Con Durant gli Houston Rockets sono da titolo?

L'accoppiata Durant Sengun può far volare gli Houston Rockets malgrado l'infortunio di Van Vleet.

Oggi come ieri – ma forse un po’ più di ieri – il successo di una squadra che punta al titolo NBA passa da attacchi equilibrati su concetti di spazio e ritmo, in connubio con versatilità difensiva. Calcolando le 82 partite stagionali precedenti allo sprint finale, serve anche un organico numericamente attrezzato per preservare i titolari o più generalmente gli elementi chiave. Esistono però variabili incontrollabili, che superano il lavoro dei coaching staff ed il raggiungimento di certe alchimie, e possono rivoluzionare in poco tempo le previsioni. In questo articolo avremmo dovuto parlare degli Houston Rockets e delle loro prospettive, ma dopo l’infortunio occorso a Fred VanVleet ad una manciata di giorni dal training camp, tutto cambia. L’ex campione NBA con i Toronto Raptors – fresco di rinnovo estivo con la franchigia texana – ha infatti subito una rottura del legamento crociato anteriore del ginocchio destro, durante il minicamp di squadra alle Bahamas.

Un grande mercato fino all’infortunio di VanVleet

Una tegola pesantissima per una squadra reduce da oltre 50 vittorie nella scorsa regular season, piena di giovani prospetti dall’ampio margine di crescita, che inserisce al suo interno uno dei migliori scorer di tutti i tempi come Kevin Durant. Allungando ulteriormente il roster con le aggiunte di Dorian Finney-Smith (rinomato e prezioso 3&D), il ritorno del lungo svizzero Clint Capela e la presa di Josh Okogie, passata sottotraccia. Un mercato che ha regalato a coach Ime Udoka una serie di alternative per ogni ruolo, con la possibilità di schierarsi in campo con strutture diverse, magari al mutare delle peculiarità avversarie, in ambo le metà campo.

Insomma, una offseason apparentemente da applausi in quel di Houston, tanto da lasciar pochi dubbi sul potenziale del gruppo ai nastri di partenza per la stagione 2025-26. Almeno prima di questa notizia. Anche perché – a proposito di soluzioni dalla panchina – la posizione della point guard in cui VanVleet era titolare indiscutibile, non presentava grossa profondità certificata dietro di lui. Il suo rinnovo era apparso fondamentale, perché uno spaziatore naturale come KD non poteva risolvere da solo la larghezza del posizionamento offensivo di squadra. E viste le apparenti carenze di pericolosità dal perimetro diffuse negli assetti valutabili più forti, Fred avrebbe dovuto rappresentare una minaccia ulteriore per forzare le difese avversarie sull’arco, anche grazie alla sua esperienza. E così non sarà.

Osservando la caratura di un roster ampio e multiforme, si affacciavano almeno quattro interrogativi chiave da analizzare prima dell’avvio delle ostilità:

  • I giocatori spendibili a disposizione del coach non saranno numericamente troppi?
  • Chi inizierà l’attacco gestendo il tempo e lo spazio nella manovra?
  • Houston potrà permettersi continuativamente il doppio lungo in campo?
  • Come funzionerà l’offesa a difesa schierata con Durant?

È evidente che l’assenza prolungata di VanVleet modifichi ogni conclusione raggiungibile fino al momento del suo infortunio, facendo emergere un potenziale errore di gestione nell’architettura del mercato estivo, che poteva restare altrimenti mascherato. Ossia un disequilibrio tra frontcourt e un backcourt troppo corto. Durant e Alperen Şengün sono due All Star destinati a ricoprire ruoli d’attacco, ma a guardare in modo oggettivo troviamo in lista sei giocatori ruotabili nei ruoli di small e power forward più il veterano Jeff Green, tre centri canonici, incluso il giovanissimo turco, e troppi contratti pluriennali che in seguito alla defezione di Fred possono apparire esagerati.
Anche perché le alternative sono rappresentate dall’acerbo sophomore Reed Sheppard e un Aaron Holiday che diviene la guardia più affidabile a disposizione (al netto di ipotetici esperimenti di successo, ma ne parleremo poi).

