Calcio e basket in Italia rappresentano i due sport di squadra più seguiti e praticati, anche se con dimensioni e impatti economici non paragonabili. Il calcio rappresenta il “gioco nazionale”, un’industria che muove miliardi, mentre il basket è una disciplina che da decenni fatica a consolidare un pubblico stabile e una dimensione mediatica rilevante, pur contando su una tradizione rispettabile, data dall’esistenza di club storici, e su una discreta produzione di giovani interessanti.
Tuttavia, pur partendo da basi diverse, i due movimenti hanno in comune alcune difficoltà: strutture obsolete, rapporti problematici con i media, difficoltà a trattenere i talenti, debiti e conflitti interni tra club, leghe e federazioni. A monte, resta un nodo comune: la qualità della governance, cioè la capacità delle istituzioni sportive di guidare i processi di riforma e di rilancio. E qui si aprono le differenze più significative, che ci permettono di confrontare la FIGC guidata da Gabriele Gravina e la FIP guidata da Giovanni Petrucci. Due presidenti che incarnano filosofie e atteggiamenti diversi, ma anche due uomini di potere che riflettono le contraddizioni più ampie dei rispettivi sport.
Il sistema calcio allo sbando
Quando Gabriele Gravina venne eletto presidente della FIGC nel 2018, molti parlarono di una nuova stagione per il calcio italiano. La sua figura sembrava lontana dai toni grotteschi della gestione Tavecchio: elegante nei modi, esperto di governance, apparentemente aperto al dialogo e alla riforma. Prometteva riduzione dei campionati, trasparenza finanziaria, sostenibilità e sviluppo dei vivai. Insomma: una rivoluzione culturale. Oggi, a distanza di diversi anni, il bilancio è impietoso. Quelle parole sono rimaste sospese nel vuoto, senza mai tradursi in fatti concreti. Il calcio italiano continua a galleggiare in un mare di problemi strutturali, mentre la presidenza Gravina si è rivelata un esercizio costante di sopravvivenza politica.
Uno dei cavalli di battaglia di Gravina all’inizio del mandato fu la riduzione del numero di squadre professionistiche. La Serie C, con le sue 60 partecipanti divise in tre gironi, è da anni un campionato insostenibile, economicamente e sportivamente. Ogni estate assistiamo a fallimenti, rinunce e ripescaggi, con un carosello di squadre che entrano ed escono dal professionismo senza mai trovare stabilità.
Gravina aveva promesso di ridurre e razionalizzare il sistema. Cosa è stato fatto? Nulla. Ogni volta che la discussione è arrivata al tavolo, le resistenze dei club e il timore di perdere consenso hanno fatto saltare il banco. La Serie C continua a essere il simbolo del caos, con società spesso improvvisate, senza garanzie economiche e con giocatori costretti a stipendi da dilettanti in un campionato che si ostina a definirsi professionistico. Discorso analogo per la Serie B, che alterna progetti di rilancio a dispute infinite sulla composizione del campionato. Le categorie restano inflazionate, con un numero eccessivo di squadre che vivono al di sopra delle proprie possibilità.
Club indebitati e bilanci truccati
Altro nodo cruciale: i bilanci delle società professionistiche. Il calcio italiano, soprattutto in Serie A, continua a presentare una situazione allarmante: debiti altissimi, ricavi stagnanti, stadi vecchi e dipendenza quasi totale dai diritti televisivi. Gravina ha spesso parlato di sostenibilità, ma la realtà dice altro. Le società continuano a drogare i bilanci con plusvalenze fittizie e operazioni creative, mentre la FIGC si limita a concedere deroghe e soluzioni tampone. La vicenda Juventus e il caos plusvalenze hanno mostrato in maniera evidente quanto il sistema sia malato e quanto poco la Federazione sia disposta a intervenire con fermezza.
Un presidente davvero riformista avrebbe imposto regole rigide e avviato un percorso di controllo e di responsabilità. Gravina, invece, ha scelto la strada del compromesso, lasciando che i problemi venissero rinviati di anno in anno. Il calcio italiano non vive di sostenibilità, ma di eccezioni. Ogni volta che i club si trovano con i bilanci in rosso, la FIGC corre a bussare alle porte del governo, chiedendo norme speciali o dilazioni fiscali, che garantiscano salvataggi più o meno mascherati. È la logica del “troppo grande per fallire”. Gabriele Gravina si è fatto maestro in questa arte: più che guidare una riforma, ha trasformato la sua presidenza in un’attività di lobbying permanente verso il Parlamento e i ministeri competenti.
