Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, gli Stati Uniti attraversano una delle fasi più complesse della loro storia recente, sospesi tra inquietudine interna e tensioni globali. In questo scenario di equilibrio precario, una partita di hockey su ghiaccio disputata a Lake Placid nel febbraio 1980 si trasforma, contro ogni previsione, in un evento simbolico. Una vittoria passata alla storia come il Miracolo sul Ghiaccio, capace di raccontare un’epoca meglio di molte analisi politiche.
Sport e Guerra fredda
Il Watergate, il colpo di coda del Vietnam, la crisi petrolifera, l’ingombrante pensiero di una possibile nuova guerra di portata planetaria. Considerando questi eventi, e molti altri, non si può certo affermare che gli anni Settanta siano stati un decennio come un altro per Washington. A trent’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, riemerge il timore bellico, riaffiora la caccia alle streghe sovietiche in terra americana, si estende l’espansionismo ideologico d’oltreoceano anche dove non richiesto, sempre sull’attenti in attesa di una mossa, o meglio, di un passo falso, da parte dei moscoviti.
Un vero e proprio casus belli tra i due blocchi non ci sarà mai e nemmeno una guerra missilistica tra est e ovest, fortunatamente, ma di ciò se ne potrà prendere coscienza solo a inizio anni Novanta con la definitiva disgregazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Negli anni Settanta, tra scandali interni e gestioni spesso rivedibili della politica estera, la Casa Bianca vive uno dei momenti storici più complicati dal secondo dopoguerra. Ed è in queste condizioni di precario equilibrio istituzionale e geopolitico che gli USA si affacciano al penultimo decennio del secolo scorso, quello che sarà caratterizzato dai due mandati presidenziali di Ronald Reagan e dalla sua lotta verso un impero comunista ormai avviato al tramonto.
In questo contesto lo sport, da sempre uno dei più impeccabili specchi dell’epoca storica, culturale e sociale in cui si vive, viaggia sugli stessi binari di tutto il resto. I grandi eventi del periodo confermano, seppur con modalità differenti, un trend negativo nel confronto con i sovietici, ormai dominanti in un numero crescente di discipline. I Giochi invernali di Innsbruck ’76 e le successive Olimpiadi di Montreal ’76 iniziano ad assumere i contorni di un vero e proprio canto del cigno per i fino ad allora egemonici statunitensi. Parallelamente, come avvoltoi su una preda ormai esanime, gli acerrimi rivali fanno razzia di medaglie e di successi nelle grandi kermesse internazionali, aggiudicandosi il primo posto nel medagliere totale a Monaco ’72 e a Montreal ’76. La scala gerarchica sembra essersi ormai ribaltata e la golden age americana pare dissolversi, sempre più sfuggente.
Ma come spesso accade quando si parla di sport, il fato si riserva la facoltà di stracciare pronostici già scritti per rivelare l’essenza metafisica di questo microcosmo dell’esistenza umana. Può succedere, ad esempio, all’Olympic Center di Lake Placid, nello stato di New York in una non esattamente afosa sera di fine febbraio del 1980. Solo qualche settimana prima, il giorno della vigilia di Natale del 1979, l’URSS aveva invaso militarmente l’Afghanistan con un chiaro intento anti-americano. L’allora presidente Carter, a distanza di qualche mese dall’accaduto, opterà per il boicottaggio degli USA a Mosca ’80, seguito da numerosi altri Paesi come Cina, Giappone e Canada. Nel frattempo, però, ci sono dei giochi invernali da organizzare e da onorare in casa propria, a Lake Placid.
La corazzata URSS contro lo stratega Brooks
A fine torneo il medagliere totale sarà nuovamente appannaggio di Mosca. Ma all’URSS sarà sottratto un altro scettro, anch’esso custodito gelosamente da anni: il primato incontrastato dell’hockey su ghiaccio. Tra il 1964 e il 1976 i sovietici hanno vinto quattro ori consecutivi ed è francamente complicato immaginare un esito differente per i Giochi invernali del 1980. Dall’alto del loro dominio, osservano gli americani annaspare a metà del ranking mondiale. La competizione prevede che, dopo i gironi eliminatori, le migliori squadre rimaste si sfidino in un girone all’italiana per decretare il campione. I due blocchi più celebri del mondo sono inizialmente separati. Nel proprio tabellone l’URSS spazza via i cinque avversari – Giappone, Polonia, Paesi Bassi, Canada e Finlandia – chiudendo a punteggio pieno, con una clamorosa differenza reti di +40.
