Oggi ci sono squadre di club competitive in tutti i continenti, ne discende la necessità di una Coppa del Mondo per Club.
Parole che non più di qualche settimana addietro avremmo potuto ascoltare da Gianni Infantino e che invece furono pronunciate dal suo predecessore, Sepp Blatter, esattamente venticinque anni fa. L’alba del nuovo millennio è appena spuntata sul pianeta che fino a qualche ora prima si interrogava sulle possibili conseguenze del Millennium bug, che salutava l’avvento di Vladimir Putin al Cremlino e che assisteva al debutto sui teleschermi di un improbabile detective in abito talare interpretato da Terence Hill. Era in questi giorni di attesa per la ripresa del campionato dopo la pausa natalizia che il pubblico italiano accoglieva con indifferenza glaciale quello che avrebbe dovuto rappresentare il coronamento di un processo pluridecennale. Otto squadre di calcio, espressione delle sei confederazioni, si sarebbero trovate a competere sotto l’egida della FIFA nel primo Mondiale per Club, misconosciuto antenato della manifestazione che tra pochi giorni aprirà i battenti negli Stati Uniti.
La sigla con cui la TV spagnola presentava le otto squadre partecipanti
Una domanda vecchia quanto il calcio
Il sole minaccia di piombare da un momento all’altro sull’Avenida Atlântica, il lungomare che costeggia la spiaggia di Copacabana dove David Beckham passeggia in pantaloncini e canottiera insieme ai compagni in libera uscita. Le lenti scure non tradiscono emozioni ma a stento trattengono il bagliore dell’estate australe alla quale un calendario spietato ha condannato il Manchester United in quei primi giorni del 2000.
Non capisco perché giochiamo questo torneo se siamo già campioni del mondo.
Se lo chiede Alex Ferguson, fresco vincitore della Coppa Intercontinentale, che intendeva onorare l’impegno presentandosi in Brasile con una squadra di riserve e che invece si vede costretto a cedere alle pressioni politiche di quanti credono che un Manchester United al completo porterà punti alla candidatura dell’Inghilterra in vista dell’assegnazione dei Mondiali del 2006.
Per assecondare i piani della FIFA, i Red Devils hanno rinunciato a partecipare alla FA Cup, scelta senza precedenti che ha fatto storcere il naso a puristi, tifosi e anche a qualche calciatore che fatica ad individuare il confine tra evento sportivo e vacanza ai tropici. Di questo avviso è Roberto Carlos, che anni dopo rivelerà come l’approccio dei giocatori europei gli fosse sembrato fin troppo rilassato. “Un mundialito”, questo fu per il Real Madrid, che rese evidente l’attitudine refrattaria e un po’ altezzosa che il Vecchio Continente ha sempre mostrato verso ogni tentativo di reale confronto con il resto del mondo.
Uno sforzo che anche oggi, a poche ore dal calcio di inizio del nuovo Mondiale per Club, non smette di alimentare perplessità pur conservando un’innegabile ragion d’essere nell’atavica necessità di determinare quale sia la squadra più forte del mondo. È questa semplice domanda a muovere i promotori che alla fine del XIX secolo misero di fronte i detentori della FA Cup e del trofeo nazionale scozzese o che nel 1951 spronarono la Federazione brasiliana a porre in essere il primo compiuto esperimento di una competizione globale per club. Si chiamava Copa Rio e aveva l’ambizione di mettere di fronte i campioni degli stati di Rio de Janeiro e San Paolo alle squadre vincitrici dei principali campionati europei e sudamericani. Lo scarso entusiasmo mostrato oltreoceano e le innegabili difficoltà logistiche lo trasformarono in un semplice torneo a invito che però mise in moto un processo ancora in atto.
La nascita della Copa Libertadores, di poco successiva alla Coppa dei Campioni, non fece che rinnovare l’annosa questione, gettando le basi per quella che nel 1960 sarebbe diventata l’Intercontinentale. Vedendosi scavalcata dall’accordo che le confederazioni europea e sudamericana strinsero autonomamente, la FIFA prese le distanze dall’iniziativa facendo valere ragioni che, rilette oggi, sembrano sconfessare la linea politica dei decenni successivi.
