Il Mondiale di ciclismo 2025 in Rwanda, tra contraddizioni e passione

Il Mondiale di ciclismo 2025 è una grande occasione per il Rwanda.

C’è un Rwanda, nei libri di storia e nella memoria collettiva delle ultime generazioni, che ha vissuto decenni sotto la dominazione belga (ai tempi Rwanda-Urundi), e poi se n’è liberato traumaticamente. Un’epoca conclusa nel 1962, ma con strascichi – l’assetto coloniale e le carte d’identità “etniche” – che hanno contribuito ai fatti degli anni ‘90, drammatici, quando Kigali è stata teatro di una delle più tragiche crisi umanitarie della contemporaneità. Un genocidio da 800.000 vittime circa in poco più di tre mesi. E poi c’è un Rwanda, nei notiziari degli ultimi mesi, in rapporti particolarmente conflittuali con l’ex madrepatria, dopo le frizioni esplose lo scorso marzo, tra accuse bilaterali sulla crisi congolese e chiusura delle rispettive ambasciate. Tra le “mille colline” di Kigali, invece, in questi giorni sventolano un po’ ovunque bandiere con il tricolore belga, lungo le strade del percorso cittadino del Mondiale di ciclismo 2025.

E non si tratta soltanto della solita invasione di tifosi in arrivo dalle Fiandre: si vedono anche fiumi di giovani appassionati locali riversarsi nelle strade per vedere Remco Evenepoel, Ilan Van Wilder e gli altri loro compagni di spedizione mentre si allenano per la gara principale in programma domenica, la prova in linea dell’élite maschile, che chiuderà la prima rassegna iridata in Africa. Un’edizione che si è aperta, tra l’altro, proprio con un tripudio di bandiere nere, gialle e rosse nel cuore del Convention Center e nell’entusiasmo generale per il “crono-threepeat” consegnato da Evenepoel al grande libro dello sport, dopo un 2024 che già lo aveva visto protagonista di un’epica doppietta olimpica.

C’è chi sui social ha parlato di “una prova di come lo sport possa andare oltre alle tensioni tra Rwanda e Belgio”, anche se forse sarebbe più accurato aggiustare il tiro e inquadrare un’altra dimostrazione dei ponti che il mondo sportivo può offrire alla politica. In ogni senso: tanto in accezione negativa – e si torna sempre lì, allo sportswashing e quindi all’uso di eventi del genere come strumento per “pulire” immagine e reputazione internazionale dei Paesi sotto una luce positiva, grazie al potere di unire popoli ed essere umani che, a parte il passaporto, non necessariamente devono rappresentare bandiere, governi o presidenti. Figurarsi trascorsi coloniali che nella stragrande maggioranza dei casi non hanno sperimentato, se non nei racconti di genitori, nonni, insegnanti e documentari.

Vivere con le contraddizioni

Sono due lenti diverse attraverso cui guardare al rapporto tra i due Paesi, che stanno emergendo nitidamente durante la settimana dell’UCI Road World Championships 2025. La realtà, d’altronde, è fatta di contraddizioni, soprattutto a queste latitudini e in contesti dove sport, politica, storia e società si attraversano nel profondo. Il bello e il difficile nel raccontare eventi del genere – me ne vengono in mente altri a cui ho personalmente assistito nel Golfo Persico, ad esempio – è proprio la difficoltà di restituire ai lettori le varie sfaccettature di questi appuntamenti, senza che una debba necessariamente prevalere sull’altra. Da una parte c’è l’assegnazione più criticata e controversa di sempre di un Mondiale, di cui si è parlato ampiamente negli ultimi mesi, e con valide argomentazioni; dall’altra, l’umanità di chi fa la storia con la s minuscola, come Evenepoel e i suoi adepti, in tutto il mondo. E l’entusiasmo con cui un Paese e un intero continente stanno accogliendo una pagina sportiva che sembra proprio un pezzo di storia con la S maiuscola, tanto sarebbe stata impensabile fino a qualche anno fa.

È per questi motivi che mi infastidiscono sempre i tentativi – a cui talvolta non riesco a resistere dal replicare – di chi vuole a tutti i costi screditare eventi sportivi che si inseriscono in contesti di sportswashing. Non è necessario negare la realtà dei fatti, e fingere un “flop” nel seguito di questo Campionato del Mondo, per sostenere tesi come gli standard poco democratici del governo (regime autoritario) di Paul Kagame, le violazioni dei diritti umani denunciate da tanti osservatori internazionali, il coinvolgimento nelle operazioni dell’M23 nella Repubblica Democratica del Congo, certificato tra gli altri da Nazioni Unite e Unione Europea. Queste distorsioni, anzi, sono una forma di manipolazione della narrazione sportiva, un modo di piegarla a uno scopo: proprio quello che, su scala più vasta, si denuncia in materia di sportswashing. Ad esempio quando si afferma, giustamente, che non vorremmo mai vedere – a proposito dei rapporti tesi tra i due Stati – la revoca del visto a un giornalista (Stijn Vercruysse) per avere esercitato la propria libertà di opinione.