Durante la pandemia, quando gli stadi erano chiusi e i club si trovavano a corto di liquidità, la FIGC ottenne una serie di agevolazioni fiscali e dilazioni nei versamenti. Una scelta comprensibile in un momento di emergenza, ma che non ha mai lasciato spazio a un piano di ristrutturazione. Il modello è stato semplice: tamponare i problemi immediati con aiuti pubblici, senza mai affrontare la questione centrale della spesa fuori controllo. Così, invece di ridurre i costi e razionalizzare i campionati, il sistema ha continuato a vivere al di sopra delle proprie possibilità.
Nazionali giovanili: il talento che se ne va e i fallimenti azzurri
Un altro punto dolente è lo sviluppo dei settori giovanili. L’Italia continua a produrre buoni talenti, ma con un ritmo insufficiente rispetto alle altre nazioni. Le riforme annunciate per favorire l’impiego degli Under 21 nei club professionistici non hanno avuto effetti significativi. Le squadre di Serie A preferiscono ancora affidarsi a stranieri a basso costo piuttosto che investire davvero nei vivai. E la Federazione, invece di imporre regole vincolanti o incentivi concreti, si limita a ripetere slogan.
Il risultato è un calcio che perde i suoi migliori giovani all’estero e che fatica a costruire un’identità forte per le nazionali. Ormai tantissimi tra gli Under 19 preferiscono lasciare l’Italia e completare la loro formazione in campionati esteri che garantiscono minuti importanti nelle prime squadre. Olanda, Germania e Inghilterra le principali mete per i nostri giovani talenti: Paesi che si assicurano a costi irrisori futuri campioni, che un giorno potrebbero anche decidere di accettare la corte delle rispettive selezioni.
Il calcio italiano vive anche di simboli. L’11 luglio 2021, lo stadio di Wembley si colorava d’azzurro. L’Italia di Roberto Mancini batteva l’Inghilterra ai rigori e tornava sul tetto d’Europa dopo 53 anni. Una vittoria straordinaria e inattesa, che ridava entusiasmo a un Paese calcistico reduce da anni di delusioni. Il presidente della FIGC, Gabriele Gravina, si presentava come l’uomo che aveva accompagnato la rinascita. Sorridente ma soprattutto pronto a intestarsi il merito di un progetto vincente. Sembrava l’inizio di una nuova era.
Meno di un anno dopo, il sogno si trasformava in incubo. Il 24 marzo 2022, al “Barbera” di Palermo, l’Italia perdeva contro la Macedonia del Nord, salutando la qualificazione al Mondiale in Qatar. Una disfatta che resterà tra le più gravi della storia sportiva nazionale. L’Italia arrivava agli spareggi dopo aver fallito partite decisive con Svizzera e Irlanda del Nord, sprecando occasioni clamorose. La squadra campione d’Europa, forte di entusiasmo e qualità, non riuscì a vincere un girone più che abbordabile e il ko con la Macedonia del Nord non fu altro che il colpo di grazia. Ma le radici del fallimento erano già chiare: incapacità di segnare, difficoltà nel rigenerare la rosa, gestione approssimativa delle qualificazioni. Per una nazione che aveva già vissuto l’umiliazione di Russia 2018, l’eliminazione dal Mondiale 2022 rappresentava una ferita insopportabile. Per la prima volta nella storia, l’Italia ha mancato due edizioni consecutive della Coppa del Mondo.
In qualsiasi altro Paese o contesto sportivo, un presidente federale avrebbe assunto la responsabilità politica dell’accaduto. Avrebbe convocato un’assemblea straordinaria, presentato un piano di riforme e soprattutto rimesso il proprio mandato. Gravina no. La sua reazione fu quella di minimizzare. Parlò di “episodi”, di “sfortuna”, di un calcio che aveva comunque dimostrato competitività vincendo l’Europeo. Una giustificazione che suona come un insulto all’intelligenza dei tifosi. Se essere campioni d’Europa non era bastato a qualificarsi a un Mondiale, allora qualcosa non funzionava davvero. Ma Gravina preferì non ammettere il fallimento. Per un Paese che fa del calcio la sua religione laica, ritrovarsi davanti alla televisione a guardare due Mondiali consecutivi senza gli azzurri è un’umiliazione storica. Gravina, invece di assumersene la responsabilità, ha continuato a coltivare la sua immagine da burocrate rassicurante.