I limiti degli Houston Rockets ai Playoff 2025

Ma andiamo per gradi, e guardiamo un attimo a come Houston ha chiuso la scorsa stagione, per provare a capire meglio. Dopo la fine dell’Era Harden e l’arrivo in panchina di coach Udoka, le 52 vittorie registrate al termine della stagione 2024-25, non erano scontate. In questi anni i Rockets hanno scelto al Draft prospetti importanti, seguendo una struttura ben delineatasi nel recente, ma non sempre la prima sensazione ha rispecchiato la giustezza dell’idea.

Certo, che Alperen Şengün potesse rappresentare un profilo interessante per le sue possibilità di creazione, era visibile. Così come il potenziale offensivo di Jalen Green, la versatilità di Jabari Smith Jr., il talento atletico di Amen Thompson e Tari Eason, oltre alle capacità balistiche di Reed Sheppard. Tuttavia è difficile che tutto vada secondo i piani, e soprattutto è complesso che un gruppo di giovani inesperti riesca a emergere più o meno all’unisono. Lo scorso anno, con l’impatto di veterani come Fred VanVleet, Dillon Brooks e Steven Adams, le cose hanno funzionato in maniera sorprendente.

E probabilmente il record finale è pure da considerarsi bugiardo, visto che una volta acquisito il secondo piazzamento ad ovest, la squadra si è pure permessa un po’ di relax in vista della postseason. Dove hanno incrociato i Golden State Warriors, squadra di vecchi volponi come Steph Curry e Draymond Green, rinfrancati dal successo dello scambio di metà stagione che ha portato Jimmy Butler nella baia. Sono servite sette partite per decretare il passaggio del turno, e per quanto Udoka abbia provato a giocarsi innumerevoli soluzioni difensive per limitare il potenziale avversario, l’esperienza dei Dubs ha avuto la meglio. Il tutto evidenziato nella decisiva Gara 7 – terminata 103-89 per i ragazzi di coach Kerr – impreziosita dalla prova da 9 su 11 dall’arco di Buddy Hield.

Insomma, un’eliminazione anzitempo se si considera lo storico stagionale, ma capace di manifestare con chiarezza le lacune del gruppo: non poche, ma di possibile risoluzione, con l’opportunità di aumentare le ambizioni nel breve muovendo le pedine giuste. Il primo problema emerso riguardava la produzione offensiva, con l’assenza di un attaccante affidabile da cui andare in momenti di siccità. E Jalen Green aveva clamorosamente bocciato la prova della postseason, chiudendo le sette sfide con appena 13,3 punti e 2,9 assist di media con il 37% dal campo ed appena il 29% dall’arco. Un disastro. L’assetto con il doppio lungo – affiancando Adams a Şengün – si era rivelato funzionale nell’occupazione degli spazi avversari anche attraverso la zona (oltre che decretare un dominio sul piano dei rimbalzi in attacco). Tuttavia la limitata efficacia perimetrale del contorno restituiva un’ampiezza troppo ristretta in attacco.

Thompson, Eason, il sopracitato Green e pure Brooks erano battezzabili senza troppe remore e il solo VanVleet, handler conclamato, per quanto pericoloso e ispirato non poteva rappresentare una soluzione. Smith, con un ottimo 45% da tre punti nella serie, non era andato oltre i 20 minuti di impiego in media per questione di accoppiamento. Il rookie Reed Sheppard non aveva trovato minuti con stabilità per tutta la stagione, mentre il talentuoso Cam Whitmore era finito ai margini di un gruppo già pieno di atleti “doppioni”. Tra l’altro, in regular season i Rockets si erano piazzati ventisettesimi nella lega per frequenza di tiri da tre punti e ventunesimi per percentuale di realizzazione, a dimostrazione di quanto emerso in postseason.

