Il culto della Premier League in Uganda

Premier League in Uganda è uno degli appuntamenti sportivi più importanti del paese.

Quando si mette piede per la prima volta in East Africa, l’assalto di nuove immagini e percezioni sensoriali è inevitabile per i viaggiatori europei e ricorda continuamente la distanza da casa. Tutti quei quattromila chilometri che ci separano dal Vecchio Continente ci restituiscono un mondo affascinante e spesso non semplice, in cui prepararsi a sradicare ogni abitudine di vita. Dagli aspetti più scontati: le parole in lingue che non conosciamo (luganda, swahili, oromo), le valute locali e la moneta per distacco più diffusa, i “mobile money”, una sorta di credito telefonico trasformato in forma ufficiale di pagamento, usato anche per stipendi, bollette e servizi pubblici. Oppure il profumo di cibi poco familiari, in arrivo dalle cucine sulla strada e dai mercati: frutti tropicali che ti possono sorprendere anche quando pensi ormai di averli visti tutti, macellai che disossano vacche e capre sui marciapiedi, venditori di matoke, kasava, posho, insetti fritti. E ancora: i boda-boda (Uganda) o piki-piki (Tanzania), cioè i moto-taxi fermi ad ogni incrocio e pronti ad accogliere in sella uno, due, tre passeggeri alla volta.

Sono tutte scene, queste, che ci ricordano di essere nel cuore dell’Africa subsahariana, ammesso che i continui “mzungu” (“bianco”) con cui si viene avvicinati non siano abbastanza. Tra i pochi elementi che accorciano questa distanza, però, ce n’è uno che non passa inosservato agli appassionati di calcio, e non solo: la sconvolgente popolarità e – non è un’esagerazione – il culto della Premier League inglese da queste parti. Un’ossessione che unisce donne, uomini, bambini e stranieri, dalle metropoli ai villaggi più remoti. Dividendoli in fedi laiche, quelle dei club, e poi riunendoli davanti agli schermi ogni weekend, novanta minuti alla volta.

Al mio arrivo in Uganda, a Entebbe, ne ho intravisto i primi flash. I volti di Bukayo Saka, Gabriel Jesus, Declan Rice e altri giocatori dell’Arsenal sui cartelloni pubblicitari (TCL) dentro l’aeroporto e lungo la strada per la città, perlomeno quelli risparmiati dalla mastodontica propaganda elettorale di Yoweri Museveni, presidente del Paese dal 1986. E poi, qualche maglia delle squadre di Londra, Manchester e Liverpool, il sorriso di Mohamed Salah sul packaging di bibite e snack, gli highlights del Chelsea nel Mondiale per Club su uno schermo in un centro commerciale. Ma è nei giorni successivi, con l’avvio della stagione 2025-26 del calcio britannico e con il mio passaggio dalla rilassata Entebbe alla caotica, brulicante Kampala, e poi ancora di più – chi l’avrebbe immaginato – nel remoto distretto di Gomba, che i flash sono diventati una costante. Una parte immancabile della quotidianità.

Le strade

Nella capitale, soprattutto nelle sue arterie più affollate, nei mercati, nelle scuole e, certo, dovunque compaiano un paio di porte e un pallone, le maglie da calcio si decuplicano. Anche come abbigliamento “da tutti i giorni”, per così dire, e senza alcuna distinzione di genere ed età. Ogni tanto se ne vede qualcuna della nazionale ugandese (i Cranes) o di squadre locali, oppure di top club dell’Europa continentale come Real Madrid, Barcellona, Milan o Inter. Ma sono una stretta minoranza: la scena è dominata dalle divise di Premier League, il “vero” campionato di riferimento.

La passione per il calcio inglese accomuna tanti posti dell’Uganda, ma anche al di là dei confini, come per esempio in Kenya, Tanzania e Rwanda. Ed è un aspetto che si nota dalle piccole cose, già dai primissimi passi a Kampala. Nel mio caso, girando nei dintorni di Makerere University, una zona molto viva e piena di giovani. Non certo una rarità, nel secondo Paese con l’età media più bassa (16,2 anni) e la percentuale di under-18 più elevata (55% circa) al mondo.

