal proibizionismo. Ruth mangia molto per un atleta e beve anche di più, in un’epoca in cui il consumo di alcolici è vietato. Lo fa all’interno delle bische cittadine, dove spende i suoi soldi in prolungate sessioni di poker e gioco d’azzardo e non disdegnando la compagnia di belle donne. I rotocalchi dell’epoca ne fanno un simbolo del viveur americano, un uomo che non si accontenta mai. E lui non fa nulla per nasconderlo o per smentire, ma sembra addirittura compiaciuto della sua fama da tombeur de femmes.
Non è esattamente un marito modello. A Boston, la moglie Helen lo aspetta invano, consapevole delle sue avventure extraconiugali. E tra i tanti tradimenti, ce n’è uno più eclatante degli altri: Dorothy, la bambina che Ruth e Helen dichiarano adottata, è in realtà figlia naturale del campione nata da una delle numerose relazioni extraconiugali intrattenute da Ruth, le cui percentuali sono elevate tanto nel diamante quanto nei rapporti con il gentil sesso.
A mettere fine alla sua sregolata vita sentimentale non è un ravvedimento, ma un nuovo amore. Non quello per Helen, ormai un matrimonio di facciata, bensì per Claire Merritt Hodgson, una ricca vedova della Georgia. Ruth non si preoccupa neanche di nascondere la relazione e nel 1929, appena tre mesi dopo la tragica morte della moglie in un incendio, la sposa. Claire ha un carattere forte, tanto da riuscire non solo a fermare la verve di Ruth ma anche da condizionarne i rapporti con Lou Gehrig.
È Claire a scatenare la frattura tra i due campioni. Racconta a Babe di una lite con Eleanor Gehrig, durante la quale quest’ultima avrebbe criticato l’eleganza della piccola Julia. Tanto basta per scatenare la rabbia del Bambino, che da quel momento taglia ogni rapporto con il compagno di squadra, giurando di non rivolgergli più la parola. Un gelo che porterà inevitabilmente all’addio agli Yankees del vecchio campione in favore del più giovane compagno, la cui carriera risulterà funestata dall’orribile malattia che lo condurrà alla morte prematura nel 1941.
Il 4 luglio 1939, Yankee Stadium. Lou Gehrig, ormai consumato dalla malattia che in seguito prenderà il suo nome, è in lacrime mentre pronuncia il suo discorso d’addio al baseball: “Oggi mi considero l’uomo più fortunato sulla faccia della Terra.” Le tribune trattengono il fiato. Ruth, che inizialmente assiste alla scena da lontano, si alza e cammina verso il diamante. Si avvicina all’ex amico e lo abbraccia. Gehrig sorride, in un momento che diventa leggenda nella storia degli Yankees e del baseball, ponendo fine alle tensioni di un tempo.
Nel 1935 Babe Ruth torna a Boston, non nei Red Sox che lo avevano lanciato, ma nei Boston Braves. È l’ultima stagione della sua carriera, ormai appesantito e con il fisico segnato dagli anni di eccessi. Ma prima di dire addio al baseball, firma un’altra impresa: chiude con 714 fuoricampo, un record che resisterà fino al 1974, quando verrà superato da Hank Aaron. Il suo palmarès parla da solo: 7 anelli, un titolo di MVP, due convocazioni all’All Star Game, un premio di miglior battitore della MLB, la maglia numero 3 ritirata dagli Yankees – seconda in ordine cronologico solo a quella di Gehrig – e ben 12 stagioni chiuse da leader della lega per fuoricampo.
La sua carriera nel baseball, una volta appese le scarpe al chiodo, non decolla: le sue battaglie sociali hanno un peso troppo grande. In un’epoca in cui razzismo ed emarginazione sono la norma, Babe Ruth ha idee rivoluzionarie sulle relazioni interrazziali. Il tabù dei giocatori neri in MLB sarà spezzato solo nel 1947, con l’esordio di Jackie Robinson con i Brooklyn Dodgers. Non a caso, nel 1938, gli unici a offrirgli un ruolo da allenatore sono proprio i Dodgers. Sarà la sua unica esperienza in panchina dopo il ritiro.