Nella storia del calcio italiano, i fallimenti mondiali hanno sempre prodotto terremoti. Dopo la sconfitta contro la Corea del Nord nel 1966 nacque il nuovo ciclo che portò al trionfo del 1982. Dopo Corea-Giappone 2002, il malcontento aprì la strada a nuovi progetti. Oggi, dopo due eliminazioni consecutive, nulla è cambiato. Non c’è stata autocritica, non c’è stata riorganizzazione. È come se il fallimento non fosse mai avvenuto. La parabola di Gravina – dall’esultanza di Wembley alle giustificazioni di Palermo – è l’emblema del calcio italiano: capace di exploit inattesi, ma non di costruire continuità. Il problema non è solo la sconfitta contro la Macedonia del Nord, ma la cultura che la sottende: una cultura dell’alibi e della paura di cambiare.
Il basket di Petrucci: stabilità o immobilismo?
Se nel calcio il problema è l’immobilismo mascherato da riformismo, nel basket il nodo si chiama accumulazione di potere. Giovanni Petrucci è l’uomo che da più di vent’anni tiene le redini della Federazione Italiana Pallacanestro (FIP). Ex presidente del CONI, tornato alla guida della FIP nel 2012 dopo un primo lungo regno, Petrucci è il prototipo del dirigente “padre padrone”: accentratore, abile nel costruire reti di fedeltà e sempre presente nei palazzi che contano. Il suo nome divide: per alcuni ha garantito stabilità a un movimento fragile e litigioso, per altri è il principale ostacolo al rinnovamento di una disciplina che resta prigioniera della sua marginalità mediatica.
Il quadro del basket italiano è noto: palazzetti vecchi, scarso seguito televisivo, pubblico limitato a poche piazze storiche (Milano, Bologna, Venezia) e talenti che spesso emigrano all’estero. Nonostante una tradizione importante, la pallacanestro non riesce a imporsi nel panorama sportivo nazionale. Petrucci ha avuto il merito di mantenere in piedi la baracca, evitando implosioni e fallimenti sistemici. Negli anni ha gestito con polso le relazioni con le leghe, spesso litigiose, imponendo decisioni quando necessario. In un contesto fragile, la sua figura è stata percepita come garanzia di continuità.
Tuttavia, il rovescio della medaglia è evidente: l’accentramento del potere. Petrucci governa la FIP come un feudo personale. Le decisioni più importanti passano da lui, le opposizioni interne vengono neutralizzate, il ricambio dirigenziale è sostanzialmente inesistente. Molti osservatori sottolineano come la sua leadership sia più vicina a quella di un “padrone” che a quella di un presidente moderno. Un modello che può garantire ordine, ma che frena l’innovazione. In un’epoca in cui altri Paesi investono su marketing, tecnologia e strategie di lungo periodo, la FIP resta legata a un modello di gestione centralizzato e tradizionale.
Il dilemma è tutto qui: meglio un presidente forte, che evita il caos ma blocca il ricambio, o un sistema più aperto che rischia conflitti ma favorisce idee nuove? Petrucci ha sempre difeso la sua linea sottolineando i rischi dell’anarchia: senza una guida ferma, il basket italiano si perderebbe in lotte intestine tra lega e club. Ma questa giustificazione, ripetuta da anni, non può diventare una condanna eterna. La stabilità, se non accompagnata da crescita, si trasforma in stagnazione.
La nazionale come bandiera
Uno dei meriti più riconosciuti a Petrucci riguarda la nazionale. Dopo 17 anni di assenza, l’Italia maschile è tornata ai Giochi Olimpici nel 2021, eliminando la Serbia nello spareggio di Belgrado. Un risultato che ha ridato prestigio e visibilità alla pallacanestro azzurra, riportando entusiasmo attorno al movimento. Tuttavia i risultati hanno comunque stentato a decollare, sia con roster particolarmente talentuosi a disposizione, sia con roster più incentrati su un grande spirito di gruppo e di sacrificio. La recente eliminazione all’Europeo per mano della Slovenia agli ottavi di finale certifica ulteriormente che quello azzurro sia certamente un buon gruppo, ma che non riesca a far emergere valori tecnici che possano fare da catalizzatore per raggiungere successi o piazzamenti di prestigio.
