Sotto una pioggia torrenziale diventata compagna di viaggio, un San Siro che da tempo non ruggiva con questo coraggio ha assistito a una partita che in altri tempi sarebbe stata definita “del siglo”. Negli ultimi minuti dei regolamentari gli eventi hanno preso una piega al tempo stesso chiara e inspiegabile; sicuramente ineluttabile. Ineluttabile come lo stacco di Thuram, la progressione di Dumfries e la giocata da puntero di Acerbi. L’Inter trova un modo mistico di andare oltre contro un Barcellona dalla tenuta atletica superiore. E ripete l’impresa di 15 anni fa.
L’Inter e la difesa continentale
La storia europea dell’Inter ha vissuto di alti imperiosi e di assenze prolungate: con Helenio Herrera, nell’allora Coppa Campioni, arrivarono due vittorie, battendo in sequenza il Real Madrid di Alfredo Di Stéfano e il Benfica di Eusébio. Quest’ultimo è la vera sliding door della storia nerazzurra, visto che Angelo Moratti provò a non far costruire la statua oggi fuori dal Da Luz portandolo a Milano, ma la chiusura delle frontiere decisa dall’allora presidente di Lega Giovanni Agnelli fece saltare l’affare.
Qualche anno dopo, nel 1972, Giovanni Invernizzi – in una stagione deludente in campionato – riuscì a riportare i meneghini in finale, ma l’Ajax di Cruijff stava scrivendo il suo mito e non poteva essere interrotto. Da qui, senza dimenticare le tre Coppe UEFA degli anni ’90 – di cui due contro le romane – nel torneo più prestigioso l’Inter è comparsa a intermittenza, quando non è addirittura scomparsa.
Il che potrebbe essere considerato più accettabile di due euroderby persi nell’arco di tre stagioni (2003-2005), di cui uno con due pareggi ed uno con un 3-0 a tavolino, e dopo 20 anni è quasi un atto dovuto evocare la damnatio memoriae.
La mitopoièṡi – dal greco, il mito o l’attività, l’arte o la tendenza a inventare favole, a formare miti – dell’Inter europea, ben diversa dalla sua dimensione nazionale, ha bisogno di tutti questi elementi per configurarsi: Helenio Herrera, primo argentino di una lunga dinastia, è il primo a vincere la Coppa dalle grandi orecchie con uno stile difensivo, convincendo stelle del calibro di Jair e Suárez a sposare in pieno la causa.
L’Inter è stanca. Ha quattro anni di infernale herreria nelle gambe e nelle viscere. Mi figuro l’ansia, l’angoscia (…) La palla impazzita da un piede all’altro, gomito, testa. danza e controdanza. Urtoni. E la palla non si allontana. Così ossessivi, poi, tutti quegli angoli! Mancano tot minuti. Arretri il tale, e arretri anche l’altro.
Così vergava la seconda finale di Coppa Campioni il leggendario Gianni Brera sul Guerin Sportivo, vinta dai nerazzurri a San Siro per 1-0 sotto una pioggia tremenda con gol di Jair. La resistenza gloriosa in dieci al Camp Nou nel 2010 è già cristallizzato nella memoria di chiunque, un po’ meno la gara di andata, vinta 3-1 creando molto di più dei catalani nonostante un estremo 37% di possesso palla. All’epoca gli xG e le altre advanced stats erano quasi un’esclusiva dello staff di Arsène Wenger, ma sarebbe stata una roba da far saltare i software.
L’era del Demone
Ecco, Simone Inzaghi è diverso. Ha fatto della fluidità dei ruoli, dell’impostazione dal basso – peculiare e non sempre codificata – e della connessa capacità di letture il suo stilema assoluto. Tale impostazione si è rivelata funzionale da subito in campo europeo, laddove l’Inter di Conte non riusciva a superare i gironi.
Diedero del folle al nativo di Piacenza quando, a margine dell’inutile vittoria per 1-0 ad Anfield, profetizzò che i suoi ragazzi potevano giocarsela con chiunque in Europa. Nella stagione successiva si urlò al sorteggio fortunato e nel percorso effettivamente mancava la vittima illustre, quella che spende il triplo. E nella poco fortunata finale di Istanbul l’impressione fu quella, nonostante sul piano del gioco, in quella stagione, non si fosse mai visto così in difficoltà il Manchester City.
L’Inter, però, a partire dalla trasferta di Monaco di Baviera ha dovuto cambiare pelle. Vuoi per i rischi che ci si prende per tirare la macchina oltre i suoi limiti; vuoi per una natura camaleontica da sempre peculiarità del Demone, capace di preparare le doppie sfide con un acume tattico non da tutti. Si notava già alla Lazio, Coppa Italia vinta contro la Juventus di Allegri e il girone surreale della Champions post-Covid, in cui mise a repentaglio il primato del Borussia Dortmund nel girone.
