Alla ricerca del cancello verde, la Mecca del judo di Pino Maddaloni

Un cicloviaggio fino alle vele di Scampia alla ricerca della palestra di judo di Pino Maddaloni.

Sono in sella al mio fedele destriero d’acciaio, carico di tutto l’essenziale per viaggiare in autonomia. Da ormai qualche tempo, uno dei significati della parola vacanza equivale alla combinazione tra bici, tenda, fornellino e nuovi orizzonti. Sto pedalando da diversi giorni in direzione di Canicattì.

L’idea è nata parlando con amici che scherzando mi suggerirono la piccola cittadina in provincia di Agrigento come meta di un ipotetico cicloviaggio, senza quasi sapere dove si trovasse. Poi, pensandoci bene, non mi sembrava un’idea affatto malvagia. Sono attratta dai luoghi remoti, lontani dalle mete turistiche perché credo abbiano le storie migliori da raccontare. E, soprattutto, non intendo la meta di un viaggio come l’arrivo della tappa finale, ma l’intero percorso che si trova tra il punto di partenza e quello in cui arriverò (che a volte non è nemmeno definito). Il Sud Italia per me era (ed è) ancora abbastanza inesplorato da renderlo una meta davvero interessante.

È così che un giorno di autunno, salutati alcuni amici, muovo le prime pedalate dalla provincia di Rieti per esplorare la parte meridionale del nostro Stivale. Un viaggio lento, in pieno stile cicloturistico, con borse colme di attrezzatura sportiva e curiosità. La traccia non è lineare e nemmeno ben definita. L’obiettivo è semplicemente farmi trasportare dalle emozioni, senza fretta e senza preconcetti. Amo viaggiare adattandomi a quello che capita, sfruttando l’inerzia delle discese e affrontando la fatica delle salite, che mi sembra sempre inutile finché non si aprono panorami incredibili che puntualmente mi fanno pensare “cavolo, se ne è valsa la pena!”.

Un altro ingrediente essenziale per le mie avventure è sempre l’incontro con le persone. Chiacchierare, domandare e ascoltare. Fermarsi e impiegare del tempo con qualche viso mai visto prima è una parte fondamentale del viaggio. Se il contachilometri a fine giornata mi rinfaccia che il tempo in movimento è inferiore al tempo totale (spoiler: quasi sempre finisce così), significa che è stata una giornata da non dimenticare.

Poi ci sono i luoghi. Se la natura non ha bisogno di tante descrizioni per risultare magnifica, gli scenari cittadini, specie quelli in periferia, possono sembrare asettici e quasi respingenti se visti dalla sella di una bicicletta pesante, ingombrante e vulnerabile. Eppure, a volte capita che tra i punti da non perdere lungo il percorso compaiano anche loro: le zone ai margini della società. Questo viaggio ne contiene una in particolare che stava lì nel cassetto dei sogni in attesa dell’occasione giusta per essere trasferita sulla mappa di un itinerario. Quel momento è arrivato ed è giunta l’ora anche di darle un volto in carne e ossa, o meglio in cemento e asfalto.

Così, dopo diversi giorni di pedalate, mi ritrovo a percorrere le stesse vie per qualche decina di minuti. I palazzi scorrono lenti sotto i miei occhi vigili, ma non riesco a trovare quel cancello verde che ho idealizzato ormai da diversi anni. Non siamo solo Gomorra”. “Le vele non sono uno zoo”. Sono solo alcune delle scritte che campeggiano sugli edifici più famosi di Scampia. Sono imponenti, proprio come li immaginavo, ricchi di graffiti colorati illuminati dal sole e addobbati da vestiti profumati di ammorbidente che oscillano al vento fresco di ottobre.

Il loro fascino è intrinseco: una realtà sociale tanto chiacchierata quanto misteriosa. Mi piacerebbe approfondire, interagire con le rare persone che camminano solitarie, ma decido di rispettare gli imperativi che continuo a leggere. “No al turismo dell’orrore”. Ecco la conferma: la mia curiosità non sarebbe gradita.

Il flusso dei miei pensieri mi ricorda che non sono qui solo per il mio interesse innato verso i quartieri più veraci delle città. Il 18 settembre del 2000 sul tatami del Sydney Convention and Exhibition Centre si presentano due giovanissimi. Il brasiliano Thiago Camilo avvolto dal judogi blu e Pino Maddaloni sul cui judogi bianco campeggia fiero il tricolore. È la finale olimpica, gli occhi degli atleti sono concentrati e i loro movimenti carichi di energia. Un passo dopo l’altro, i due atleti si ritrovano faccia a faccia, con i piedi nudi. Entrambi cercano di scaricare la tensione e caricarsi con il classico colpo netto per sistemare la giacca tesa dentro la cintura chiusa in un nodo che hanno imparato a intrecciare da bambini. Un breve inchino e arriva l’hajime dell’arbitro.