Dopo il tramonto e nel weekend si sente qua e là il rumore dei dadi: si gioca a Ludo, ovunque, e rigorosamente su tavoli brandizzati (?) Premier League. Tra gli sticker attaccati sui boda-boda può capitare invece un altarino un po’ Bibbia e un po’ Arsenal (!). E ancora: le insegne di bookmaker locali come Premier Bet (logo con leone incluso), le scritte sui muri delle case con stemmi del calcio inglese (chi trasmette le partite, chi per pubblicità di pay-tv o fibra internet, chi per altri motivi), gli accessori e i capi d’abbigliamento più improbabili. Il colpo d’occhio parla piuttosto chiaro, almeno per quanto mi riguarda è il regno di Gunners, Manchester United e Liverpool, in quest’ordine; e poi di Chelsea, Manchester City, Tottenham e un po’ tutte le altre (davvero: Aston Villa, Everton, Crystal Palace, West Ham, Leicester). È con l’arrivo del fine settimana, però, che gli indizi estetici di appartenenza si trasformano in prove concrete di militanza attiva, con la visione collettiva delle partite. 

Guardare le partite di Premier League in Uganda

Se la presenza in ogni quartiere della capitale di schermi dedicati mi sorprende, è con lo spostamento nel Gomba District che vengo travolto e affascinato dalla popolarità dei watch party a tema calcio inglese e dall’occasione di aggregazione sociale che rappresentano. A Kampala non mancano infatti locali (i più popolari: Kick-Off Bar, Fast Sports Fusion, Premier Bar e Somewhere Else KLA) in cui seguire le partite davanti a una birra, “all’europea” per intenderci. Così come non sono rare iniziative per cavalcare questa abitudine da parte di brand come Guinness, “official beer sponsor of the Premier League”, che da qualche tempo organizza watch party in collaborazione con i bar più frequentati da tifosi e appassionati. “Quando giocano Arsenal, Manchester United o Liverpool”, ha raccontato Robert Mugisha (proprietario del Premier Pub) al Daily Monitor, “facciamo un sacco di soldi con la vendita di cibo e birra”.

Tutto questo non c’è in piccole realtà come Kanoni, da dove scrivo queste righe e dove sto collaborando da settimane con Friends of Children in Gomba, una ONG fondata da insegnanti locali che supporta scuole e famiglie della comunità (a proposito: ogni contributo è apprezzato, grande o piccolo che sia). In cittadine del genere, i bar sono rimpiazzati dai kibanda (come vengono chiamati in luganda) o video halls (in inglese, lingua ufficiale del Paese), cioè dei piccoli “cinemini” di quartiere improvvisati dovunque ci sia abbastanza spazio per sedie, telo e proiettore. Magari sotto a una tettoia, che durante la stagione delle piogge non guasta, e con pannelli ed energia solare a disposizione in caso di blackout, che sono tutt’altro che episodici.

Il caso ha voluto che quello di Kanoni venga regolarmente allestito nel parcheggio della guesthouse dove alloggio. Proprio sotto la mia stanza, rendendomi impossibile non seguire gli sviluppi della Premier League – un po’ per l’attrazione magnetica che esercitano su di me questi watch party, e un po’ perché quando segnano le big più tifate tremano i muri della mia stanza, non ironicamente. L’affluenza per un qualsiasi Arsenal-Leeds di fine agosto (5-0, con tanto di boato anche per l’ultimo gol, su rigore, al 94′) può rendere l’idea.

Girando il Gomba e la regione circostante noto che kibanda come questi sono una prassi consolidata. Ne vedo di simili anche a Maddu, Masaka, Kabulasoke e Kabale, quattro località che nel weekend – Monday Night inclusa ovviamente – attraggono decine, centinaia di appassionati dai villaggi circostanti per seguire tutti insieme cosa succede ad Anfield, Old Trafford e negli altri templi del calcio inglese. Di solito si accede con 1.000 scellini a persona (0,25 euro circa), o 2.000 se si vuole un posto a sedere; all’intervallo si fa la fila per un sambusa (versione locale dei samosa indiani), un rolex (street food ugandese per antonomasia), un ekikajjo (stecca di canna da zucchero) o un succo di frutta al gusto di mango, guava o maracuja dai venditori che accorrono per rifornire la platea.

Ogni volta mi viene chiesto per quale squadra simpatizzi. La mia risposta incentrata sul campionato italiano non viene mai presa troppo sul serio. “D’accordo, ma in Premier League per chi fai il tifo?”, non si scappa. Le prime volte provavo a spiegare di avere uno sguardo abbastanza disincantato sul calcio inglese, di essere più un appassionato che un tifoso insomma. Raccogliendo stupore e incredulità. Andando avanti con le settimane ho provato quindi a stare sistematicamente dalla parte degli underdog di giornata, ad esempio Fulham (contro il Manchester United) e Brighton (contro il Manchester City). Un’efficace via di fuga dalla domanda, ma c’è di più: la mia fascinazione per il tifo attratto in Uganda dalle big inglesi è seconda solo a quella per chi “gufa”; e credetemi, l’intensità è la stessa, come ho osservato tra le altre volte nella sera – notte in realtà, tra tempi supplementari e fuso orario – in cui il Manchester United ha subito la storica umiliazione dal Grimsby, club di quarta serie. In ogni caso, da quando Federico Chiesa ha segnato il gol-partita al Bournemouth lo scorso 15 agosto, il sorriso che devo evidentemente aver tradito in quella circostanza mi ha marchiato come tifoso del Liverpool. Poteva andare peggio comunque, non mi lamento.