L’ha fatto però rimanendo fedele ai suoi principi, riuscendo a ritrovare quella mistica che nelle parole di Beppe Bergomi appartiene a chi conosce “il senso estetico della difesa ben eseguita”. Di chi dalla pressione costante di avversari più ricchi e pure più talentuosi riesce a raccogliere l’orgoglio e la prontezza nell’infilare l’intelligenza in un cambio di gioco o in una chiusura millimetrica che resta nella storia, come quelle di Bastoni su Yamal in area.
L’Inter si è riconnessa con la sua mitopoièṡi europea, riuscendo a superare per emozioni persino la semifinale del 2010, impresa forse più difficile dell’eliminare il Barcellona di Hansi Flick. Anche tra andata e ritorno, gli aggiustamenti tattici di Inzaghi sono stati evidenti: rischiando di più ha alzato il metronomo della riaggressione, scelta cristallizzata alla perfezione nel gol dell’1-0 di Lautaro, guarda caso propiziato da chi all’andata, a causa del compito più ingrato possibile in questo momento storico – marcare Yamal – era apparso il più in difficoltà, cioè Dimarco.
Sulle seconde palle, il barometro è stato Barella, capace di aggredire per larghi tratti quando l’impostazione catalana scalava a tre e al contempo di chiudere la linea di passaggio verso il sempre magistrale De Jong. Questa doppia sfida metteva di fronte due squadre che potevano regalare solo uno spettacolo del genere: il caos creato dalla linea zemaniana di Flick, verosimilmente calibrata sui salvataggi VAR in ottica fuorigioco, rende anche l’aria irrespirabile per chiunque almeno dopo il 70’, finendo per creare quasi sempre più dell’avversario.
L’Inter da par suo era già nota per la capacità di eludere il pressing e per attaccare la profondità dal lato giusto, puntando sulla verticalità fisica e dinamica delle punte e di Dumfries. Questo incrocio ha dimostrato che la vera moneta del calcio odierno non è il possesso (29% per i nerazzurri), ma ciò che accade nei secondi immediatamente successivi. La transizione da fase a fase, non intesa come contropiede, che porta all’annullamento del centrocampo materiale, dato dalla vicinanza continua dei reparti e dal baricentro totalitaristico.
L’Inter ha fatto meglio dell’andata grazie anche ai singoli, probabilmente più di quanto si pensava in fase di preparazione alle gare. Un giocatore del Barça non ha mai avuto in area il tempo che ha avuto Frattesi per il gol del delirio, così come c’è differenza tra l’intervento frettoloso di Cubarsì e la sapienza di Mkhitaryan che lo effettua negli ultimi centimetri disponibili.
L’armeno è stato profeta in molte piazze storiche, lo stesso non vale per altri: Inzaghi ha risposto colpo su colpo alle logiche del mercato interista, che forse nella prossima estate vedrà un primo cambiamento dopo la magra successiva allo Scudetto del 2021. Non erano in molti a credere in Dimarco a questo livello ed erano in tanti invece a storcere il naso per l’acquisto di Acerbi che, dopo tre campagne da pretoriano alla Lazio, ha dimostrato una solidità fisica e talento difensivo contro una lunga lista di nomi prestigiosi.
Allo stesso modo, la parabola à la Pirlo di Çalhanoğlu è una totale intuizione dell’emiliano: il turco arrivò per sostituire Eriksen, e la cessione di Brozović propiziò il colpo di genio, scoprendo un’abilità nel tackle e nella rincorsa che inizialmente sorpresero. Per non parlare di Thuram: l’ex Gladbach veniva da stagioni giocate sulla fascia, vista la progressione che sembra fluire dal quadricipite quando parte. Nessuno aveva pensato che quella capacità di tenere la testa alta, smarcarsi nello stretto meglio ancora che sul largo, il suo essere semplicemente skillato potesse renderlo la perfetta punta moderna. Inzaghi sì.
Nel suo sistema, Dumfries è sembrato il più avulso per molto tempo. Se si considera come nei già citati tempi di magra l’allenatore chiese alla società di spendere 30 milioni su un difensore, Pavard, in scadenza di contratto, si intuisce quanto la sicurezza con la palla e la capacità di lettura siano fondamentali nel progetto. Skriniar, al di là del suo valore assoluto, si presta ad altre impostazioni. Questo era, certamente era dopo questa stagione, il problema dell’esterno originario del Suriname.