La finale olimpica, categoria 73 kg, è cominciata. Il cronometro scorre, i 5 minuti di combattimento cominciano a diminuire. Con alcuni piccoli saltelli Camilo e Maddaloni si avvicinano per andare alla ricerca della presa sul judogi avversario. Presa, finta, squilibrio, proiezione. Mate. Hajime. I due corpi si attorcigliano in posizioni apparentemente insensate. Il judo è una lingua complicata, ha il suo codice e i suoi valori. Se letta con un punto di vista consapevole sembra proprio una metafora capace di insegnare a comportarsi anche fuori dal tatami.

Di nuovo saltelli, presa, squilibrio, proiezione. Mate. Koka ai danni di Camilo. Maddaloni mette da parte un piccolo vantaggio. Hajime.
Oltre alle regole da rispettare, il principio cardine del judo sta nella sua traduzione: via della cedevolezza. Per vincere una forza non serve contrastarla con potenza maggiore. Non serve opporvisi in modo diretto. Occorre sfruttarla e incanalarla secondo il proprio scopo.
Ancora saltelli, prese, squilibri, proiezioni. I piedi volano in alto, le giacche sono ormai scomposte e il fiato corto. Sono passati 3 minuti e 14 secondi dall’inizio. L’arbitro ferma nuovamente il combattimento. Mate.

I due judoka sono di nuovo uno davanti all’altro. Saltelli, prese, squilibri. Camilo entra forte in uchi mata, è il suo speciale. I piedi incrociano, la mano avvolta nel bavero con il polso teso e la schiena a cercare il corpo dell’avversario. Maddaloni lo sa, lo stava aspettando e non si fa trovare. Uchi mata sukashi è la risposta. Quando Camilo alza la gamba per la proiezione, non trova il corpo di Maddaloni che schiva e incanala quella forza nella controtecnica. Gli “basta” spostare il piede e seguire la rotazione del corpo del suo avversario con le braccia. Camilo si ritrova con la schiena a terra.

Eccolo, è ippon! Pino Maddaloni è medaglia d’oro! 

Il telecronista annuncia così che la più prestigiosa delle medaglie olimpiche torna in Italia, dopo venti anni dall’ultima. Avevo cinque anni, non mi ricordo di aver visto il combattimento in diretta e la memoria non mi aiuta nemmeno a dire quante volte l’ho visto negli anni successivi, fino a oggi. Tra i miei ricordi nitidi, però, ci sono le ore passate sul tatami a giocare con gli altri bambini, a cadere, arrotolarci e abbracciarci finché non siamo cresciuti e abbiamo continuato a dare un valore speciale a quel contatto fisico così particolare.

Anche Pino Maddaloni è salito sul tatami a tre anni, sotto la guida di suo papà Gianni e al cospetto delle vele di Scampia. Qui lo sport è una scialuppa di salvataggio capace di trasformarsi in nave da crociera. Occorre “solamente” saper sfruttare quella forza per incanalarla secondo il proprio scopo. Mi immagino il fragore dei palmi che picchiano sul tatami, le mani che sfregano su quel cotone rigido alla ricerca delle prese e quanti ragazzi hanno varcato la soglia di quel cancello verde con borsoni pieni di attrezzatura sportiva e curiosità, proprio come le mie borse da bici. Spinta dall’entusiasmo continuo a circumnavigare imperterrita attorno al simbolo di uno dei quartieri più famosi di Napoli.

“Scusi, per favore, dov’è la palestra dei Maddaloni?”. Il ragazzo del food truck guarda stranito me e la bici. Questo pellegrinaggio si sta rivelando una ricerca del Sacro Graal. Accompagnando i gesti al dialetto stretto che fatico a comprendere, il braccio teso sopra gli hamburger mi indica di andare proprio dietro alle vele. “Allora è tutto vero, sono nel posto giusto!”, penso.

La bicicletta pesante sembra essersi trasformata nel tappeto di Aladino. Con l’entusiasmo alle stelle giro la bici che sembra essere improvvisamente più leggera. Percorro il vialone trafficato, mi tuffo in una stradina stretta, svolto a destra e davanti a me appare quel leggendario cancello verde. La bandiera olimpica si muove allo stesso ritmo dei vestiti stesi, le foto dei judoka attraggono i miei occhi come calamite. Innumerevoli volte ho letto, visto e immaginato la storia del clan Maddaloni, l’oro di Scampia di Pino e la cintura bianco-rossa di Gianni, ‘O Maè.

Fin da bambina, indossando il judogi mi sono sentita protetta da un’armatura morbida, capace di insegnare valori che ancora non ho trovato altrove. Timidamente provo a spingere la maniglia. È chiusa, è ora di pranzo e non c’è nessuno. I corsi cominciano nel pomeriggio. Non posso aspettare, non sarei tranquilla a trascorrere la notte in tenda qui. Salto di nuovo in sella alla bici per riprendere la rotta verso sud di questo viaggio che mi ha portata a toccare con mano i miei sogni.

Guardando allontanarsi il cancello verde penso che forse è giusto così. È bello credere che la favola della Star Judo Club di Scampia rimanga cullata nel fascino del mistero, tra realtà e leggenda. Come quelle vele che le fanno ombra permettendole, però, di sfruttare il vento per navigare verso orizzonti lontani.

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