Lutz Pfannenstiel, il folle portiere che ha colonizzato il mondo

Lutz Pfannenstiel ha avuto una storia incredibile giocando con squadre di tutto il mondo: una carriera che gli è valsa un record molto particolare.

Ci sono carriere lineari, ordinate come un campo d’allenamento tedesco. Quella di Lutz Pfannenstiel, invece, è una mappa sgualcita, con i bordi strappati e segni di caffè sopra. Un racconto che sembra inventato, e invece è tutto vero. Nato nel 1973 a Zwiesel, una cittadina della Baviera immersa tra i boschi e la nebbia, Pfannenstiel sembrava destinato a un destino ordinario. Un ragazzo tedesco con i guanti da portiere, educato nel mito di Sepp Maier. Eppure, appena diciottenne, davanti a un bivio cruciale – il Bayern Monaco o il mondo – Lutz ha scelto il secondo.

Chi è Lutz Pfannenstiel, portiere giramondo

Quanti possono dire di aver giocato in tutte e sei le confederazioni FIFA? Nessuno, tranne il portiere tedesco. Asia, Africa, Nord America, Sud America, Oceania, Europa: Pfannenstiel ha timbrato il cartellino in ogni continente, come un viaggiatore compulsivo, ma con le ginocchia sbucciate e una borsa con dentro guanti e parastinchi. Nonostante le ottime premesse giovanili e la maglia della nazionale tedesca Under 17, la scelta è ricaduta su una carriera che gli garantisse una vita piena prima ancora di fama e soldi.

In 21 anni di carriera ha vestito la maglia di 25 squadre. In alcuni casi squadre di buon rango, come il Wimbledon FC e il Nottingham Forest in Inghilterra, il Sint-Truiden in Belgio o l’Haka in Finlandia. Ma perlopiù società di posti improbabili, spesso fuori dalla mappa calcistica globale: Bad Kötzting e Wacker Burghausen in patria, Penang FA in Malesia, Ħamrun Spartans a Malta, Sembawang Rangers e Geylang United a Singapore, Orlando Pirates in Sudafrica, TPV Tampere e PK-37 in Finlandia, Dunedin Technical e Otago United in Nuova Zelanda, Cham in Svizzera, Bradford Park Avenue in Inghilterra, Bærum, Flekkerøy e Manglerud Star in Norvegia, Calgary Mustangs in Canada, Vllaznia in Albania, Vancouver Whitecaps in MLS, Club Deportivo Hermann Aichinger in Brasile, e persino un’esperienza breve ma intensa in Namibia con la maglia dei Ramblers. Raccontando le sue avventure, Pfannenstiel dice che il calcio era solo il pretesto:

Giocare a calcio mi ha permesso di vedere il mondo. Non il mondo da cartolina, quello vero.

Non ha mai cercato gloria, stipendi milionari o una carriera ordinata. Ha sempre inseguito l’esperienza, la storia da raccontare. In un’intervista confessò di aver lasciato il Bayern perché “la Malesia suonava più esotica”. C’è una vena punk e quasi anarchica in questa scelta, un rigetto della prevedibilità, una dichiarazione d’intenti: meglio il fango di un campo dall’altra parte del globo che la prigione dorata e noiosa di una panchina tedesca. Se oggi esiste un Guinness World Record per il “primo giocatore professionista a giocare in tutte le sei federazioni continentali”, è merito suo.

Terrore a Singapore, tra carcere e ingiustizia

Se è vero che Lutz Pfannenstiel ha sempre cercato l’avventura, probabilmente anche nei suoi progetti e sogni tutt’altro che convenzionali e deliranti – e ne ha avuti molti – avrebbe mai potuto immaginare di finire in una cella di Singapore, con le pareti piene di umidità, l’aria che sapeva di muffa stagnante e le zanzare che pungevano senza dargli tregua. Siamo nel 2001 e Pfannenstiel gioca nel Geylang United, squadra di S-League, la massima divisione di Singapore. Una lega minore, certo, ma non priva di ambizioni. E nemmeno di ombre. Una mattina, con la stessa indifferenza con cui ci si allaccia gli scarpini prima dell’allenamento, Lutz viene arrestato dalla polizia. L’accusa è aver truccato una partita contro il Clementi Khalsa. Una frode da manuale, secondo gli inquirenti, orchestrata da una rete di scommettitori locali che avevano individuato nel portiere tedesco un anello debole, uno straniero spendibile.