È stato il più importante della doppia sfida: al di là dell’essere in compagnia di Del Piero e Firmino per gli unici ad avere 5 tra gol e assist in una semifinale di Champions, è stato anche il riferimento più avanzato per larghi tratti, capace di alzare il baricentro e rappresentare per caratteristiche e posizione media la maggiore fonte d’allarme per i blaugrana.
Il vero divario che c’è tra l’Inter e corazzate come il Barcellona o il Bayern Monaco non è, almeno principalmente, nel valore dei singoli, degli attaccanti o dei cambi: è atletico. Contribuisce l’età media alta, si possono fare scelte da football americano per sfruttare il vento come contro i bavaresi, ma il calo dal 70’ in poi è innegabile in ogni serata.
AET: Inter 4-3 Barcelona (7-6 agg.)
It's that fourth lead that's a charm.#UCL pic.twitter.com/lSFZOMBJil
— Opta Analyst (@OptaAnalyst) May 6, 2025
Come l’Inter ha battuto il Barcellona e cosa aspettarsi dalla finale
È qui che entra in gioco Sommer, manifesto del Marottismo, comprato in età avanzata a 5 milioni dopo aver reso Onana il portiere più pagato in Premier nell’ultimo lustro. Al rallentatore si può apprezzare come prenda il terzo tiro in porta di Yamal con le punte di medio e indice, a combattere e sconfiggere la stessa altezza che forse l’ha tradito sul gamebreaker di Raphinha all’andata.
Ma entra in gioco anche una mistica difficilmente spiegabile, per la quale sembra che il corso degli eventi più che indirizzato vada assecondato, facendo collidere tempo e spazio con la lotta sull’ennesima palla lunga, stanca ma a quel punto non più timorosa. Poi la resistenza di Dumfries al passaggio non perfetto e il primo gol in Europa di chi ha dovuto fronteggiare nemici ben più insidiosi di un avversario da marcare. Che era lì – nonostante l’istinto ancestrale di Bergomi: “Acerbi deve rientrare!” – per anticipare Araújo. L’ingresso del messicano è stato un disastro, malgrado le sue parole nel post partita in cui ha puntato il dito sulla mancata copertura dei compagni.
Acerbi era lì a segnare incredibilmente il gol sbagliato da Lewandowski dall’altro lato. Nel post-partita, Darmian ha raccontato che negli istanti precedenti al gol Acerbi gli ha detto “stai qua che io vado”. Senza chiedere permessi, assecondando il momento. Resistere e colpire quando il vento soffia dalla tua parte. Mitopoièṡi.
Yamal, anche se adesso passa in secondo piano, poteva chiuderla un minuto dopo. La sua abilità nel pattinare sul prato e l’inesistente spazio che gli serve per calciare, apparentemente senza sforzo anche quando ci mette potenza, fa pensare a un glitch per cui un talento del genere non doveva passare di nuovo dalla Catalogna. Ma tant’è.
Nel supplementare la reazione del Barcellona è stata schiumante e l’Inter, ormai in trance ma con più fiato visti i cambi, ha respinto come andando incontro al destino manifesto, che ha portato ancora il nome del pioniere Frattesi.
Il 31 maggio all’Allianz Arena ci sarà il PSG. Non l’Arsenal, battuto dai nerazzurri nella prima fase con un rigore di Çalhanoğlu ma dalle caratteristiche forse più ostiche per Lautaro e compagni: i Gunners sono l’unica squadra della Champions con numeri sui piazzati paragonabili a quelli dell’Inter, vantando anche un certo numero di giocatori intorno ai 190 centimetri che i parigini non hanno.
Ancora una volta, la questione sarà tra il pressing dell’avversario – con ogni probabilità uomo su uomo e quindi più vicino al Bayern che ai catalani – e la costruzione nerazzurra. È un enorme rischio aspettare bassi contro un tridente composto da Doué, Kvaratskhelia e Dembélé, come lo è arrivare stanchi contro un Barcola fresco o lasciare Dimarco isolato sull’ex Hakimi. Eppure, per caratteristiche, l’Inter potrebbe sposarsi meglio contro il sistema di Luis Enrique, che non teme lo spazio alle spalle dei difensori, rispetto a quanto avrebbe potuto fare contro il club del nord di Londra.
Starà a Inzaghi dimostrare ancora una volta di essere un mago nelle gare secche. E ai sedici che giocheranno capire e propiziare nuovamente il momento. Per portare a casa la Champions League, la coppa degli episodi.
Il successo dell’Inter sul Barcellona in un match destinato a restare negli annali