Il ritorno di Marat Safin: da bad boy del tennis a coach di Rublev

Marat Safin, ex bad boy del tennis mondiale, è il nuovo allenatore di Rublev.

Prima di Nick Kyrgios c’era un altro “bad boy” nel circuito ATP. Il nome Marat Safin dovrebbe rievocare dolci ricordi agli appassionati: russo, ex numero uno al mondo (ci rimase per nove settimane), vincitore di due Slam, di alcuni titoli Masters Series e di due Coppe Davis. L’ex tennista, ritiratosi nel 2009 a soli 30 anni, è da poco riapparso in una nuova veste, quella di coach del connazionale Andrey Rublev.

Non solo tennis: la carriera di Marat Safin

Nato a Mosca nel 1980, Marat Safin è stato forse uno dei tennisti di maggior talento che il circuito abbia mai visto, diventando pure il primo dai tempi di Mats Wilander nel 1983 a vincere sette trofei in una stagione prima di compiere 21 anni (in totale ha messo in bacheca 15 titoli portando a casa un montepremi complessivo di oltre 14 milioni di dollari).

Cresce con le racchette in mano: i genitori gestiscono lo Spartak Tennis Club (la mamma Marina Marenko è la prima allenatrice e anni dopo contribuirà alla formazione anche di Rublev). Inizia a giocare grazie alla famiglia ed è proprio la madre la prima a vedere in lui qualcosa, una scintilla.

Mia madre mi ha messo a giocare a tennis. Io non volevo proprio farlo. Ho sempre voluto giocare a calcio. Ma mia madre sapeva cosa fosse meglio per suo figlio.

È forse per questo che ha sempre vissuto la carriera come un obbligo (richiama molto l’emblematico “odiavo il tennis” confessato da Andre Agassi nella biografia Open). Da Mosca vola in Spagna, dove si forma e sviluppa un gioco completo, costruendo un rovescio bimane che risulterà devastante. I primi frutti arrivano, inizia a mettersi in mostra vincendo un torneo a Boston a 19 anni. Ma il suo anno d’oro è il 2000: ad aprile è numero 35 e il 20 novembre diventa il terzo più giovane numero del ranking ATP.

Fu una strana esperienza diventare numero uno. Non ero pronto e solo alcuni mesi prima non mi sarei immaginato che sarei diventato numero uno, ero in top 50 e non stavo giocando bene. Mi sottostimavo, non credevo in me stesso e mi vedevo più debole degli altri.

Sempre nel 2000 conquista il suo primo Slam, gli US Open, battendo il quattro volte campione Pete Sampras (con un netto 6-4, 6-3, 6-3) che aveva stabilito un filotto di otto finali Slam consecutive vinte. In campo l’allora ventenne moscovita sorprende: è solido in ogni fondamentale, dal servizio alla risposta. Chiude il match con 37 vincenti e soltanto 11 errori non forzati, sulle note di un inevitabile “è nata una stella”. Una stella dai contorni di una meteora, perché se la tecnica a Safin non è mai mancata, spesso è invece venuta meno la tenuta psicologica.

Ci sono stati momenti della mia carriera in cui ero costretto a guardare il tennis in tv e mi dicevo: ‘Ehi, dovresti essere lì in campo, questo match lo vinceresti senza problemi’. Poi ho affittato una macchina, ho preso una mappa e delle canne da pesca e sono andato al parco di Yosemite a cercare silenzio e trote: lì, mentre pescavo e cucinavo, ho capito che sono quel che sono: io sono nato a Mosca, dove tutto è bianco o nero, non potevo certo cambiare la mia personalità.

Il capolavoro di Marat Safin: il successo su Sampras nella finale dell’US Open 2000

L’indole di Marat Safin

Recentemente, nel documentario di Netflix dedicato a Carlos Alcaraz, si è parlato della sua inclinazione a divertirsi, con tanto di fughe a Ibiza. Nulla di nuovo e per il momento la situazione appare sotto controllo. Safin, invece, spesso si faceva sopraffare dalla sua indole, dalla voglia di non essere solo il tennista, ma uno spirito libero.

In un’epoca in cui l’assenza di social gli evita di essere tormentato, la stampa lo immortala con tante donne, che sui tabloid si guadagnano anche un soprannome, quello di Safinette. Safin è giovane e non vuole rinunciare al divertimento: quando non è in campo, è spesso nei locali. Eppure il moscovita, che dopo essersi ritirato ha invece ammesso di “andare a letto presto” e di essersi dedicato alla spiritualità, non si è mai pentito del suo stile di vita.

Sapete quante volte alla settimana mi sento ripetere: ‘Avresti dovuto vincere di più? Ma io me ne frego. Sono stato numero uno del mondo, fra i top­ 5 per cinque anni, ho vinto due Slam, due Coppe Davis. Se avessi avuto una testa diversa forse non ci sarei mai riuscito.