Competizioni come la Coppa di Europa delle Società (ed in parte anche quella europea delle squadre rappresentative che potrà forse un giorno diventare il vero e proprio campionato d’Europa) hanno avuto grande successo ma bisognerebbe far punto fermo, e non inventare altre competizioni (o appesantire quelle esistenti) perché si finirebbe per nuocere alle Associazioni nazionali.
Una postura a dir poco localista quella espressa da Ottorino Barassi ─ già presidente della Federcalcio italiana, all’epoca membro del Comitato Esecutivo della FIFA ─ che non mancò di rilevare l’ipocrisia di UEFA e CONMEBOL, rimarcando come le richieste di adesione avanzate dalle confederazioni africana e asiatica fossero state freddamente rigettate. All’ombra della Coppa Intercontinentale che, pur avvolta da un velo di ufficiosità, continuerà a fornire a cadenza annuale la risposta più attendibile alla fatidica domanda, non smisero però di accumularsi i piani per una possibile alternativa. La svolta arrivò nel 1993, durante un incontro a Las Vegas. A imprimerla fu nientemeno che Silvio Berlusconi, le cui ardite visioni di una Superlega mondiale ispirata al modello della NFL erano note da tempo al pubblico americano, che solo un anno prima poté leggere sulle pagine di Soccer America quanto segue:
Oltre l’UEFA ci dovrebbe essere una lega, formata e creata da squadre di ogni Paese in cooperazione con l’azienda più importante di quel Paese. Questa lega attrarrebbe e metterebbe sotto contratto i migliori giocatori e, come la NFL, dovrebbe essere organizzata in modo professionale. Sarebbe il più grande spettacolo sulla Terra.
Accolta l’intuizione dell’allora presidente del Milan, solo tre anni dopo la FIFA si mise all’opera, passando in rassegna i paesi interessati ad ospitare l’evento, previsto originariamente per il 1999. Dall’ampia rosa di candidati ─ tra i quali figuravano paesi dalla tradizione calcistica non propriamente radicata come Cina, Arabia Saudita, Stati Uniti e persino Tahiti ─ alla fine emerse il Brasile.
Una fredda accoglienza
È dunque nella patria del futebol che la competizione immaginata fin dagli albori del gioco da generazioni di giornalisti e dirigenti sportivi si appresta a divenire realtà. Un destino che si compie il 5 gennaio del 2000, anche se in pochi sembrano accorgersene. L’ovale del Morumbi di San Paolo è pressoché vuoto quando Real Madrid e Al-Nassr fanno il loro ingresso sul terreno di gioco. Le note dei rispettivi inni nazionali donano un tono solenne all’occasione ma rimbombano sorde sugli spalti, occupati da appena 12.000 temerari che hanno scelto di assistere all’incontro tra la vincitrice della Coppa Intercontinentale di due anni prima e quella della Supercoppa Asiatica. Venendo al campo, i minuti iniziali dell’incontro inaugurale sembrano dare ragione a Blatter, con un prolungato possesso dell’Al-Nassr scandito dagli olé del pubblico, tutto dalla parte dei sauditi e particolarmente accanito nei confronti di Roberto Carlos, nativo proprio di San Paolo ma i cui trascorsi al Palmeiras sono evidentemente indigesti ai torcedores presenti.
L’Al-Nassr dell’epoca è molto diverso dalla selezione di stelle attuale. Hristo Stoichkov – colui che di fatto regalò ai sauditi l’accesso al Mondiale per Club decidendo la Supercoppa Asiatica – è ormai lontano e la squadra si affida principalmente alla punta marocchina Ahmed Bahja, supportato da due colonne dell’Arabia Saudita che sei anni prima stupì tutti alla rassegna iridata negli Stati Uniti come Fahad Al-Bishi e Fuad Amin. L’equilibrio iniziale viene interrotto dalla superficiale fase difensiva dei sauditi che, colti di sprovvista da un passaggio lungolinea di Geremi, spianano la strada a Nicolas Anelka, che vince un rimpallo con l’ultimo difensore innescando un fortunoso pallonetto che batte il portiere.