Quando Jackie Robinson rompe la barriera razziale, Babe Ruth è già fuori dai giochi. Si ritira a vita privata accanto alla seconda moglie Claire, mentre il mito resta sullo sfondo. The Sultan of Swat si spegne nel 1948 per un cancro alla gola. Dopo la sua morte, la figlia adottiva Julia dirà che in famiglia – e non solo – era convinzione diffusa che l’ostracismo subito da Ruth fosse dovuto proprio alla sua apertura verso i giocatori neri.
La morte non ferma il mito. Allo Yankee Stadium, la sua camera ardente diventa un luogo di pellegrinaggio: in due giorni, oltre centomila persone si mettono in fila per dare l’ultimo saluto al Bambino. Nel 2023, a 75 anni dalla sua scomparsa, una sua maglia da gioco viene battuta all’asta per 5,64 milioni di dollari. Una cifra astronomica, simbolo di un’eredità che continua a crescere. Anche chi non l’ha mai visto giocare lo considera una leggenda.
La Maledizione del Bambino
C’è un ultimo capitolo nella storia di Babe Ruth e profuma di esoterismo. Una leggenda così potente da diventare di dominio pubblico molti anni dopo la sua morte. È la cosiddetta Curse of the Bambino (letteralmente “Maledizione del Bambino”), la maledizione che avrebbe perseguitato i Red Sox dopo aver ceduto Ruth agli Yankees. Ma torniamo al 3 gennaio 1920, il giorno in cui tutto ebbe inizio, quello della sua cessione: in quel momento, i Boston Red Sox sono la miglior squadra di baseball al mondo, vincitrice di cinque World Series. Tutto il contrario degli Yankees, una squadra ben lontana dalla competitività.
Se il drastico cambio di marcia con l’arrivo di Babe Ruth può apparire motivato dall’importanza di un campione di tale risma all’interno del roster, quello che colpisce è soprattutto ciò che avviene in seguito: in pratica, anche senza di lui, gli Yankees sono ormai divenuti la realtà principale del baseball mondiale, spodestando presto i Red Sox: ad oggi la squadra della Grande Mela conta 41 apparizioni alle World Series, con 27 anelli, risultando la franchigia più vincente della storia.
Se gli Yankees volano, i Red Sox affondano. La squadra che aveva lanciato Babe Ruth non solo smette di vincere, ma trova modi sempre più surreali per perdere. Per questo inizia a diffondersi la voce secondo cui la cessione del grande campione avrebbe gravato la franchigia di una maledizione impossibile da domare. Le voci sulla maledizione trovano nuovi appigli con il passare degli anni. Nel 1946, i Red Sox tornano finalmente alle World Series, ma perdono in Gara 7 contro i St. Louis Cardinals. Passano ventuno anni e nel 1967 l’esito è lo stesso: World Series contro i Cardinals, sconfitta per 4-3.
Le due successive apparizioni alimentano ancora di più il mito e le paure dei tifosi. Nel 1975, contro i Cincinnati Reds, Boston rimonta in Gara 6 e porta la serie all’atto finale, Gara 7. In vantaggio 3-0 in Gara 7, i Red Sox subiscono una rimonta clamorosa e perdono 4-3. E non è nemmeno la loro sconfitta più drammatica.
La Maledizione del Bambino colpisce durissimo alle World Series del 1986. Avanti 3-2 nella serie contro i Mets, i Red Sox arrivano al decimo inning di Gara 6 in vantaggio 5-3. Sono a una sola eliminazione dal titolo, con Calvin Schiraldi sul monte di lancio. L’eliminazione non arriva. Prima un errore sul monte di lancio, poi il tragico pasticcio difensivo di Bill Buckner: i Mets pareggiano e completano l’incredibile rimonta per il 3-3 nella serie. In Gara 7, avanti 3-0, i Red Sox subiscono un’altra rimonta. I Mets vincono 8-5 e si prendono l’anello.
Di lì a poco, la Maledizione del Bambino entra ufficialmente nel dibattito pubblico. Nel 1990, il giornalista del Boston Globe Dan Shaughnessy pubblica The Curse of the Bambino, trasformando una vecchia diceria in un vero e proprio mito sportivo. A ogni sfida contro Boston, i tifosi degli Yankees sventolano immagini di Babe Ruth dagli spalti, come per rinnovare la maledizione e tormentare gli sventurati Red Sox.