Tantissime anche le racchette rotte:

Ho rotto più o meno 80 racchette all’anno. Nonostante ciò sono andato sempre molto d’accordo con l’Head e hanno deciso di farmi un regalo, così mi hanno regalato uno snowboard e mi hanno svelato che ho rotto 1055 racchette da tennis nella mia carriera.

Tra una serata e l’altra comunque la classe del russo riesce sempre ad emergere. Dopo il suo anno al top, raggiunge altre due finali Slam, sempre in Australia, nel 2002 e nel 2004. Nel 2004 si inchina senza troppe colpe a Sua Maestà Roger Federer. Quella più bruciante e sulla carta sorprendente è invece la sconfitta del 2002 con Thomas Johansson, avversario decisamente alla portata. Leggenda narra che la sera prima della finale, oltre l’immancabile presenza delle Safinette, ci siano stati grossi festeggiamenti per il suo ventiduesimo compleanno.

Nel 2005 torna in finale sempre a Melbourne, battendo un 17enne Novak Djokovic al quarto turno, superando in semifinale Roger Federer e poi, in finale, Lleyton Hewitt, all’epoca tra i dominatori del circuito. È l’ultimo bagliore prima che la luce si spenga pian piano.

Tra gli aneddoti più incredibili della sua vita c’è anche la volta in cui rinunciò a scendere in campo per la semifinale di Coppa Davis. Ufficialmente per un dolore al polso, in realtà Safin voleva andare sull’Himalaya: è il 2007, sta cercando di ritrovare motivazioni e tempra dei giorni migliori. Si prende una piccola pausa del tennis ma non finisce la spedizione. Vuole scalare il monte Cho Oyu che, con i suoi 8.201 metri, è la sesta cima più alta del mondo. L’esperimento però fallisce al campo base. L’avventura sulle cime non lo aiuta, la discontinuità nei risultati ha la meglio. Gioca l’ultima partita contro Juan Martín del Potro nel torneo di Parigi Bercy.

Dopo il ritiro, come ha detto in una delle rarissime interviste concesse in questi anni, si è limitato a “vivere”. Sì è laureato in giurisprudenza ed è stato eletto, nel 2011, nella Duma di Stato per rappresentare una delle regioni russe. Confermato cinque anni dopo, si è poi dimesso nel 2017. Tra misteri e una vita lontano dal tennis e dalle luci della ribalta, ora è tornato come coach di Rublev.

Il futuro con Rublev

Andrey Rublev non sta vivendo un periodo semplice. Recentemente è stato eliminato da Aleksandr Bublik al terzo turno del Master di Madrid (di cui era campione in carica). Il kp costerà caro, tanto che, per la prima volta dal 2020, uscirà dalla top 15 del ranking ATP. La risalita non sarà facile visto che il russo, prima ancora dei problemi tecnici, deve affrontare quelli mentali. E chissà che Safin non possa aiutarlo in tal senso. L’ex giocatore è tornato a farsi vedere nel circuito dopo 15 anni di assenza. Marat ha iniziato a lavorare con il connazionale già a partire dal Master di Montecarlo. Ai canali ATP, l’ex numero 9 al mondo ha avuto parole di profonda stima per il suo nuovo tecnico.

Marat è una persona che mi ispira sin da quando ero un bambino. Mi conosce sin da quando ero piccolo. È una persona magnifica e anche lui ha vissuto momenti complicati. Lui ha avuto i suoi problemi e io ho sempre avuto paura a chiedergli qualcosa a riguardo anche se l’ho sempre desiderato. Quando ho scoperto che era pronto e che forse era intenzionato a tornare a lavorare nel tennis mi sono detto ‘Ok, devo provarci, magari non vorrà farlo con me ma devo chiederglielo’.

Non è dato sapere quanto durerà la collaborazione tra i due, con Safin che in qualche modo ha seguito le orme della sorella minore, Dinara Safina, anche lei per anni nel circuito e arrivata nel 2009 al numero uno (unico caso di due fratelli in vetta al ranking ATP e WTA), oggi coach di Diana Shnaider.

Spero resti con me a lungo, ma dipenderà se considererà un piacere lavorare con me o se invece lo vivrà come un peso. Penso che se si renderà conto che non faccio quel che mi chiede di fare o non presterò ascolto a quel che mi dice, non sarà intenzionato a sprecare il suo tempo.

Safin si aggiunge comunque al team composto dallo storico coach Fernando Vicente e dall’agente del giocatore, Galo Blanco. A dire quanto durerà la collaborazione saranno i risultati, certo. Ma forse ancora di più sarà la voglia di Safin di tornare a vivere un mondo che ha lasciato molto tempo fa e che oggi guarda con occhi nuovi.

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