Il sorriso impenitente con cui si volta verso i compagni è il sottile velo di pudore con cui il francese maschera la gioia per il primo gol con la maglia dei blancos. Arrivato nell’estate precedente al termine di un’estenuante telenovela che coinvolse anche la Lazio e che si concluse con la cifra record di 35 milioni di euro versata nelle casse dell’Arsenal, a Madrid il francese non ingrana. Man mano che passano le giornate di campionato, i minuti diminuiscono, gli scampoli di partita diventano panchine e queste si trasformano in tribune. Allo scoccare del nuovo anno il calciatore più corteggiato del mondo non ha ancora segnato un gol. Fino al Mondiale per Club, torneo di appendice per il Real e ciambella di salvataggio per Anelka.
La partita però rimane viva. Merito dell’Al-Nassr e dei soli tre giorni di preparazione che la squadra di Vicente Del Bosque ha avuto a disposizione dal suo arrivo in Brasile. Alla fine del primo tempo arriva addirittura il pareggio dopo che Karembeu atterra Bahja, ormai diretto in porta, permettendo ad Al-Bishi di segnare dal dischetto. Nella ripresa il dominio spagnolo cresce di pari passo con la fiducia dell’ex centravanti dell’Arsenal, il quale fa prima partire un traversone che, deviato dal portiere, ha bisogno solo di essere ribadito in rete da Raúl e poi si procura il rigore trasformato da Sávio per il 3-1 finale.
Mezz’ora più tardi il pubblico del Morumbi risponde solo poco più calorosamente al debutto della prima delle due compagini brasiliane impegnate nel torneo, in campo contro i marocchini del Raja Casablanca. Il Corinthians, che partecipa in rappresentanza del paese ospitante, si presenta con la consapevolezza di essere una delle favorite, forte del solido impianto costruito nel biennio precedente da Vanderlei Luxemburgo. Un 4-3-1-2 che Oswaldo De Oliveira, assistente di Luxa prima che questi accettasse l’incarico con la Seleçao, ha cercato di preservare il più fedelmente possibile lasciando intatti i delicati equilibri di un gruppo molto eterogeneo ma composto da giocatori di grande temperamento.
Il mio lavoro è quello di allenare la squadra nel modo più semplice possibile.
Nonostante il mercato gli abbia portato in dono elementi validi come Marcos Senna, futuro campione d’Europa con la Spagna, o César Prates, all’epoca promettente terzino che conosceremo anche in Serie A, De Oliveira mantiene fede al gruppo che ha vinto gli ultimi due campionati brasiliani e quello paulista. Dida ─ già di proprietà del Milan ─ in porta, un centrocampo di notevole spessore composto da Freddy Rincón e da due futuri campioni del mondo come Ricardinho e il famigerato Vampeta, leader silenziosi chiamati a tenere nei giusti binari l’esuberanza tecnica e soprattutto temperamentale di Marcelinho Carioca e Edílson.
I padroni di casa offrono subito un campionario di colpi a effetto che accende la prima notte della competizione, tuttavia senza trovare la via del gol. Le rovesciate in apertura di Marcelinho ed Edílson, autore anche di un pregevole colpo di tacco a smarcare in area Ricardinho, si alternano ai tiri dalla distanza dell’uomo più forte della formazione africana, quello Youssef Safri che qualche anno più tardi vedremo in Premier League con le maglie di Coventry, Norwich e Southampton. Nella ripresa il Corinthians riesce finalmente ad avere ragione dei coriacei marocchini, prima graziati da un rigore non concesso a Edílson, ma poi puniti oltremisura dall’arbitro Stefano Braschi – unico rappresentante italiano in Brasile – quando convalida il più classico dei “gol fantasma” destinato a far discutere. Particolarmente contrariato è il portiere del Raja Mustapha Chadli, che negli highlights vediamo letteralmente fuggire dal cartellino giallo che Braschi vorrebbe sventolargli davanti alla ricerca di un’improbabile sponda dal guardalinee.
