Scriveva Pedro Salinas, in una poesia dal titolo No, non lasciate chiuse: “mettete alti segnali, / astri, meraviglie; / che si veda chiaramente / che è qui”. Raccontava, con dei versi ben più lunghi di questa manciata, della pratica allo stesso tempo difficile e paziente, emozionante e sfinente dell’attesa, che tutti in realtà conosciamo bene, sia che riguardi l’attesa di una persona amata, un viaggio, un esame, un trasloco, una visita. O che sia, infine, anche il Tour de France. Le città del Tour, in effetti, sembrano prendere alla lettera le parole di Salinas – pazienza se lui non approverebbe l’uso che se ne fa: hanno già provveduto a mettere alti segnali, a preparare meraviglie per il passaggio dei corridori, non potendo, purtroppo, scomodare astri e stelle a scopo decorativo.
Le città del Tour de France si tingono di giallo: la maggior parte a quest’ora saranno già ricoperte di striscioni, festoni, chiazze gialle o a pois, senza differenze tra Lille, luogo della Grand Départ di quest’anno in cui i corridori transiteranno già il 5 luglio, e quelle che verranno attraversate verso la fine, prima dell’iconico arrivo di Parigi, domenica 27 luglio.
Il Tour, in Francia, è una cosa seria e le località che preparano e tengono aperte le porte continueranno a raccontare per sempre del gruppo di corridori, di una maglia gialla che brillava di più di tutte le altre: e non solo a livello simbolico, ‘ché basta attraversarle per accorgersi che se una città ha ospitato la corsa i segni si trovano ancora, anche dopo parecchi anni. Un cartello che dice “il Tour è passato di qui”, una grande bicicletta gialla in bilico su una collina, qualcuna ha inciso per sempre la scritta “Cité du Tour” all’ingresso in città.
Il 5 luglio, quindi, è sempre più vicino. E a giugno, per chi segue il ciclismo, non c’è soltanto l’inizio dell’estate, ma anche le ultime gare a tappe, soprattutto Delfinato e Tour de Suisse. Dove capita, come quest’anno, di poter guardare i futuri protagonisti della Grande Boucle iniziare a prendere le misure con se stessi e con gli avversari. Tornare a casa con più certezze o con qualche pensiero intrusivo, rifinire con le ultime uscite e gli allenamenti le fondamenta su cui poggeranno le tre settimane più sfiancanti ed emozionanti di questo sport.
L’avvicinamento al Tour del France, dal Giro al Delfinato
Il tempo scorre, sembrano passati mesi dalla fine del Giro d’Italia, ma la verità è che non ne è ancora passato neppure uno dalla grandiosa vittoria di Simon Yates e dalla forse ancora più clamorosa sconfitta della UAE Team Emirates XRG, vuoi per l’inesperienza del suo giovanissimo talento Isaac Del Toro, vuoi per qualche strano calcolo fatto in ammiraglia dai direttori sportivi, che stanno probabilmente vivendo ancora un incubo a distanza. Il primo dato in uscita dal Giro e in preparazione al Tour de France, è proprio questo: la Visma-Lease a Bike è avanti di un punto, nell’eterna rivalità contro la formazione emiratina. Ma non è finita finché non è finita e quindi, per rubare metafore ad altri sport, è di nuovo palla al centro: le formazioni cambiano, ma la sfida continua.
Il Giro, a onor del vero, iniziava con due grandi favoriti, Juan Ayuso e Primož Roglič. Nessuno dei quali è riuscito a concluderlo, tra cadute, crisi, punture di calabroni, compagni all’attacco nelle proprie giornate no, leadership condivise più o meno forzatamente e generali scivolamenti indietro in classifica. E se il loro ritiro ha sicuramente scontentato chi sperava di vedere un paio di big darsi battaglia sulle strade della penisola, è anche vero che il Giro è stato stranamente e meravigliosamente aperto proprio fino alla fine, con continui colpi di scena e stravolgimenti di classifica che hanno raccontato una storia diversa dalla scorsa edizione, dominata di forza, gambe, cuore, cervello, e ogni altro organo del corpo umano da Tadej Pogačar.
