Per un occhio esterno, asettico, c’è un qualcosa di rassicurante nel vedere che anche il calcio, storicamente lo sport nel quale l’irrazionale può avere la meglio con maggiore frequenza rispetto agli altri, talvolta non riserva sorprese. In Bologna-Milan che si chiude con i rossoblù che alzano al cielo di Roma la Coppa Italia, tra giocatori bendati e tamponati al termine di novanta minuti in cui non sono mancate le necessarie rudezze del caso, è come se covasse il germe della pura e semplice logica: era perfettamente sensato che la lunga costruzione di questo piccolo capolavoro calcistico venisse completata con un trofeo di questo tipo.
Allo stesso tempo, sarebbe stato quantomeno strano se a negare la gioia agli oltre trentamila bolognesi che hanno preso possesso della curva Nord e di un altro pezzetto dell’Olimpico fosse stato il Milan, anzi, questo Milan, sgangherato dall’inizio alla fine della sua stagione, salito su un ottovolante senza avere in mano il benché minimo dettaglio su ciò che sarebbe accaduto. Discese ardite e risalite che non hanno dato un senso alla stagione rossonera, attraversata da correnti imperscrutabili, emozioni potentissime e figuracce epocali: così del tutto priva di una direzione da poter far pensare, persino una volta registrato il vantaggio firmato da Dan Ndoye, che l’ennesima rimonta fosse dietro l’angolo, per motivazioni più astratte che concrete.
La vittoria di Italiano
Il Bologna, invece, ha interpretato anche la partita più importante della sua storia recente rimanendo fedele ai dettami di Vincenzo Italiano, uno dei tantissimi padri di questa vittoria. Ha aggredito a costo di esporsi, di lasciare campo alle spalle dei suoi difensori. Ha scommesso sulle sbavature tecniche di Leão, sempre fisicamente straripante quando ha metri davanti a sé ma quasi mai, almeno nella notte dell’Olimpico, capace di effettuare la scelta giusta: quando ci è riuscito, all’alba del match, servendo sul piede di Jiménez il pallone del possibile vantaggio, ha visto il giovane compagno pasticciare al momento dell’impatto, esattamente come è accaduto a Fabbian che si è trovato l’occasione per punire Maignan ed è rimasto congelato, indeciso se andare al tap-in di destro o di sinistro.
Tutta questa aggressività del Bologna, da sempre il tratto distintivo di Italiano, ha finito per estromettere Leão dalla partita nella ripresa, forse complice il durissimo intervento di capitan Ferguson ai suoi danni, scontro dal quale anche lo scozzese è uscito malconcio per un colpo involontario sul naso che ha dato agli ultimi minuti del primo tempo un tocco splatter da calcio d’altri tempi. È evaporato, toccando sempre meno palloni, dando fiato ai detrattori che ormai da qualche anno lo guardano con sospetto. E anche Reijnders è rimasto triturato da questa pressione, fisica e psicologica, non riuscendo mai a trovare una giocata anche vagamente pericolosa, recitando ben al di sotto della media stagionale e lasciando qualche dubbio sulle sirene delle big europee nei suoi confronti.
Più il Bologna provava, riuscendoci, ad alzare i ritmi della contesa, più il Milan si trincerava dietro tutta la sua pochezza concettuale, quasi non avesse immaginato quale potesse essere il piano partita dei suoi avversari. Un’uscita di palla lentissima con i tre centrali, sempre schermati dagli attaccanti rossoblù, e qualche rara opzione sulle corsie. In emergenza, via con la soluzione diretta, con Jović divorato dai due centrali del Bologna, mentre Pulisic non riusciva mai a cucire il gioco subendo la pressione di un impeccabile Miranda. E dire che il Diavolo, almeno nel primo quarto d’ora, aveva lasciato pensare a qualcosa di meglio, costruendo anche con un pizzico di fortuna la più grande occasione del match, un arpione di Jović dopo una stramba carambola Beukema-Skorupski e il pallone che rimane lì, alla portata delle mani del polacco, passato nel giro di un paio di secondi dalla paura al sollievo.
Con il passare dei minuti, la superiorità delle idee del Bologna è parsa evidente, anche in assenza di pericoli eclatanti. Aveva un piano, Italiano, a differenza di Sergio Conceiçao, che se nei primi mesi della sua avventura milanista poteva giustamente rivendicare l’assenza di tempo come alibi, nel momento più importante si è sfaldato e ha sprecato l’occasione che, chissà, forse avrebbe persino potuto spalancargli una piccola chance di conferma.
L’uomo dell’Olimpico è diventato Dan Ndoye, rispolverato per l’occasione dopo tre partite saltate per un problema alla coscia. Numeri alla mano, è lui il principale beneficiario della cura Italiano, ma sarebbe ingeneroso negare i meriti avuti anche da Thiago Motta nella crescita dello svizzero: solo che il calcio è lo sport del diavolo e tutti i gol sbagliati lo scorso anno, alcuni in maniera davvero eclatante, in questa stagione sono diventate reti segnate a tutti gli effetti.