Se l’accoglienza che San Paolo ha riservato al Mondiale per Club è sembrata piuttosto fredda, i 50.000 che il pomeriggio seguente prendono posto al Maracanã per l’esordio del Manchester United restituiscono un briciolo di fiducia. Rio de Janeiro risponde al richiamo dei campioni d’Europa – e fino a prova contraria del mondo – con un entusiasmo che si avverte soprattutto negli episodi a loro sfavore. Il boato che saluta il calcio di punizione con cui il Necaxa passa in vantaggio o il rigore fallito da Dwight Yorke farebbero pensare di essere in Messico. L’espulsione di Beckham, che alla fine del primo tempo lascia in dieci i suoi, fa pregustare al pubblico la prima grande sorpresa del torneo; che tuttavia Yorke rovina a pochi minuti dal termine agguantando un pareggio che tiene vivo un girone nel quale, la sera stessa, il Vasco da Gama ha facilmente ragione degli australiani del South Melbourne.
Il primo Mondiale per Club della storia si apre con Real-Madrid-Al Nassr
La partita del torneo: Vasco da Gama-Manchester United
48 ore dopo, la metropoli carioca mette il vestito buono per il big match tra Vasco da Gama e Manchester United. Il Maracanã è lontano dalla sua piena capienza ma il trasporto degli oltre 70.000 presenti durante l’esecuzione dell’inno brasiliano lascia l’impressione che dalla tribuna Blatter possa aver fatto centro con la sua visione. Ad andare in scena è il confronto sportivo tra i campioni del Sudamerica e quelli d’Europa ma anche quello sociale e culturale che va consumandosi in un mondo al tramonto. Un mondo più grande, dove le distanze appaiono forse più lunghe ma non ancora incolmabili.
Il club carioca è di gran lunga la squadra più affascinante della manifestazione. Scorrerne il mix di vecchie glorie, meteore e futuri protagonisti del calcio internazionale lascia il sapore dolce e avvolgente della batida, anche a venticinque anni di distanza. Tra i pali troviamo Hélton, futuro vincitore dell’Europa League con il Porto. Davanti a lui una difesa esperta, che già all’epoca attraversava la storia recente della Seleçao, rispolverando nomi come quelli del veterano Mauro Galvão, del campione del mondo ed ex Bayern Monaco Jorginho e di Júnior Baiano. In mezzo abbiamo il piede al tritolo del giovane Juninho Pernambucano e Amaral, vecchia conoscenza per via della fugace esperienza al Parma e che di lì a poco avrebbe ritentato la fortuna in Italia con la Fiorentina. Davanti la mitologica coppia formata da Edmundo e Romário.
Un aggettivo, non casuale, derivante dal greco mýthos: racconto, narrazione. La stessa sorta attorno a due atleti e a due uomini che negli ultimi trent’anni non hanno mai smesso di accusarsi a vicenda, riappacificarsi e scontrarsi di nuovo, travalicando la mera cronaca sportiva e sconfinando nel costume. L’origine di questa mitologia risale almeno a cinque anni prima, alle tensioni che emersero nei pochi mesi di convivenza al Flamengo e rinfocolatesi alla vigilia dei Mondiali del 1998, quando Romário lasciò intendere come a suo parere Edmundo fosse stato il beneficiario del complotto ordito ai suoi danni per estrometterlo dalla lista dei convocati. Ad appena un mese dall’inizio del Mondiale per Club, la notizia dell’arrivo del Baixinho al Vasco Da Gama ─ dove nel frattempo Edmundo aveva eretto il suo personale feudo conquistandosi la fascia di capitano ─ è dirompente.
Penso che i due non vadano d’accordo fuori dal campo, ma che dentro siano un’arma.