Tadej Pogačar che, nel frattempo, ha vinto proprio il Delfinato, tradizionalmente il fratello minore del Tour de France e quest’anno sede del primo scontro diretto tra i due soliti favoriti della Grande Boucle, vale a dire il campione del mondo e, naturalmente, Jonas Vingegaard. Pogačar ha perso a cronometro: non solo dal terzo incomodo, Remco Evenepoel, ma anche da Vingegaard – e non di poco – al quale tuttavia ha restituito ogni secondo perso contro il tempo nel suo habitat naturale, cioè le tappe di montagna con gli arrivi all’insù. Con buona pace di chi vorrebbe battaglia su ogni centimetro di strada, Pogačar non ha solo vinto in montagna, per l’esattezza: ha attaccato restando seduto e staccato Vingegaard in poco più di una ventina di metri, ha rallentato solo per assaporare il traguardo e non sprecare troppe energie.
Un giorno ha anche scherzato, all’intervista dopo la vittoria, sul desiderio di arrivare presto al traguardo per poter guardare il finale di tappa del Tour de Suisse femminile, dove correva la sua compagna, Urška Žigart (dati alla mano, crediamo che ce l’abbia fatta). Tadej Pogačar è straripante e straordinario, al netto delle antipatie e del dibattito sul suo dominio: non bastano le parole per raccontare del suo ciclismo, non basterebbe il vocabolario per restituire l’idea della storia che sta contribuendo a costruire. Per ora ci accontentiamo di farne parte, che non è poi poca cosa.
Jonas Vingegaard, di contro, non ha dimostrato grandi cedimenti di nervi e, anzi, ha dichiarato più volte nei giorni scorsi di essere pronto per la corsa che, come ha ricordato, è un’altra storia rispetto al Delfinato. Le salite lunghe, faticose, pesanti, avvolte nell’aria pesante e caldissima di metà luglio: quelle saranno il suo campo da gioco, il territorio in cui intende – o spera, forse – stanare Tadej Pogačar. Ha ripetuto, con serenità, che è perfettamente normale non essere pronti al 100% a tre settimane dal Tour de France, le tre settimane che separano la fine del Delfinato dall’inizio della Grande Boucle: e che, anzi, è notoriamente pericoloso arrivare in forma troppo presto.
Si sa, l’avvicinamento al Tour de France significa anche sferrarsi colpi psicologici a vicenda, fare con leggerezza continui accenni ai punti deboli dell’avversario e magari sottolineare la propria superiorità: a cronometro, in salita, nella testa, nella squadra. Jonas Vingegaard non ha esattamente un temperamento bellicoso, o, almeno, così sembra a chi lo guarda: di sicuro, però, non ha intenzione di lasciare che Pogačar faccia il suo solito show. Che ci riesca, naturalmente, sarà tutto da vedere.
La volata al termine della prima tappa del Delfinato, con il trionfo di Pogačar
Le possibili sorprese dietro il duo Pogačar-Vingegaard
L’avvicinamento al Tour de France ha poi raccontato anche altre storie, oltre a confermare la consueta rivalità tra il danese e lo sloveno. La prima, forse la più interessante, riguarda Remco Evenepoel, che tra le montagne francesi non ha potuto contare sulla sua forma migliore, scivolando addirittura giù dal terzo gradino del podio, conquistato con brillantezza da Florian Lipowitz (al punto da far dubitare qualcuno della leadership di Roglič nell’imminente corsa). Remco, forse, non è ancora al livello degli altri due giganti, forse non lo sarà mai: importa? In termini di vittoria, certo; in termini di classifica generale, non poi così tanto, soprattutto a fronte del fatto che, ad oggi, sembra già un ottimo risultato arrivare alle spalle di Pogačar in più o meno qualsiasi gara. In termini di carattere, di testa, di lucidità e di convinzione può pesare, però, e può contare eccome.
Così, mentre le città del Tour de France si riempiono di segnali, avvisi, simboli e promemoria di quello che sta per succedere, ci immaginiamo che Remco stia cercando, da qualche parte dentro di sé, quello che serve per partire. Solo la strada, come sempre, saprà raccontare il resto.
