Sì o no ai test di genere? Il dibattito sul futuro dell’atletica

L'obbligo dei test di genere nell'atletica femminile ha riportato a galla una annosa polemica.

Sembra un paradosso del nostro tempo: mentre le donne iniziano a farsi spazio nei vertici dello sport globale – vedi l’elezione di Kirsty Coventry – tornano in scena pratiche che sembrano uscite da un manuale del secolo scorso. L’ultima trovata, che poi non è una novità ma un ritorno a sistemi arcaici, è il test salivare introdotto da World Athletics (la federazione mondiale di atletica) per verificare il genere.

L’atletica dice sì ai test per verificare l’identità di genere femminile

La scelta, annunciata a fine marzo, è stata avallata dal numero uno della Federazione. Sebastian Coe, già sconfitto nella corsa alla Presidenza del CIO, è noto per le sue posizioni nette, come l’opposizione al reintegro di atleti russi e bielorussi. Per lui la decisione è:

Un modo molto importante per creare fiducia e mantenere un’attenzione assoluta sull’integrità della competizione femminile. È importante perché (…) non si tratta solo di parlare dell’integrità dello sport femminile, ma di garantirlo.

La decisione è presa, anche se non è ancora chiaro quando entrerà in vigore. Si parla dei Mondiali di Tokyo, in programma quest’anno dal 13 al 21 settembre su quella pista che ha fatto sognare l’Italia con Marcell Jacobs e Gianmarco Tamberi alle Olimpiadi disputate nel 2021. L’argomento, almeno in Italia, non ha destato particolare interesse.

Basterebbe pensare a quanto accaduto la scorsa estate a Imane Khelif, per capire quanto la questione sia tutt’altro che secondaria. L’atleta, quest’anno, come già successo nel 2023, non ha potuto partecipare ai Mondiali a seguito di alcuni test, poiché non ha soddisfatto i requisiti di idoneità di genere dell’IBA, la Federazione internazionale di pugilato.

“Tutelano le donne”: parola di Manuela Levorato

Tra le poche che, in Italia, si sono esposte c’è la vicepresidente della FIDAL ed ex campionessa azzurra, Manuela Levorato, che ha affidato il suo pensiero ad Ansa:
Ne abbiamo discusso molto in Fidal, perché abbiamo dovuto esprimere un parere così come ci ha chiesto la federazione internazionale che aveva tracciato una linea. La soluzione non è facile da trovare, ma c’è la necessità di regolamentare. E fermo restando che tutti devono poter gareggiare, la tutela della donna è sacra. E quindi le gare devono poter essere alla pari.
C’è la massima comprensione per trovare una soluzione che venga incontro alle esigenze di tutti, ma è chiaro per esempio che se nasci maschio anche con la transizione i polmoni restano quelli di un uomo.
Noi pensiamo che servirebbero supporti psicologici perché, ribadisco, l’ambito è delicato e dietro ci possono essere storie di sofferenza. Abbiamo prodotto un dossier voluminoso, ma non ci sono grandi soluzioni. Fermo restando che da qualche parte bisogna cominciare.
Un linguaggio che riflette la difficoltà del dibattito, spesso intrappolato tra esigenze regolamentari e istanze identitarie. Il test di genere, infatti, non è una novità per il mondo dell’atletica, come dimostrano le parole della Levorato, che mostrano come certi strumenti – anche se oggi appaiono sotto una veste più scientifica o mediatica – affondano le radici in pratiche ben più antiche e forse mai del tutto superate:
E comunque io un test analogo l’ho fatto nel ’96: erano i Giochi del Mediterraneo e a tutte le atlete hanno fatto il prelievo della saliva per la stessa finalità. Quando correvo non nascondo che più di una volta ho avuto qualche dubbio su alcune rivali. Comunque ora qualcosa andava fatta, anche se la soluzione resta difficile da trovare.
Quasi trent’anni dopo cambia la narrazione, ma la logica sembra la stessa.

Le posizioni dell’allora IAAF e del CIO

I test a cui si riferisce Levorato risalgono a quando si diffuse la notizia che alcune delle migliori atlete della Russia e dell’Europa dell’Est fossero in realtà uomini. Il provvedimento del mese di marzo, altro non è che un prosieguo di quanto attuato nel 2023. World Athletics ha deciso di escludere dalle competizioni di caratura internazionale le atlete transgender. La norma non si applica però alle atlete DSD ovvero “disorders of sex development”, che devono rispettare determinati livelli di testosterone.

Nel 2011 era stato proibito alle donne iperandrogene di gareggiare nelle categorie femminili senza consenso medico o senza rispettare i limiti di testosterone. La IAAF è così diventata di fatto la prima federazione internazionale a dettare regole per gli accessi alle competizioni con il documento “Eligibility of females with hyperandrogenism to compete in women’s competition”.

Le atlete con diagnosi accertata o sospetta di iperandrogenismo oppure con livelli di testosterone alti (sopra i 10 nml), sono state obbligate a sottoporsi a un esame medico. Inoltre, hanno dovuto accettare di fare trattamenti per modificare i parametri. Nel tempo, il documento ha subito varie modifiche. Oggi fa fede una versione del 2019: bisogna avere un livello di testosterone sotto i 5 nml registrato nei dodici mesi prima della gara. Per il CIO, invece, prevale il principio dell’autodeterminazione di genere.