Anche nelle categorie giovanili qualche segnale positivo è arrivato: buoni piazzamenti e soprattutto talenti che hanno iniziato a emergere e che hanno consegnato al nostro movimento dei risultati decisamente interessanti per il futuro della nostra nazionale. In particolare l’Under 17 si è distinta questa estate con il secondo posto finale al Mondiale di categoria, battuta unicamente dai mostri degli Stati Uniti, mettendo in vetrina talenti assoluti come Luigi Suigo, Maickol Perez, Achille Lonati e Diego Garavaglia. Petrucci ha saputo valorizzare questi successi, presentandoli come prova della vitalità del basket italiano.
Sicuramente Giovanni Petrucci resterà nella storia del basket italiano come il longevo presidente che ha garantito sopravvivenza e dignità in tempi difficili. Ma resterà anche come colui che non ha favorito un vero rinnovamento. Risulta certamente comprensibile il motivo della sua scelta a capo della federazione, dal momento che il passato, sotto la sua guida, è stato florido per il nostro basket. Durante la sua presidenza dal 1992 al 1999, l’Italbasket ha raggiunto due finali europee consecutive, vincendo nel 1999 contro la Spagna in quello che ad oggi è l’ultimo trionfo internazionale per i nostri colori. La sua forza è stata quella di mantenere la rotta. Il suo limite, quello di non aver mai permesso al movimento di cambiare passo. Così il basket italiano vive sospeso: non crolla, ma non decolla. In fondo, la parabola di Petrucci è la stessa dello sport italiano: un eterno presente, fatto di equilibri conservati, di piccoli successi celebrati e di grandi occasioni mancate.
Calcio e basket in Italia, due sistemi che non hanno futuro
Alla luce di quanto discusso, il paragone con la gestione Gravina del calcio italiano viene spontaneo. Se il presidente della FIGC è accusato di debolezza, Petrucci è accusato dell’opposto: eccesso di controllo. Gravina non decide nulla, Petrucci decide tutto. Entrambi, in modi diversi, finiscono per paralizzare i rispettivi movimenti. Almeno, però, il basket può rivendicare piccoli successi (Olimpiadi, crescita di club come Milano e Virtus Bologna) che danno un senso alla sua continuità. Il calcio, al contrario, ha principalmente fallimenti da raccontare.
Entrambi i modelli portano allo stesso esito: assenza di progresso. Il calcio affonda nel caos e nella mancanza di visione. Il basket sopravvive, ma resta confinato nella sua marginalità. In tutti e due i casi, il sistema resta bloccato. Tra calcio e basket le similitudini si trovano anche nell’autoreferenzialità. Gravina e Petrucci hanno entrambi imparato a presentare piccoli successi come grandi traguardi. Il presidente FIGC usando la vittoria ad Euro 2020 come scudo per giustificare il fallimento mondiale, mentre il presidente FIP ha trasformato la qualificazione olimpica in un trionfo assoluto, oscurando i problemi strutturali del basket. In definitiva, hanno entrambi costruito narrazioni che servono più alla loro legittimazione personale che alla crescita dei movimenti.
Ma il dato più preoccupante è l’assenza di alternative. Gravina e Petrucci sono veri e propri sistemi di potere, il primo resiste perché i club, divisi e deboli, preferiscono non mettersi contro di lui, il secondo perché ha costruito una rete di fedeltà che rende quasi impossibile un cambio di leadership. In entrambi i casi, manca un vero ricambio generazionale, sia dirigenziale che progettuale. Calcio e basket italiani condividono anche un tratto culturale: la cultura dell’alibi. Quando le cose vanno male, la colpa viene sempre individuata altrove, spaziando dalla politica al destino. Se, come detto, Gravina parla di “sfortuna” e “episodi”, Petrucci rilancia con “limiti strutturali inevitabili”. Nessuno dei due ammette che la responsabilità sta anche e soprattutto nelle scelte (o nelle non–scelte) della Federazione.
FIGC e FIP, le federazioni di calcio e basket, incarnano due modelli opposti, ma ugualmente nocivi, con il risultato che nessuno dei due sport riesce a crescere. L’Italia del calcio continua a fallire appuntamenti mondiali o a faticare per tornare a una dimensione internazionale che un tempo rappresentava il minimo sindacale, quella del basket a vivere nell’ombra, incapace di costruire un vero movimento popolare. Il problema, alla fine, è più ampio rispetto ai presidenti federali e inquadra un Paese che, a livello, sportivo non sa rinnovarsi, che accetta presidenti eterni o inamovibili, preferendo la conservazione al cambiamento. Finché questa cultura non verrà spezzata, calcio e basket in Italia faticheranno a tornare davvero grandi.