Dubbi e speranze sintetizzate alla perfezione da Abel Braga, l’allenatore che al termine del torneo sarà chiamato a gestire la fase più cruenta di una rivalità che, come per incanto, sembra dissolversi di fronte alle maglie rosse del Manchester United. Confinato a bordo campo dall’espulsione rimediata due giorni prima, David Beckham assiste alla corsa contro il tempo che i suoi compagni ingaggiano fin dai primi minuti, consapevoli della necessità di colpire per primi e soprattutto prima che il caldo asfissiante che si respira quel pomeriggio faccia il suo corso. Di contro il Bacalhau gioca per strappi, alla ricerca di una falla nella macchinosa retroguardia inglese. Quello che provoca Gary Neville è però un vero e proprio cedimento strutturale che nel giro di due minuti spazza via ogni residua speranza di qualificazione e che, suo malgrado, contribuisce a scrivere il capitolo più glorioso della leggenda dei bad boys del calcio brasiliano.
Minuto 24: uno sciagurato retropassaggio del terzino inglese finisce tra i piedi di Edmundo che temporeggia in attesa dell’accorrente compagno di reparto, a cui serve il pallone dell’1-0. Ancora stretti in un abbraccio dove è difficile capire dove inizi la gioia e finisca la rabbia, i due nemici-amici si voltano aizzando la torcida. È questa la copertina del primo Mondiale per Club. Due minuti più tardi è ancora Neville che prolunga con il petto un lancio di Jorginho, scagionando da una dubbia posizione di fuorigioco Romário. Il Baixinho aggancia il pallone e deposita in rete il gol della doppietta personale.
Solskjær si dimena in un bagno di sudore, appesantito dal suo stesso respiro. Edmundo passeggia senza che questo gli impedisca di essere dappertutto. Quando Silvestre lo anticipa intercettando un passaggio a lui diretto, non si degna minimamente di pressarlo proseguendo per la sua strada, padrone dello spazio e del tempo. Quel tempo che pareva fermo e che Edmundo si riprende con un tocco di esterno destro con cui elude la marcatura dello stesso Silvestre e anticipa Stam. Il 3-0 del Vasco da Gama è forse il gol più bello del torneo e quello che, al netto del timbro di Nicky Butt a dieci minuti dalla fine, di fatto chiude la partita simbolo del primo Mondiale per Club.
La partita simbolo del primo Mondiale per Club
Quale pubblico? Lo spettro di Al Nassr-South Melbourne
Ma al di là del fascino che possa esercitare l’eterno scontro tra le scuole europee e sudamericane, qual è la necessità di coinvolgere squadre provenienti da movimenti emergenti? E non è forse ancora maggiore il rischio per una competizione priva di tradizione e quindi alla ricerca del suo pubblico? Nei mesi che precedettero il primo Mondiale per Club se lo chiesero in molti, gli stessi che probabilmente continuano a chiederselo oggi, quando mancano poche ore a un reboot che solleva più dubbi che attesa.
Cosa ci sarebbe di così drammatico nel fatto che i tifosi europei possano non essere interessati ad Al-Nassr-South Melbourne? La cosa importante è che lo siano i tifosi in Asia e in Oceania. Il punto di avere un campionato del mondo è includere squadre di tutto il mondo e coinvolgere i tifosi di tutto il mondo.
A quanti ebbero l’ardire di fargli notare l’elefante nella sala dei cristalli, Blatter rispose così, forte dei 40 milioni incassati dai diritti TV, insufficienti però a coprire premi, costi operativi e di gestione. Cifre irrisorie se paragonate al miliardo sborsato quest’anno da DAZN – talmente fuori scala da aver sollevato sospetti circa possibili interessi terzi – ma che tracciano un curioso parallelo tra il disegno di Infantino e quello di Blatter, che scelse proprio questa bistrattata competizione per lasciare un’impronta sul suo primo mandato alla presidenza della FIFA.
Esorcizzato lo spettro di un incontro tra i campioni d’Asia e di Oceania, il sorteggio mette il Raja Casablanca sul cammino dell’Al-Nassr in quella che, alla prova dei fatti, risulterà una delle partite più divertenti del torneo. La fiducia dei 3.000 ottimisti presenti al Morumbi viene premiata infatti dalla bellezza di sette gol. Avanti per due volte, l’Al-Nassr viene ripreso in altrettante occasioni prima di imporsi a cinque minuti dal termine di un derby arabo in terra paulista che, per chi sa guardare al di là delle somme di gol e assist, racchiude la vera essenza delle grandi kermesse internazionali.