Pfannenstiel si proclama sin da subito innocente. Ma in un sistema giudiziario iper-efficiente e poco incline alla clemenza, bastano poche prove – o anche nessuna, come in questo caso – per finire dietro le sbarre. Gli vengono concessi pochi minuti per contattare un avvocato, ancora meno per spiegarsi. Impresa ardua per uno straniero che non parla il mandarino, non conosce le regole e non sa nemmeno perché si trova lì. Il portiere rimane in prigione per 101 giorni. Non una cifra tonda, da film hollywoodiano. 101 giorni in cui il tempo si frantuma e la notte diventa un lungo silenzio, talvolta interrotto da urla. Come dirà in seguito:

Non avevo un letto, dormivo su un asse di legno. Una sera, uno dei carcerati si tagliò le vene davanti a me. La notte dopo, un altro cercò di strangolare il compagno di cella.

Quando riesce a scrivere ai genitori, dopo settimane di isolamento, è solo per dire: “Non preoccupatevi. Ma se potete, mandate un po’ di soldi. E magari un libro”. Alla fine viene assolto, le accuse si sciolgono come neve al sole. Nessuna prova concreta, è semplicemente finito in un sistema marcio, vittima di uno schema più grande di lui. Quando esce, visibilmente dimagrito, si tatua sulla spalla la scritta “Survivor”. E in un certo senso lo è davvero, un sopravvissuto. Ma se fosse semplicemente finita lì, sarebbe solo un triste capitolo in una carriera già fuori dagli schemi. Invece Pfannenstiel torna a giocare, affinché il calcio rappresenti anche il ritorno alla normalità e la sua forma personale di redenzione.

Lutz Pfannenstiel è morto tre volte

A volte, nel calcio, si usa la parola “dramma” con troppa leggerezza. Una finale persa è un dramma. Un rigore sbagliato è un dramma. Per Lutz Pfannenstiel, invece, il dramma ha avuto l’odore acre dell’erba invernale, il cielo plumbeo del nord dell’Inghilterra e una lingua che cade in gola come una pietra. Boxing Day, 26 dicembre 2002. Una di quelle giornate che in Inghilterra si passano allo stadio, con il tè caldo in mano e il fiato che si condensa in nuvole leggere. Pfannenstiel è il portiere del Bradford Park Avenue, una squadra delle serie minori che quel giorno gioca contro l’Harrogate Town. Un match che sulla carta vale poco, ma che nella vita di Lutz si trasformerà in una cicatrice indelebile.

A metà del secondo tempo, su una palla alta, il classico cross sporco che si infila tra l’area piccola e il punto di rigore, Pfannenstiel esce. Salta, come ha fatto migliaia di volte. Ma stavolta trova il ginocchio di un attaccante avversario. L’impatto è tremendo, secco. Il pubblico mormora, poi tace. Lutz cade a terra come un sacco svuotato, la testa all’indietro e gli occhi persi nel vuoto. Non respira. Il cuore si ferma. Lo fa per pochi secondi, poi riparte. Ma poi si ferma di nuovo, in tutto tre volte. Tre pause. In quel breve lasso di tempo, Lutz Pfannenstiel muore e ritorna.

Lo salvano i soccorritori a bordo campo, che praticano la respirazione bocca a bocca mentre la squadra medica lo massaggia sul petto. In tribuna c’è chi piange, l’arbitro si rifiuterà di tornare in campo. Un compagno, anni dopo, ricorderà che si era voltato per non guardare, convinto che fosse finita. Ma non era finita. Pfannenstiel viene trasportato d’urgenza in ospedale, ricoverato in terapia intensiva con fratture multiple alle costole e un trauma toracico. Rimane in osservazione per qualche giorno, con la consapevolezza – per la prima volta – che il gioco non è eterno. Eppure, appena due mesi dopo, torna in campo. “Non avevo paura – dirà poi – avevo solo più rispetto per ciò che può succedere”. In quella morte apparente, Pfannenstiel trova una verità: il calcio può toglierti tutto, anche il respiro. Ma, se glielo chiedi con abbastanza insistenza, te lo restituisce.

Un pinguino nella vasca da bagno

In un mondo in cui i calciatori postano foto motivazionali davanti a una Lamborghini, Lutz Pfannenstiel ruba pinguini. Non è un’esagerazione, è un fatto realmente accaduto. Succede in Nuova Zelanda, durante una delle sue parentesi oceaniche, quando difende i pali dell’Otago United. In una lega periferica, per la precisione nella città di Dunedin, dove il vento taglia in due e le foche prendono il sole sui moli, Pfannenstiel trova il tempo e il modo per compiere il gesto più assurdo della sua carriera.