Gli highlights di Gara 7 contro gli Warriors

Le soluzioni al problema VanVleet

Quindi, la soluzione migliore è apparsa l’ingaggio di un attaccante come Durant in dichiarata partenza da Phoenix, trattandosi di un realizzatore “plug and play” capace di far male da spot up o in isolamento a gioco rotto, anche in zone di campo più ridotte. Senza esitazioni a sacrificare il giovane e inaffidabile Green oltre al mastino Brooks, agonista di livello ma non indispensabile per un gruppo che spesso e volentieri aveva vinto difensivamente le partite schierando la coppia formata da Thompson e Eason dalla second unit.

In quella metà campo, il valore a disposizione si mantiene indiscutibile osservando le capacità dei singoli. Perché Thompson, Eason, Finney-Smith sono élite nelle loro posizioni, Adams e Capela offrono stabilità a protezione del ferro e a rimbalzo, Smith e pure Durant dispongono di aperture alari importanti. Questo permette a Udoka ed il suo staff di preparare partite e serie playoff senza escludere ogni tipo di soluzione, inclusa una temibile zona 2-3 che nel massimo del suo potere potrebbe essere dimensionata per occupare tutto lo spazio di offesa avversaria. Provate ad immaginare un quintetto difensivo con Thompson e Eason nel backcourt, Durant con Adams e Şengün schierati nella seconda linea. Magari si rischia uno spacing assassino dall’altra parte, ma segnare contro una squadra con questa strutturazione appare difficilissimo. Anche perché Houston potrebbe mantenere lo stesso livello di stazza elevata inserendo Finney-Smith, Capela e Jabari Smith a sostituzione di altrettanti compagni.

Il problema è che adesso, con l’imprevisto occorso a VanVleet, un quintetto simile appare il più spendibile. Con tutte le criticità offensive che abbiamo già introdotto, viste le incognite nella prima linea. Perché Amen Thompson ha dimostrato ampiamente di avere fondamentali da handler, e quello che Houston si augurava rispetto al suo sviluppo, è che potesse ricoprire quel ruolo un domani. Ma, come detto, l’orizzonte si è tremendamente avvicinato e Amen è al momento il miglior palleggiatore a disposizione, per aprire e chiudere le sfide.
Il problema riguarda la sua affidabilità al tiro, autentico tallone d’achille certificato e la cui risoluzione non appare così rapida. Anche se ci avesse lavorato in estate con successo (come si vocifera). Con Thompson da portatore primario, il suo difensore passerà sistematicamente sotto i blocchi nei giochi a due, sfidandolo al tiro e riducendo gli spazi dei Rockets. Dovrà quindi essere bravo a punirli, sfruttando il suo atletismo e la capacità di crearsi vantaggi in velocità, magari favorendo ritmi elevati e prediligendo la semi-transizione nell’accesso ai giochi. In quel caso però, Şengün riuscirà a tenere il passo? E quanto potrà esser schierato a fianco di Adams o Capela in quintetti di non-tiratori eccetto KD?

Se l’idea del doppio lungo si mantiene primaria nell’ottica di vincere le partite dominando i tabelloni, come può convivere con una difesa asfissiante che punti al ribaltamento di fronte rapido? Certo, se l’assetto principale pone di fianco al turco e a KD uno tra Jabari Smith e Dorian Finney-Smith, la situazione può risultare più funzionale. Ma si perde la possibilità di passare a zona per spezzare la fluidità offensiva avversaria.

Il giovane Sheppard in questo potrebbe rappresentare una soluzione, perché dovrebbe essere temibile da tre punti e capace di iniziare gli attacchi. Ma il condizionale è d’obbligo rispetto al poco visto lo scorso anno, in cui ha giocato appena 652 minuti stagionali malgrado fosse in salute, peraltro senza brillare in quanto a percentuali al tiro nelle occasioni avute. In un mondo perfetto, lui e Amen sarebbero stati utilizzati senza correre rischi, progressivamente ed in modo oculato, forti delle garanzie offerte dal compagno veterano. Adesso, al netto di Holiday, Udoka sarà costretto a lanciarli senza apparente paracadute. Aumentando così le incertezze che, malgrado questo, resistevano comunque a livello di mix tra giocatori.