Rassegne che avverano favole come quella del South Melbourne, vero oggetto misterioso del torneo. Emerso da un campionato australiano ancora relegato al semiprofessionismo, il club espressione della comunità greca di Melbourne si presenta in Brasile in qualità di vincitore della OFC Club Championship. Dai campi allagati e invasi dalle rane incontrati nelle Isole Figi ─ dove si svolse la fase finale della massima competizione per club dell’Oceania ─ gli australiani si trovano quindi catapultati al cospetto degli oltre 60.000 tifosi accorsi al Maracanã per assistere all’incontro con il Vasco da Gama e sullo stesso prato con le stelle del Manchester United.
Era lo United del treble e noi perdemmo solo per 2-0. Alcuni dei miei ragazzi, che erano buoni giocatori ma pur sempre dei semiprofessionisti, quel giorno giocarono probabilmente la migliore partita della loro vita.
Momenti che sconfessano la natura essenzialmente commerciale di cui sono solitamente tacciate queste manifestazioni ma che continuano a vivere per sempre in chi, come Ange Postecoglou – vincitore dell’ultima Europa League con il Tottenham e allora al primo incarico da allenatore della sua carriera – poté viverli grazie a quell’esperienza brasiliana rimasta incastonata nella memoria.
I giocatori del South Melbourne ricordano la più grande avventura della loro carriera
Gran finale ma non troppo
La sostanziosa formula a gironi, sul modello della Confederations Cup, si impigrisce sul più bello negando il brivido delle semifinali alle seconde classificate. Condannato senza appello dalla peggior differenza reti rispetto al Corinthians, il Real Madrid si trova così costretto a una finale per il terzo posto che lo vede opposto al Necaxa. La differenza di motivazione è palpabile. I blancos ─ che nell’ultima partita hanno visto interrompersi la resurrezione di Anelka, autore di due reti ma uscito anzitempo a causa di un infortunio al menisco che ne pregiudicherà il resto della sua avventura in Spagna e forse un pezzo di carriera ─ hanno già la testa sul terminal dell’aeroporto di Rio. La squadra messicana invece, che solo qualche giorno prima aveva sfiorato l’impresa con il Manchester United, si presenta come l’outsider del torneo, decisa a sgambettare l’altra grande d’Europa.
Erano partite che volevi vincere per dimostrare che avevi la capacità e la qualità per affrontare le squadre europee.
C’è forse un complesso di inferiorità nelle parole di Álex Aguinaga, ma anche una delicatezza non comune nel lancio che il fantasista ecuadoriano dirige all’indirizzo del connazionale Agustín Delgado, svelto a seminare Karanka e a pareggiare il gol di Raúl. Portato il match ai supplementari, il Necaxa vede sorridergli la serie dei rigori – aperta dal gol di Eto’o in una delle sue rare apparizioni con la maglia del Real Madrid – che premia i campioni del Nordamerica dopo gli errori dal dischetto dei blancos.
Quello che mezz’ora più tardi va in scena al Maracanã tra Corinthians e Vasco da Gama ha il sapore di un regolamento di conti tra due vecchie conoscenze più che di una finale mondiale. Giunte all’epilogo di una stagione estenuante che le ha viste competere in campionati e coppe – sia nazionali che statali – in Copa Libertadores e nella fu Coppa Mercosur, il conto fatto alla vigilia da Marcelinho Carioca parla di 85 partite giocate nell’ultimo anno. Il match è nervoso, non bello, bloccato dalla tensione e dalla stanchezza. Soprattutto quella dei giocatori del Corinthians, gravati dal match tirato con il Real Madrid e chiamati a dare fondo a tutto il loro carattere.