I primi test di genere nell’atletica

“My Body, My Choice”, slogan simbolo del femminismo contemporaneo, nasce nel contesto della battaglia per il diritto all’aborto. Ma trova eco anche qui: nello sport, dove il corpo femminile continua ad essere sorvegliato, misurato, messo in discussione. Un controllo che ha radici profonde e una lunga storia fatta di sospetti e umiliazioni. Chiedere alle sprinter Helen Stephens e a Stella Walsh.

Stephens, statunitense, vinse l’oro nei 100 e nei 400 metri ai Giochi di Berlino 1936. I suoi tempi erano così impressionanti che venne sottoposta a test per verificarne il sesso: non emerse nulla di irregolare, ma le voci continuarono a perseguitarla. Walsh, polacca naturalizzata americana, vinse l’oro nei 100 metri a Los Angeles nel 1932. L’americana, nota per aver rifiutato un invito nella villa di Berchtesgaden di Hitler, fu una delle prime donne a essere testata. I suoi tempi sembravano irreali per un’atleta di sesso femminile.

A partire da quel momento, bastava una performance sopra la media o un corpo fuori dagli schemi per finire sotto esame. L’ex IAAF istituzionalizzò così il sospetto, trasformando l’eccezione in anomalia da verificare. Stephens fu perseguitata per anni ma non venne mai trovato alcun elemento che confermasse le voci sul suo conto. Solo dopo la morte, un’autopsia rivelò la presenza di caratteristiche genetiche maschili e femminili.

Questa politica del sospetto rimase fino a Roma 1960: molti Paesi mentivano, anche per ragioni politiche, sul sesso dei propri atleti e pian piano si decise di controllare letteralmente i corpi, facendo spogliare le atlete. Quattro anni dopo il CIO introdusse il controllo cromosomico, che non si dimostrò particolarmente efficiente. A inizio anni ’90, i test vennero sostituiti dal CIO (ma sospesi dall’IAAF). Da quel momento si iniziò a testare la presenza del gene SRY o del segmento DYZ1, che si trovano solitamente nel cromosoma Y (quello maschile).

Nemmeno esami erano però perfetti per indicare se una persona fosse biologicamente uomo o donna a causa di varie mutazioni. Tra i casi più emblematici c’è quello dell’atleta spagnola María José Martínez-Patiño, affetta da insensibilità agli androgeni, un’anomalia genetica per cui si può possedere un cromosoma Y ma sviluppare un corpo femminile.

Alla fine il CIO decise di abbandonare questi controlli come aveva fatto la IAAF, riservandosi la possibilità di indagare sui casi sospetti. Nel 2000, il Comitato Olimpico Internazionale ha dato delle linee guida, interrompendo di fatto i controlli sul sesso delle atlete in occasione dei Giochi Olimpici di Sydney. Eppure, dopo il caso Semenya, anche in occasione dei Giochi di Londra 2012 il CIO si è avvalso della facoltà di utilizzare test per verificare se un’atleta avesse o meno livello di testosterone troppo alti.

Tra modifiche e cambiamenti, nel novembre 2021 sono state aggiornate le “regole” con nuove disposizioni basate su “equità, inclusione e non discriminazione basata sull’identità di genere e le variazioni del sesso”. Inoltre il CIO ha deciso di non imporre limiti sul testosterone, affidando la scelta alle singole federazioni.

Il caso Caster Semenya

Il caso che più ha fatto parlare, arrivando fino alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, è quello di Caster Semenya. Nel 2009 la sudafricana vinse gli 800 metri ai Mondiali di Berlino con un distacco abissale sulle rivali. Il suo fisico, definito da molti “troppo mascolino”, scatenò una reazione feroce. I risultati dei test eseguiti sono rimasti secretati. L’attenzione mediatica fu implacabile e la IAAF — pur ritirando i test di genere — introdusse regole sull’iperandrogenismo. Anni dopo si seppe che Semenya rientrava tra le atlete DSD. Le nuove normative, rafforzate dal 2011, le impedirono di gareggiare. Semenya non si è mai arresa: dopo una lunga battaglia legale, nel 2023 ha ottenuto una parziale rivincita dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha riconosciuto l’assenza di garanzie istituzionali nelle sentenze precedenti.

Solo anni dopo si è scoperto che la sudafricana rientrava tra le atlete DSD con un alto tasso di testosterone. Le norme sopracitate, introdotte dal 2011 – poi sospese nel 2015 dopo il ricorso dell’indiana Dutee Chand – hanno impedito alla sudafricana di competere.

Il trionfi in pista hanno rappresentato l’inizio del calvario per Caster Semenya

Non solo atletica: la vicenda di Negesa e i test di genere di Imane Khelif

Meno nota la storia dell’ottocentista ugandese Annet Negesa. L’atleta fu costretta a sottoporsi a un’operazione per asportare le gonadi. L’operazione ha di fatto messo fine alla sua carriera e causato una serie di problemi e danni fisici. A Negesa dissero che avrebbe dovuto sottoporsi ad alcuni trattamenti per abbassare il livello di testosterone, come ha spiegato lei stessa in Life is not a Competition, but I’m Winning, documentario che racconta la sua storia.

Infine, ci sono i recenti casi delle pugili Lin Yu-ting di Taiwan e dell’algerina Imane Khelif. Le due hanno ottenuto il via libera a prendere parte ai Giochi Olimpici di Parigi 2024 dal CIO, che ha fatto seguito a quanto successo a Tokyo 2020, condannando i test di genere della IBA.

Alla fine resta una domanda aperta, forse la più scomoda di tutte: chi decide cosa significa essere donna?

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