Dall’altra parte, invece, gli USA sono costretti al pareggio all’esordio dagli svedesi ma, per il resto, svolgono una prima fase eccezionale in cui sconfiggono la ben più quotata Cecoslovacchia, oltre a Germania Ovest, Romania e Norvegia. La presenza dei padroni di casa nel girone che assegnerà le medaglie è, per certi versi, una sorpresa. A far loro compagnia ci sono la Svezia stessa, l’URSS e la Finlandia, ossia le due qualificate del gruppo B. Un girone che parte già in salita, per i padroni di casa: il regolamento prevede che nel gruppo finale non ci siano scontri tra squadre provenienti dallo stesso girone eliminatorio. Per le sfide USA-Svezia e URSS-Finlandia, infatti, vengono “riciclati” i risultati della prima fase. Come detto, gli USA hanno impattato contro la Svezia per 2-2, partendo già con un punto di ritardo rispetto ai sovietici, vincitori sulla Finlandia per 4-2.
La serata da circoletto rosso sul calendario è quella del 22 febbraio, quella della partita delle partite. Un incontro che, per ragioni di vario tipo, è il più sentito e coinvolgente. Lo scontro tra due mondi agli opposti come ideologia politica, cultura e sentimento sportivo. Nonostante lo sfavillante girone preliminare, gli Stati Uniti restano comunque di gran lunga inferiori all’URSS. Basta guardarli in faccia, basta un confronto tra i due schieramenti. Da una parte c’è il meglio della CSKA Mosca e della Dinamo, top team assoluti. Dall’altra parte giovani dilettanti, per lo più studenti universitari, poco più che ragazzi.
Da un lato abbiamo Vladislav Tretiak, il miglior portiere del mondo, Valeri Vasiliev, il granitico capitano, più vicino a un generale dell’Armata Rossa che a un giocatore di hockey, e Valeri Charlamov, punta di diamante sfortunata e imprevedibile della squadra, reduce da un gravissimo incidente stradale che ne ha segnato l’inizio del declino e vittima di un destino beffardo: sempre in auto infatti morirà prematuramente assieme alla moglie nell’agosto dell’anno successivo, quando la depressione causata da una mancata convocazione in nazionale aveva preso il sopravvento.
Dall’altro lato, i padroni di casa scendono in campo con Jim Craig e Mike Eruzione, studenti della Boston University, e con l’appena diciannovenne Mike Ramsey. Non c’è storia, non può esserci storia. Se proprio si volesse trovare un compromesso tra le due squadre, un infimo bagliore di speranza per gli USA lo si troverebbe appena fuori dal campo, con un cappellino in testa e il braccio teso per telecomandare movimenti e momenti della partita. Quella piccola speranza assume le sembianze di Herb Brooks, lider maximo e termometro umano di una squadra dall’età media di 21 anni. Da giocatore aveva partecipato alle due spedizioni olimpiche di Innsbruck e di Grenoble negli anni Sessanta, senza però raccogliere mai in grandi successi.
A distanza di una dozzina d’anni è chiamato a tentare l’impossibile, a razionalizzare l’imponderabile. Ha un approccio fisicamente militaresco e tatticamente illuminato. È il cuore pulsante che dà il battito vitale, più o meno accelerato a seconda delle circostanze, all’intera squadra. La sua figura è stata a lungo celebrata come esempio di resilienza e cultura del lavoro sportivo: a lui e alla sua impresa è ad esempio dedicato Miracle, film del 2004 con l’indimenticabile scena in cui urla “Again” in un palazzetto ormai vuoto e buio. Già a partire dai mesi prima della manifestazione plasma la squadra a sua immagine e somiglianza. Sottopone i ragazzi a lunghe sessioni di “navette” lungo il perimetro del campo, li tiene sempre sotto pressione per prepararli a ciò che li aspetta all’Olympic Center, costringe gli studenti della Boston a stare in stanza con quelli di Minnesota per rafforzare lo spirito di gruppo.
