L’incontro che ha cambiato la mia vita è avvenuto quando avevo 23 anni e mi muoveva la passione per la cronaca sportiva. Volevo che diventasse il mio mestiere, per cui avevo deciso di studiare per diventare giornalista, un percorso di studi concluso presso la Facoltà di Giornalismo dell’Università Nazionale di La Plata. Sono nata proprio lì, nella città delle diagonali. Quel giorno che rimarrà impresso per sempre nella mia memoria è nato dall’unione tra la mia fede per il Newell’s Old Boys e l’obiettivo ambizioso di incontrare l’idolo di un popolo intero. È la storia del giorno in cui ho visto Maradona. Dopo questo episodio intenso, ho deciso di scrivere un racconto intitolato Toccare il cielo con le mani.
Ho visto Maradona, con lo sguardo da pirata
Quando ho saputo che Maradona sarebbe arrivato a La Plata come allenatore del Gimnasia y Esgrima, la mia vita ha subito una scossa. Dopo essere diventata giornalista sportiva con molto sacrificio e umiltà, adesso mi sembrava di vivere un sogno simile a quello di Diego: il suo era quello di aver vinto un Mondiale da ragazzo, il mio di poter essere vicino a lui e di toccarlo. Un obiettivo molto difficile, ma che ho deciso di rendere vivo nella mia mente, cosicché non fosse impossibile. E il luogo perfetto era proprio il centro sportivo del club tripero a Estancia Chica perché, anche se lontano da casa mia, lì si svolgono gli allenamenti all’aperto. Però si tratta di un luogo custodito, i giornalisti si ammassano all’entrata e sfuggire alla guardia di sicurezza è una sfida.
Ovviamente il primo tentativo, quello più canonico, non va a buon fine. Non riesco a ottenere l’autorizzazione per entrare: il club distribuisce i pass in quantità minime e i media più importanti ne escono sempre vincitori. Sulla porta però vedo il numero del box dello staff di sicurezza. È una prima occasione. D’altro canto è facile sapere quando si svolgono gli allenamenti. Così il 10 ottobre 2019, verso mezzogiorno, chiamo quel numero di telefono che mi avrebbe permesso di avvicinarmi al Pibe de Oro e ottenere ciò che cercavo: toccarlo, avere un suo autografo, parlargli, stargli vicino. Dall’altra parte del telefono trovo un alleato, un addetto che immediatamente innalza al cielo la mia richiesta come se fosse una sua stessa bandiera. Il suo nome è Jorge David Sosa, che al telefono risponde «con chi ho il piacere di parlare?». Gli spiego tutto: il rifiuto di accredito, il mio sogno e il desiderio palpitante di realizzarlo. «Sarà difficile, ma proviamo», mi dice. Lasciandomi un bagliore di speranza che mi spinge ad andare avanti, con quell’obiettivo ben definito, senza sapere cosa sarebbe accaduto.
A Estancia Chica tutto è cambiato. La rivoluzione data dall’arrivo di Maradona ha fatto sì che le forze di polizia istituissero una barriera nei pressi dell’entrata, lasciando passare solo la stampa accreditata. Sembra impossibile incontrare Jorge, l’unica arma che ho è nelle mie mani. Il telefono, che inizia a squillare. Quando rispondo, sento la voce di Jorge: «Farò tutto quello che posso per aiutarti, Pilar». E così, in lontananza, vedo una figura che si libra verso di me come un uccello bianco che si fa strada nel silenzio della foresta. È Jorge che sopra il suo scooter viene alla mia ricerca. Con un fischio supera la barriera della polizia e mi carica sul mezzo, partendo per quel volo rasente a terra che però, per me, profumava di cielo. Vengo accolta nella sua cabina come in un nido, quindi riesco a entrare. All’ingresso dei giornalisti, Jorge mi dice: «Vai, mischiati a loro. È la tua occasione».
Solo pochi metri mi separano dal momento più prezioso. I miei occhi, nuvolosi come una tempesta, iniziano a lacrimare mentre cercano di focalizzare il tesoro più prezioso. Pulisco le mie lenti e finalmente lo vedo: il più grande, la Mano de Dios, l’eterno e onnipotente, colui che ha vinto le avversità. Diego Armando Maradona, un dio sulla Terra. Incredula, vederlo muovere mi solletica l’anima come accade a un bambino sull’erba verde con un pallone. Ma non volevo solo incontrarlo, c’era di più: il club che amo, il Newell’s Old Boys, aveva avuto Maradona tra le sue fila, per poco tempo. È il secondo passo di questa storia, quello che risulterà decisivo.
L’allenamento vola via rapido e finalmente giunge al termine, anche se a me pareva non scorrere mai. Davanti al recinto di sicurezza, che avanza attorno al gregge di giornalisti, riesco a sgattaiolare e mi nascondo dietro un vecchio eucalipto, che mi nasconde e mi protegge dalla calca, mentre con uno sguardo da pirata controllo l’uscita di tutti i mezzi. Come una iena affamata vado a caccia della mia preda, ma dopo pochi passi incrocio una donna, che mi chiede chi sono e oppone un secco rifiuto alla mia risposta «Voglio conoscere Diego». Su quel desiderio ardente sembra calare la notte, ma con un dribbling degno del mio idolo riesco a passare. Mi avvicino a un’altra persona con un’uniforme bianca e, come se avessi sfregato una lampada magica, mi trovo a sette o otto passi dall’esaudire il mio sogno. Al grido di «Diego! Diego!» abbatto il muro di silenzio dietro al quale ero intrappolata. La mia maglia rossa e nera diventa il punto di contatto perfetto per sentirlo parlare con me per la prima volta: «Una lebbrosa come me (il soprannome dei tifosi del Newell’s, ndr). Vieni, cosa vuoi? Una foto, una firma, qualsiasi cosa».
Ha messo la sua firma su un tessuto che la consumerà nel tempo, mentre la foto che abbiamo scattato insieme rimarrà per sempre. La condividerò con i miei figli, se un giorno sarò madre. Ma è stato il contatto con la sua spalla a farlo aprire e confidarmi qualcosa che non sapevo:
Sai che la mia spalla ha un problema? Per tanti anni ho dovuto sopportarlo, come per tanti anni sono stato costretto a reggere il peso delle persone. Ma tu sei speciale, non ho sentito il tocco del tuo braccio ma solo il calore della tua presenza e della tua passione. O sbaglio?
Piangendo lo ringrazio e saluto: «Mi è costato tanto venire da te. Ti sarò grata per sempre». E lui mi ha risposto: «Comportati bene. Hai la faccia da pirata».