Da parte loro, anche i vertici dei Red Sox tentano di fare di tutto per cambiare il loro destino. Nel 1999, sotto 2-1 nelle finali di American League contro gli Yankees, i Red Sox tentano l’impossibile. Invitano l’anziana Julia Ruth Stevens, figlia adottiva di Babe, a effettuare il lancio inaugurale di Gara 4, nella speranza di placare l’anima del padre. Niente da fare, la serie si conclude 4-1 per i rivali, che accedono alle World Series. È solo il primo dei tentativi fatti, i tifosi stessi si mettono al lavoro per trovare una soluzione: uno di loro contatta un monaco tibetano e segue un suo consiglio, portando un cappellino dei Red Sox in cima all’Everest. Altri tifosi si spingono oltre: si immergono nel lago di Sudbury alla ricerca di un vecchio pianoforte appartenuto a Ruth, convinti che restaurarlo possa placare il Bambino.
Tutto vano. Almeno fino al 2004. È il 31 luglio, nel leggendario Fenway Park si disputa una partita di Regular Season tra i padroni di casa e i Los Angeles Angels e il battitore dominicano Manny Ramírez mette a segno un fuoricampo con conseguenze “dolorose”. La pallina, infatti, finisce sugli spalti e colpisce al viso un adolescente di nome Lee Gavin, facendogli saltare due denti. Al termine della partita proprio Ramírez, assieme a una delegazione composta da giocatori e membri dello staff, fa visita a Gavin in ospedale per sincerarsi delle sue condizioni e regalargli una maglia della sua squadra preferita. Nell’occasione non solo si scopre che il ragazzo è un grande fan di Ramírez ma che vive a Sudbury, nella Home Plate Farm. Ossia la casa in cui ha vissuto Babe Ruth assieme alla moglie Helen durante la sua permanenza ai Red Sox.
Quel giorno sembra segnare un punto di svolta: i Red Sox vincono 10-7, mentre gli Yankees incassano un clamoroso 22-0. Si diffonde così l’idea che la Maledizione del Bambino sia finalmente spezzata. Intervistato in ospedale, il giovane Gavin, con due denti in meno ma un sorriso stampato in volto, dichiara di sperare che il suo “sacrificio” possa aiutare Boston a tornare grande. Il destino ha un senso dell’umorismo spietato: la resa dei conti arriva alle American League Championship Series 2004 e, ovviamente, gli avversari sono gli Yankees. Ma la serie parte nel peggiore dei modi per Boston: dopo Gara 3, New York è avanti 3-0 e l’impresa sembra disperata, ancora di più con l’infortunio di Curt Schilling, il miglior lanciatore dei Red Sox.
Eppure, accade l’impensabile. In Gara 4, Boston rimonta e porta il match agli extra-innings, fino al dodicesimo. Poi, la leggenda si scrive con un solo swing: David Big Papi Ortiz scaraventa la palla oltre il muro e tiene vivi i Red Sox. Se Gara 4 è lunga, Gara 5 è un’odissea. Si arriva fino al quattordicesimo inning, nella partita di postseason più lunga della storia fino a quel momento. Il copione è lo stesso: Yankees avanti, rimonta Red Sox e, ancora una volta, Big Papi a scrivere il finale. Gara 6 entra nella leggenda come la Bloody Sock Game. Curt Schilling torna sul monte con un tendine lacerato, il sangue gli cola dentro il calzino bianco. Stringe i denti, lancia, vince.
E alla fine Boston completa l’opera in Gara 7, portando a casa una rimonta senza precedenti – addirittura non era mai successo che si arrivasse a Gara 6 dopo un vantaggio di 3-0 – che diventa anche un film-documentario di ESPN dal titolo Four Days in October. I Red Sox tornano alle World Series e questa volta non c’è storia: spazzano via i St. Louis Cardinals con un secco 4-0. La squadra che li aveva condannati nel 1946 e nel 1967 ora è spettatrice della loro rinascita. Dopo 86 anni, la Maledizione del Bambino è spezzata. Boston è campione. E non sarà l’ultima volta: dopo quel trionfo, ne arriveranno altri tre.
L’MVP delle World Series è proprio Manny Ramírez. Un segno del destino per l’uomo che, con un colpo di mazza e un colpo di sfortuna, ha messo fine a 86 anni di maledizione. Come se Babe Ruth avesse finalmente deciso di concedere la grazia. Uno degli incroci più incredibili tra sport e paranormale.
On this date in 2004, the Red Sox broke the 86-year Curse of the Bambino. pic.twitter.com/83KSnraHPt
— SportsCenter (@SportsCenter) October 27, 2014