Tra i tre litiganti, chissà che non la spunti qualcun altro, magari Lipowitz, Matteo Jorgenson o João Almeida, fresco vincitore del Tour de Suisse, corso a meraviglia nonostante un inizio burrascoso. Al Tour, si sa, c’è posto per i miracoli e per gli stravolgimenti: con un paio di tappe a cronometro, il Mont Ventoux a guidare il numero significativo di frazioni in montagna, insidie in ogni tappa vallonata e pericoli in ogni arrivo in volata, può davvero cambiare tutto in pochi metri, in pochi secondi. Lo sa Primoz Roglič che, dopo quel 2020 in cui ha perso la maglia gialla nella penultima tappa, a pochissimi centimetri dalla realizzazione del sogno, non è più riuscito a tornare così vicino, tra cadute e una sfortuna che sembra non mollarlo mai.
Vederlo trionfare sarebbe una bella storia, come quella di Simon Yates a questo Giro: sette anni dopo la sconfitta, cocente, sul Colle delle Finestre, il britannico si è costruito una vittoria poetica e commovente, proprio sulle stesse pendenze, proprio con le sue gambe (e con un po’ di aiuto di Wout van Aert, uno che di miracoli ne sa qualcosa). È il bello e il brutto di un grande giro: la storia può cambiare finale in ogni momento, basta voltare la pagina per trovare un capitolo completamente diverso dal precedente.
Il Tour de France è fatto di questo e di molto altro, perché non è soltanto questione di uomini di classifica. È sfida tra le ruote veloci, quest’anno al via quasi al completo e, per la prima volta, anche con Jonathan Milan che parte da Lille con il sogno di indossare già la prima maglia gialla e poi, perché no, quella verde dei punti. La Grande Boucle è sfida tra scalatori, per vincere l’agognata – e amatissima dal pubblico – maglia a pois, con in testa tra i pretendenti Richard Carapaz, re delle montagne nel 2024 e protagonista all’ultimo Giro d’Italia, dove è arrivato vicinissimo alla vittoria, attaccando in ogni momento, buttando sempre il cuore oltre l’ostacolo.
Ma è anche attacchi, contrattacchi, volate e scalate, è lotte contro il tempo. Dove, certo, Evenepoel è grande favorito, ma troverà un avversario convinto e fiducioso in Filippo Ganna. Il Tour riguarda gli uomini di classifica, ma anche i velocisti, i battistrada che aprono la via, ma anche i gregari che sono pronti a consumare ogni fibra del corpo per fare il lavoro che è richiesto, sia questo fare il ritmo sulle salite o far parte del trenino nelle volate.
Insomma, il Tour de France è alle porte, puntuale come ogni anno. Chi ama questo sport lo aspetta dal giorno dopo la fine dell’edizione precedente, più o meno, con le emozioni stampate a fresco nella memoria e nel cuore. Sia chi resta a casa, sia chi va sulle strade a guardare il passaggio e la fatica, la maglia gialla e tutto il contorno di meraviglia. A pensarci bene, le porte dell’attesa restano aperte per tutto l’anno, come forse Pedro Salinas consiglierebbe di fare. Ma quando si fa fine giugno, le giornate paradossalmente ricominciano ad accorciarsi (sebbene lentamente, sebbene impercettibilmente), il caldo diventa torrido, le città si dipingono di giallo e l’attesa è agli sgoccioli e scorre fino all’inizio della corsa.
Il Tour de France ritorna, puntuale, ogni anno: preceduto da schermaglie e primi scontri, prende il testimone dei grandi giri – momenti quasi sacri del ciclismo – dalle mani del Giro d’Italia e ricomincia, prima lentamente e poi sempre più veloce, a raccontare la sua storia, là da dove l’aveva lasciata. La magia della Grande Boucle, la sua quintessenza, quello che fa sì che la gente esca di casa, lo insegua, lo guardi incollato alla televisione, lo cerchi in camper, in van, in macchina e in bicicletta. Ciò che fa preparare meraviglie e aprire porte. Che, se si potesse, farebbe anche prendere in prestito astri, stelle, forse perfino l’intero firmamento. L’atmosfera in fin dei conti è sempre la stessa: i corridori che si preparano, che salgono sui pedali. Una voce, sempre la stessa, che urla, per la prima volta: “c’est parti!”. Sono partiti.