E quindi, dopo le dovute considerazioni circa la gestione del tempo in attacco, è necessario interrogarsi sulle soluzioni relative alla sorgente di creazione. Laddove VanVleet lasciava di per sé solidi dubbi in materia di playmaking d’élite e già si pensava a Şengün come possibile principale iniziatore dei giochi. Chiaramente non partendo con la palla in mano, seppur lo si sia visto a sprazzi sperimentare questa soluzione vestendo la maglia della Turchia a Eurobasket 2025. Dove, sotto la guida di coach Ergin Ataman, il lungo ha dimostrato di saper creare partendo da fuori area e puntando il diretto avversario, oltre che in post (alto o basso che sia).

Ma l’ipotesi di utilizzarlo da “point center” non può che restare una soluzione residuale, che rischia di morire rapidamente se Alperen dimostrerà di non aver acquisito concretezza e fluidità da dietro l’arco. Cosa tutt’altro che scontata, malgrado lo sviluppo progressivo. Certo, lo si può alternare a Durant, ché di pericolosità ed efficienza ne ha dimostrate, in carriera.

Anche in questo caso però, crolla un po’ il castello di carte per cui KD rappresentava il valore aggiunto partendo da spot up shooter, e opzionando la soluzione di attaccare palla in mano solo in contesti di gioco rotto o in momenti di siccità generalizzata dei compagni a difesa schierata. Trovarsi senza un portatore di palla affidabile rende tutto troppo sperimentale e meno imprevedibile, se le stesse soluzioni dovessero rivelarsi inefficaci. E visto che al centro di esse troviamo giocatori giovani, non è detto che 82 partite di stagione funzionino da training preparatorio per il momento decisivo, quando bisogna sbagliare il meno possibile se si vuol puntare a vincere, e cioè i playoff. Insomma, le risorse non mancano ma senza VanVleet è molto complesso trovare un equilibrio che permetta aggiustamenti volanti ad hoc durante una partita.

I Rockets hanno reali chance?

Quindi, in estrema conclusione, la domanda delle domande: gli Houston Rockets possono puntare al titolo NBA 2026 ai nastri di partenza stagionale? La risposta probabilmente era sì prima dell’infortunio di VanVleet. Perché Durant era l’arma in più che mancava, Şengün una stella con margini di crescita, Thompson altrettanto ed il contorno garantiva soluzioni potenziali in opposizione o difesa di qualsiasi struttura avversaria.

Senza il veterano ex Raptors però, troppi azzardi divengono indispensabili per mantenere equilibrate le due anime conviventi in questo gruppo: quella che nasce dall’aggressività difensiva e l’altra che punta a vincere le partite con i vantaggi di stazza su (quasi) tutte le posizioni. È necessario affidarsi troppo a Sheppard o Holiday, con il rischio al contempo che giocatori come Jabari e Finney-Smith escano ridimensionati nei minutaggi, al punto da dover accettare ruoli da specialisti soprattutto in partite che contano. Se si tratta di gestione del gruppo dentro e fuori il campo, Ime Udoka ha già dimostrato di essere più di un valore aggiunto nella sua giovane carriera di allenatore. È praticamente una garanzia.  Ma tatticamente è necessario aggiungere qualcosa al backcourt e guardando agli svincolati (al netto dei problemi di salary cap) non è detto che il ritorno di un redivivo Russell Westbrook possa rappresentare un’ancora di salvezza.

Anche perché, se le spaziature erano già di per sé un problema – e lo sono di più dopo l’infortunio di VanVleet – figuratevi come potrebbero apparire quelle di Houston con Russ al timone. Ammesso che Kevin Durant accetti di tornare a giocare con l’ex compagno ai tempi dei Thunder. Un dettaglio non irrilevante, inoltre, è che malgrado la trade estiva KD non ha ancora firmato il suo prolungamento con i Rockets. Conoscendo la volatilità del personaggio, chissà cosa potrà succedere.

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