Non siamo in Qatar, dove la Coppa del Mondo del 2022 si giocava effettivamente in un contesto deprimente, che non necessitava di alcuna reinterpretazione. Siamo in Rwanda, dove il ciclismo – in parte anche per eredità storiche – è una passione radicata, autentica e ben documentata. Da decenni ormai Kigali è la capitale di questo sport in Africa, un continente in cui si pedala sempre di più e a livelli sempre più competitivi. E a cui la competizione in corso, che piaccia o no, ha aperto nuove possibilità, come dimostra l’affluenza senza precedenti di atlete e atleti di origine africana. Anche questa, in fondo, è “democrazia sportiva”.

Il Mondiale di ciclismo 2025 è un mix unico

Vedere così tante bandiere belghe nel cuore di Kigali fa un certo effetto. Per l’ingombrante ruolo nella travagliata storia del Paese nel XX secolo, di cui lo stesso governo di Bruxelles si è assunto nel 1997 ampie responsabilità; ma anche per vicende più recenti come il caso Paul Rusesabagina, e fino alla rottura di inizio 2025, ancora lontana da una normalizzazione.

Dove c’è il ciclismo, però, c’è il popolo fiammingo, e questa non è una novità. Basti pensare ai numeri e alle scene che abbiamo visto nell’edizione del 2021, che si è tenuta nelle Fiandre e ha accolto oltre un milione di spettatori unici in una settimana; oppure il seguito televisivo del Tour of Flanders, classica primaverile che nel 2023 ha stabilito un nuovo record con una media 1.363.419 spettatori (dati Sporza/VRT), un picco di 1.651.103, e uno share arrivato oltre l’85% (!). O ancora, gli impressionanti dati (fuori scala per qualsiasi altro contesto in Europa) della regione fiamminga, dove vivono poco più di sei milioni e mezzo di persone, e dove ci sono sessantamila tessere attive con la Cycling Vlaanderen.

L’onda d’urto non si ferma alla sfera domestica. Come stiamo vedendo a Kigali – non esattamente una meta comoda ed economica da raggiungere – il seguito si estende anche in trasferta, in proporzioni neanche lontanamente paragonabili a quelle di altre nazionalità. Non sono disponibili per ora dati ufficiali sull’affluenza internazionale all’evento, ma il colpo d’occhio basta e avanza. L’iconico momento del “sorpasso” di Evenepoel a Tadej Pogačar nella cronometro di settimana scorsa, i continui cori “Remco, Remco, Remco!” che si alzavano dalla folla e la successiva premiazione lo hanno raccontato fin troppo chiaramente.

Non è un caso che il Belgio, rappresentato nel circuito da tre team (Alpecin-Deceuninck, Intermarché-Wanty e Soudal-Quick-Step), si presenti agli ultimi tre giorni tra le prime posizioni nel medagliere. Oltre a Remco e Van Wilder nella giornata d’apertura, è salito sul podio anche Seff van Kerckhove nella cronometro categoria juniores, e c’è ancora ampio spazio per rincarare la dose nelle ultime settantadue ore. E tutto ciò, peraltro, al netto della pesante assenza di Lotte Kopecky, bi-campionessa in carica che a Kigali avrebbe dato la caccia nella prova in linea a un altro “threepeat”, non fosse per l’infortunio rimediato recentemente alla Ronde de l’Ardèche.

Insomma, ormai siamo abituati a sentire l’inno belga dopo le corse, così come a vedere il fervore fiammingo esportato dovunque si corra. In casa, in giro per l’Europa e anche in altri continenti. Il mix con l’urukundo (espressione popolare con cui in kinyarwanda si descrivono passioni collettive) di Kigali, e il modo di vivere l’evento della città sono invece una novità che ha sorpreso anche i diretti interessati. “Una delle settimane più belle di sempre”, ha detto Evenepoel dopo il suo ultimo allenamento tra le “mille colline”, al termine del quale ha regalato borracce e materiale vario d’allenamento ai tanti giovani accorsi sul posto.

Il clima è quello di una festa senza precedenti e d’altronde la capitale del Rwanda si è letteralmente fermata per accogliere questo Mondiale. Scuole chiuse, uffici a mezzo servizio, traffico e trasporti cittadini ripensati in funzione dell’evento, SMS informativi ogni mattina sui numeri locali per segnalare eventi, strade chiuse e deviazioni, con invito a evitare spostamenti in auto e moto prima del tramonto e fino al termine delle gare. E chi scrive vi può confermare che la sensazione diffusa tra addetti ai lavori e stampa internazionale sia più o meno la stessa di Evenepoel. Dal punto di vista dell’organizzazione, fin qui impeccabile, ma anche e soprattutto per la febbrile curiosità e la genuina passione con cui i Kigalians stanno colorando l’evento. È davvero un Mondiale unico, per tanti motivi. Alcuni ci emozionano e ci piacciono, altri meno, alcuni per niente. Ma non potrebbe essere altrimenti.

Il momento più importante della cronometro di Kigali 2025: Evenepoel raggiunge e stacca Pogačar, tra l’esaltazione dei tifosi belgi

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