Il contesto

Provando a mettere ordine in quello che vedevo, ho capito che la Premier League in Uganda passa per due accessi allo show: quello domestico, in abbonamento, e quello “di strada”, che invece è un fenomeno collettivo. Da una parte ci sono i pacchetti completi sulle pay-tv (DStv/GOtv con i canali dedicati), dall’altra la finestra in chiaro del weekend (una partita a settimana su NBS Sport) che catalizza il pubblico. È un equilibrio semplice: chi può la guarda in casa, chi non può – o semplicemente preferisce – la vive fuori casa. Il risultato è che il calcio inglese si allarga ben oltre lo schermo. Non è solo ciò che si vede in tv, è il contesto che la amplifica.

La geografia del tifo coincide quasi al millimetro con quello che ho incontrato a Kampala e nei villaggi. Arsenal, Manchester United e Liverpool sono davanti a tutte, e con un certo distacco. Gli indicatori pubblici lo confermano: nelle ricerche online (fonte: Google Trends) l’Arsenal è stabilmente ai vertici, da tempo. E poi ci sono i volti locali che tengono accesa la miccia, cioè gli atleti-simbolo africani in Premier League: si citano spesso Wanyama (ex Tottenham) in Kenya o Samatta (ex Aston Villa) in Tanzania, mentre a Kampala si avverte la sensazione che il giorno in cui un giocatore ugandese entrerà davvero in EPL l’effetto sarà potente (un impatto simile a quello che dalle nostre parti sortisce lo sbarco di un italiano in NBA, provando a fare un parallelo contestualmente sensato). 

Sul piano economico, e allargando un po’ la prospettiva, il calcio inglese è un prodotto più che mai globale, che vive sempre più dei suoi mercati esteri. Nel 2025 i diritti tv internazionali hanno generato più ricavi di quelli domestici. In Uganda questo “macro” si traduce in un “micro” riconoscibile: un match in chiaro che da quattro stagioni raggiunge grandi numeri, una base pay-TV che sostiene l’intero palinsesto, e un’infinità di brand che si attivano intorno a questo mondo, tra cui le agenzie di scommesse, che raccontano in modo fin troppo evidente quanto il calendario sportivo nazionale sia “Premier-centrico”. Per colmare distanze e costruire ponti ci sono i progetti sul territorio. A Lugogo (Kampala), ad esempio, la “Road to Anfield” di Standard Chartered mette in campo un 5 contro 5 per aziende e community, con in palio un viaggio ad Anfield per i vincitori. I fan club fanno il resto, tra cui si segnala un gruppo di tifosi dell’Arsenal (a proposito: avete notato la patch Visit Rwanda da anni sulle maniche dei Gunners?) che organizza iniziative benefiche per comunità locali, scuole e orfanotrofi.

Sullo sfondo c’è il confronto con il calcio di casa. La StarTimes Uganda Premier League oggi ha maggiore visibilità e qualità rispetto al passato, da ogni punto di vista. La distanza dal campionato inglese, però, rimane ampia. C’entrano motivi tecnici e commerciali, ma anche sociali, legati alla riluttanza del pubblico a identificarsi con squadre professionistiche che spesso coincidono con apparati statali (polizia, ministeri, esercito, servizi pubblici). Non ultima c’è la geopolitica dei luoghi: parliamo di un Paese che è stato un protettorato britannico dal 1894 al 1962, con un trascorso simile a quello di Kenya e Tanzania. Sono tante le eredità che Londra ha lasciato da queste parti: la lingua inglese, la guida a destra, lo scellino, il Lago Vittoria, le Murchison Falls, fino alla Premier League. Più che un lascito coloniale, nei decenni è diventata un’abitudine condivisa, che oggi grazie allo sviluppo tecnologico è alla portata di milioni di persone. Prima di tutto questo, però, si mostra come una bellissima scusa per stare insieme e unire le persone.

Immagini dal campionato ugandese. Non esattamente il livello della Premier

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