Miracolo sul ghiaccio di Lake Placid
Brooks non lascia davvero nulla al caso. Se alla vigilia della partita contro i sovietici esiste qualche possibilità di compiere l’impresa il merito è per la stragrande maggioranza sua. Ma in campo bisogna scenderci e i minuti iniziali non fanno presagire nulla di buono. L’URSS si porta subito avanti con una deviazione di Vladimir Krutov, stella del CSKA. Poco dopo arriva il pareggio di Buzz Schneider, l’unico della squadra con un po’ di esperienza alle spalle avendo partecipato ai Giochi del 1976, ma il nuovo vantaggio di Sergej Makarov soffoca l’urlo di gioia degli americani. È Mark Johnson a riuscire, sul tramonto del primo tempo, a raccogliere celermente una respinta di Tretiak e a ristabilire la parità. 2-2 alla fine del primo periodo.
Sono forti quegli altri, molto forti. Ma gli atleti di Brooks non si sono dimostrati inferiori nella prima frazione, tutt’altro. In fondo, forse, una speranza c’è. Si torna in campo, a sorpresa con un nuovo numero 1 per la CCCP. Tretiak, il migliore al mondo nel suo ruolo, viene sostituito dal secondo portiere, Vladimir Myshkin, in quella che a posteriori sarà considerata una scelta quanto mai azzardata da parte del tecnico sovietico Viktor Tikhonov. Eppure i suoi non sembrano risentirne e si riportano in vantaggio con Alexander Maltsev e reggono per tutto il secondo periodo.
Gli USA non hanno più nulla da perdere e iniziano all’attacco il terzo e ultimo periodo, nel quale riescono a trovare il 3-3 grazie a un’altra realizzazione di Johnson. Poi, qualche minuto più tardi, la prima delle due apoteosi statunitensi. Mike Eruzione fa il 4-3. Il palazzetto esplode: sembra tutto un sogno ma è realtà, i padroni di casa sono in vantaggio contro i sovietici. Mancano poco meno di dieci minuti alla fine.
Gli ultimi minuti del match sono omerici. Non ci sono la polvere, il fango e il sangue come nell’Asia Minore del 1200 a.C. ma il pathos è veramente alle stelle. La cinta di mura invalicabile c’è però in entrambi i casi e nel secondo risponde al nome di Jim Craig, l’altro grande eroe della serata. Chiude tutti gli spiragli, sventa le sassate dei russi e la sua porta, già violata tre volte, resta vergine nel finale di partita. A cinque secondi dalla fine il telecronista Al Michaels si lascia andare in un “Do you believe in miracles? Yes!” che si cristallizza come uno dei momenti più iconici della storia sportiva americana. La partita si conclude, il Miracolo sul Ghiaccio è servito: 4-3, gli USA sconfiggono il gigante sovietico.
L’incontro che ha fatto la storia dell’hockey su ghiaccio
Non basta il Miracolo sul Ghiaccio
È un match che fa la storia ma non è ancora finita: il Miracolo sul Ghiaccio non basta, per l’oro manca ancora un passaggio decisivo: l’incontro dell’ultima giornata del girone contro la Finlandia. Sono passati due giorni da una gioia così inebriante da aver annebbiato i padroni di casa. I finlansesi sono reduci dal 3-3 con la Svezia e devono vincere per tentare il ribaltone che varrebbe il bronzo. L’inizio è appesantito da fantasmi, perché alla fine del primo periodo la Finlandia è avanti 1-0. Nel secondo periodo gli USA pareggiano, ma dura poco: un gol di Simo Leinonen rispedisce l’Olympic Center nell’incubo, quello che vanificherebbe una delle più incredibili storie dello sport moderno. Ma non accadrà, la storia dev’essere completata e ha il lieto fine: nell’ultimo periodo i ragazzi di Brooks rientrano con lo sguardo furioso e rifilano tre gol ai finlandesi, 4-2: è medaglia d’oro.
Un’impresa talmente irripetibile che il grande protagonista decide che debba essere il punto sulla propria carriera: Mike Eruzione, venticinquenne capitano della squadra, si ritira alla fine del torneo, sa che una vetta più alta di quella è impossibile da toccare. Si dedicherà al ruolo di commentatore sportivo, divenendo inoltre direttore del dipartimento sportivo della Boston University e incrociando la propria esistenza con Giorgio Chinaglia, che ha sposato sua cugina Connie.