Questa partita doveva essere vinta con la forza perché il Vasco era più riposato. Noi eravamo morti ma riuscimmo a portarla ai rigori e lì la vittoria fu assicurata.
Freddy Rincón è il capitano del Timão e l’uomo deputato a seguire Edmundo lungo le sue fantasiose peregrinazioni in giro per il campo. È lui a ingaggiare un duello nervoso prima ancora che tecnico con O Animal, che non si fa scrupoli a ricambiare le attenzioni del colombiano con colpi proibiti, spalleggiato da un Romário che non aspetta altro che spargere benzina sul fuoco. Si procede per folate, con il Vasco più propositivo ma incapace di pungere davvero. Dopo 120 minuti, dal dischetto è la freddezza di Dida a fare la differenza: prima sfiorando la presa sul tiro di Romário e poi ipnotizzando Gilberto, appena tornato in patria dopo l’infelice esperienza all’Inter.
L’errore di Marcelinho tiene in vita per un attimo ancora la serie che si spegne poco dopo a lato della porta di Dida nel più drammatico dei modi. È proprio Edmundo infatti che angola troppo il piatto destro e regala al Corinthians il primo titolo mondiale per club. Rimane impassibile Dida. Non corre verso i compagni, ma si volta verso il compagno di nazionale, rimasto a terra con il gelo sulla schiena dopo aver appena fallito quello che solo pochi giorni prima aveva definito l’obiettivo della sua carriera. Una scena straniante che conclude un evento percepito dai più come avulso al naturale ordine del calcio, l’unico Mondiale per Club mai disputato nella stessa stagione della Coppa Intercontinentale.
Dalle mani di Blatter, il capitano Rincón riceve finalmente il trofeo: una sfera metallica sorretta da quattro pilastri verticali. Non particolarmente gradevole dal punto di vista estetico e mai più riproposto nelle edizioni successive, rimanendo pertanto eterno, unico nella sua imperfezione.
Gli highlights della finale
L’eredità del primo Mondiale per Club
L’indomani la Gazzetta dello Sport dedica al primo club campione del mondo un titoletto in taglio basso ─ tra l’ingaggio di Bora Milutinović da parte della Nazionale cinese e i postumi da overdose di Maradona ─ in una prima pagina dominata dalla volata per il titolo di campione d’inverno tra Lazio e Juventus. Da questa parte dell’Atlantico nessuno ne è al corrente o perlomeno se ne interessa anche se il presidente della FIFA è già al lavoro per l’edizione successiva che avrebbe dovuto segnare il cambio di passo.
Non cerchiamo profitti, ma investimenti per il futuro.
D’altra parte era stato chiaro Abdullah Al Dabal, il presidente del comitato organizzativo del primo Mondiale per Club, consapevole di come quello brasiliano avrebbe rappresentato un episodio pilota di un format destinato a crescere di anno in anno, a partire dall’edizione successiva, già prevista in Spagna per l’estate del 2001 con una formula allargata a 12 squadre. A pochi mesi dalla fase due dell’esperimento però l’International Sport and Leisure (ISL), la società di marketing di fiducia della FIFA, dichiara bancarotta lasciandosi alle spalle un debito di 300 milioni di dollari.
Tenutosi nel maggio del 2001, l’esito del sorteggio che definì i gironi di quel torneo che non vedrà mai la luce oggi sono ancora consultabili in rete, testimoni della storia travagliata di questo progetto vecchio quanto il calcio. Boca Juniors, Real Madrid, Deportivo La Coruña, Palmeiras ma anche Hearts Of Oak, Olimpia di Tegucigalpa, Wollagong Wolves, sono le protagoniste del Mondiale mancato, quello che la FIFA volle frettolosamente mettere sotto il tappeto ripristinando la Coppa Intercontinentale per poi fonderla con la sua creatura a partire dal 2005, mentre dalla Svizzera le aule di tribunale cominciavano a fare filtrare i primi scandali legati alle mazzette che la ISL elargiva ai dirigenti della FIFA e del Comitato Olimpico Internazionale. Sabato notte a Miami la storia è pronta a rimettersi in moto.