Lutz racconta spesso quell’episodio con un sorriso obliquo, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Un giorno, con due compagni di squadra e qualche birra di troppo in circolo, decide di entrare in un acquario locale e “liberare” un pinguino. Non per protesta animalista, solo per vedere cosa sarebbe successo. Un esperimento da studenti fuori corso più che da atleti professionisti. In seguito racconterà candidamente:

Lo abbiamo portato a casa e messo nella vasca da bagno. Lo abbiamo chiamato Oswald.

Oswald passa la notte nell’appartamento di Pfannenstiel, galleggiando nell’acqua di un bagno qualunque. Ci piace immaginare che Lutz gli abbia raccontato qualche aneddoto della sua carriera, tra le partite in Sudafrica e la prigione a Singapore, che magari gli abbia fatto vedere qualche replay delle sue parate. Ma la mattina dopo, la sbornia morale arriva puntuale. Il presidente dell’Otago, un neozelandese ligio e per nulla affascinato dalla follia romantica del portiere tedesco, viene a sapere tutto. Gli fa una lavata di capo epica e pretende la restituzione immediata del pinguino. Pfannenstiel, con la stessa disarmante naturalezza con cui aveva portato Oswald a casa, torna all’acquario e lo riconsegna.

Mi guardarono come se fossi pazzo. E probabilmente avevano ragione.

Non ci fu alcuna denuncia, nessun procedimento disciplinare. Solo una leggenda metropolitana che si fece biografia. In un’intervista al Guardian, anni dopo, Pfannenstiel spiegò:

Mi piaceva l’idea di avere un pinguino come coinquilino. Era silenzioso, educato. Non russava.

Lutz Pfannenstiel oggi: direttore sportivo e non solo

Lutz Pfannenstiel è uno che ha capito che il calcio non è solo una questione di partite e allenamenti, ma una continua evoluzione. Non lo ha mai visto come un mestiere da praticare fino al pensionamento, ma come una serie di opportunità per fare esperienza, per apprendere e soprattutto per viaggiare. Dopo il ritiro dal calcio giocato, le cose non sono cambiate. Anzi, hanno preso una piega ancora più intrigante. Nonostante il suo ruolo da giramondo lo avesse reso un volto noto nel calcio internazionale (sebbene principalmente per la sua vita da nomade), Pfannenstiel ha deciso di concentrarsi sulla costruzione di un’altra carriera, meno visibile ma altrettanto affascinante: quella dirigenziale. E, come sempre, ha scelto un percorso atipico.

Dopo aver appeso i guanti al proverbiale chiodo, si è cimentato come allenatore dei portieri – anche nel corso degli ultimi anni della sua carriera da calciatore – per la nazionale cubana, il Manglerud Star, i Ramblers e la nazionale della Namibia. Quindi ha continuato a lavorare nel mondo del calcio, prima come direttore delle relazioni internazionali e responsabile scouting per l’Hoffenheim. Ma è nel 2020 che la sua carriera prende una svolta significativa, quando viene nominato direttore sportivo del St. Louis City SC, una squadra della MLS. Un salto importante, soprattutto considerando che St. Louis non è esattamente il centro del mondo calcistico. Ma per Lutz non è mai stato un problema. Se il calcio l’ha portato a Johannesburg, a Kuala Lumpur, a ridosso del circolo polare artico o a Dunedin, St. Louis non è che un altro pezzo di strada. Un’altra destinazione in un viaggio che non si ferma mai.

Ma, come era prevedibile, Pfannenstiel non si è accontentato di occupare una poltrona dirigenziale. Nel 2011 ha scritto una biografia dal titolo Unhaltbar – Meine Abenteuer als Welttorhüter (“Inarrestabile – Le mie avventure come portiere del mondo”). Una cronaca delle sue peripezie ma anche e soprattutto un racconto di come il calcio possa essere, per chi ha il coraggio di guardarlo, una metafora di vita. Una specie di diario di bordo, con l’autore come capitano, pronto a navigare le acque agitate della vita calcistica.

Non pago, ha anche fondato il Global United FC, un’organizzazione no-profit che promuove iniziative contro il cambiamento climatico. L’idea è semplice: usare il calcio come leva per sensibilizzare l’opinione pubblica su temi vitali. Il calcio rimane centrale nella vita di Pfannenstiel. Il suo ruolo di direttore sportivo a St. Louis City lo tiene a stretto contatto con il campo, anche se in una veste diversa. Non più tra i pali, ma dietro una scrivania, a progettare il futuro, senza dimenticare la sua consueta bizzarria. A cercare talenti, costruire squadre, immaginare il prossimo passo per chiunque abbia il coraggio di seguire le sue orme. Se non nel calcio, almeno nella vita.

L’annuncio social di Lutz Pfannenstiel come nuovo ds del St. Louis City

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