Ha dato da pensare anche al momento della stoccata vincente: l’imbucata di Fabbian per Orsolini era stata sventata da Theo Hernández, in una delle rare giocate efficaci dell’ennesima partita a nascondino della sua annata, e il pallone era arrivato a Ndoye, pronto per essere spinto in rete. Lo svizzero si è però concesso un attimo di sospensione, lasciando che il cuore dei tifosi rossoblù salisse fino alla gola prima di trovare il pertugio per sfogare il destro, imparabile per Maignan, sotto gli occhi di cantanti e dirigenti, vecchie glorie, addetti ai lavori e semplici tifosi. Ha scavalcato i tabelloni e si è andato a prendere la gloria sotto la curva Nord, con ancora una vita da giocare.
Stavolta il Milan non rimonta
Se c’è una cosa, una soltanto, che la stagione del Milan ha trasmesso con una certa continuità, è la capacità di veder spuntare i rossoneri dal burrone nel momento in cui tutti li davano per morti. E allora il gol di Ndoye diventava all’improvviso la potenziale miccia per la rinascita. Conceiçao si è aggrappato al solito copione, trito e ritrito: ha pescato a piene mani dalla panchina, ha richiamato Jović, titolare più per un debito di riconoscenza post derby che per reale efficacia, insieme a Tomori e all’ammonito Jiménez, dando spazio a Walker, João Félix e Giménez, avendo ancora nella testa la doppietta del Bebote nella partita di venerdì scorso, che a posteriori si è rivelata soltanto l’ultimo, gigantesco inganno della stagione del Diavolo.
Italiano, che porta ancora sulla pelle le cicatrici di tre finali perse alla guida della Fiorentina, ha deciso di tenere fede, per una volta, al suo cognome: ha inserito Pobega per Fabbian e, soprattutto, Casale per Orsolini, passando a cinque dietro per evitare un’ulteriore beffa dopo quelle vissute in viola. Diventava legittimo immaginare un tentativo di assedio del Milan, che al momento della resa dei conti si è scoperto ancora più fragile del previsto. Si è arrivati così, stancamente, al paradosso definitivo: Tammy Abraham, capocannoniere della Coppa Italia, in campo per 3’ più recupero. Un finale di partita in cui il Bologna, con Dallinga e Odgaard gettati nella mischia al posto degli stremati e acciaccati Ndoye e Castro, ha cercato, fino al triplice fischio, di annebbiare le idee dei centrali milanisti, pressati in maniera sistematica.
L’unico a dare la sensazione di poter scompaginare la difesa del Bologna è stato Chukwueze, entrato però insieme ad Abraham: troppo poco per riuscire a incidere.
Gli highlights della finale: il Bologna batte il Milan alza al cielo la Coppa Italia
La Coppa Italia è il giusto premio per un grande percorso
Non c’è nulla di casuale nella panchina del Bologna che entra in campo, giocatori che si disperdono per la felicità come api impazzite mentre Vincenzo Italiano esulta per una coppa storica. È stato un percorso lungo e ponderato, quello dei rossoblù, portato avanti con idee chiare, un dirigente tra i più illuminati degli ultimi 30 anni del nostro calcio (Giovanni Sartori) e un braccio armato evidentemente sottovalutato (Marco Di Vaio), la conferma che si può fare calcio anche in maniera oculata, senza lasciarsi prendere dalla frenesia.
«L’abbiamo preparata bene, con qualche contromossa rispetto a quello che era successo venerdì: non abbiamo concesso niente e il gol di Dan ci ha permesso di vincere», ha detto Italiano a caldo, cercando di rimanere lucido e confermando l’importanza della preparazione, con un volto diametralmente opposto da quello di Conceiçao, per nulla convinto delle parole farfugliate a fatica per giustificare un fallimento che, a onor del vero, non può essere ascritto del tutto a lui, arrivato in corsa in un marasma con pochissimi precedenti. Al portoghese il merito di non aver cercato alibi nell’arbitraggio, mentre gli mostravano a ripetizione l’entrata di Ferguson su Leão e una gomitata di Beukema a Gabbia che ha fatto e farà discutere per il mancato intervento del VAR.
Troppo poco per riabilitare l’ennesima notte maledetta di un Milan che ha cercato faticosamente di darsi un senso nel corso di tutto l’anno, senza mai riuscirci. Ce lo aveva il Bologna, invece, ed è per questo che l’epilogo dell’Olimpico sembra profondamente logico. Adesso per i rossoblù, con il pass per l’Europa League già in tasca e una coppa in bacheca che mancava da 51 anni, saranno i giorni della festa, con l’obiettivo di non disperdere quanto fatto in questa incredibile stagione. Si pensava che il meglio fosse alle spalle con la qualificazione in Champions League centrata da Thiago Motta, invece la costruzione del Bologna non era ancora finita. Quella del Milan, invece, deve ancora cominciare: e quel che succede in campo, per paradossale che possa sembrare, non è nemmeno lontanamente il primo dei problemi.