Un triumvirato italiano per la Roma dei Friedkin

Ranieri, Massara e Gasperini sono il simbolo del nuovo corso della Roma dei Friedkin, basterà per fare il tanto agognato salto di qualità?

Quattordici anni fa la Roma veniva acquistata da una proprietà americana. Era l’estate del 2011 e un consorzio di imprenditori d’oltreoceano, all’epoca capeggiato da Thomas DiBenedetto, sbarcava nella città eterna sollevando curiosità e aspettative. Dopo nove anni di gestione tribolata, rimasta nella memoria per le lotte con l’amministrazione capitolina per la costruzione del nuovo stadio, le frizioni con la tifoseria e diversi buoni piazzamenti in campionato, il presidente James Pallotta passò il testimone alla famiglia (o, meglio dire, al Gruppo) Friedkin. Dopo anni di scelte errate e un po’ naïf, per la prima volta la Roma dei Friedkin sembra essere in mani salde e competenti.

La Roma, uno status symbol mal sfruttato

Roma, nell’immaginario collettivo americano, è sempre stata circondata da un’aura magica, soprattutto per la fascinazione che dall’altra parte dell’oceano la città ha saputo esercitare per via della sua bellezza e della sua storia antica, emblema di conoscenza e di potere. Non è un caso che nello stemma degli Stati Uniti campeggi un’aquila, simbolo mutuato dall’impero romano, né che l’architettura di Washington DC sia stata ispirata anche da quella dell’antica Roma. Essendo la capitale d’Italia, poi, Roma va inserita in quel contesto di riferimenti che tipicamente il nostro Paese porta con sé: dal (presunto) stile di vita rilassato al buon cibo. Insomma acquistare il club giallorosso, oltre che strumento di sviluppo per il proprio business, è anche un vezzo, un fiore all’occhiello che imprenditori con patrimoni floridi possono appuntarsi sul petto.

Dal punto di vista dei risultati sportivi, in questi quattordici anni la Roma “a stelle e strisce” non è riuscita a essere all’altezza delle aspettative che le sue facoltose proprietà lasciavano immaginare. L’era Sensi, pur caratterizzata nel periodo precedente la cessione da notevoli ristrettezze economiche, era riuscita a mantenere molto competitiva la squadra, sfiorando l’impresa di strappare lo scudetto nel 2010 all’Inter del triplete. Logico, con più soldi da investire, attendersi qualche successo in più. In realtà, la Roma a stelle e strisce è riuscita a salire sul podio della serie A solo nel quinquennio 2014-2018, quando ha ottenuto tre volte il secondo posto (2013-14, 2014-15 e 2016-17) e due volte il terzo (2015-16 e 2017-18). Poco rilevanti, invece, i percorsi in Coppa Italia. È andata meglio nelle coppe europee con la semifinale di Champions League raggiunta nella stagione 2017-18 grazie a un’incredibile rimonta effettuata nei quarti contro il Barcellona di Messi, la vittoria della Conference League nel 2022 e la finale di Europa League persa ai rigori nel 2023.

Cosa non ha funzionato in questo lungo periodo? Perché gli ultimi successi nazionali (scudetto nel 2001 e Coppa Italia nel 2008) sono diventati ricordi sempre più offuscati dal tempo e ottenuti da chi non aveva le disponibilità di Pallotta prima e dei Friedkin adesso? Non è semplice effettuare un’analisi che prenda in considerazione tutti gli elementi e che possa rispondere a queste domande. Sicuramente non è stata la mancanza di denaro a frenare i traguardi della Roma. Le due gestioni statunitensi hanno immesso tantissimi soldi nella società: per acquistarla, sanarne i debiti, migliorarne le infrastrutture e acquistare giocatori e allenatori.

Gli errori di mercato della Roma dei Friedkin

L’ultima voce di costo, evidentemente, è quella che ha reso meno in termini di ritorno sull’investimento, perché le cifre spese sono state davvero ingenti. Basti pensare agli acquisti di Patrick Schick nel 2018 e Tammy Abraham nel 2021, pagati entrambi oltre 40 milioni di Euro. O a Steven Nzonzi e Javier Pastore, costati complessivamente 50 milioni nell’estate del 2018. Per non parlare di Marash Kumbulla (26,5 milioni) e Eldor Shomurodov (19,6 milioni), presi rispettivamente nelle estati 2020 e 2021. Giocatori destinati a scivolare via dalla memoria collettiva romanista. I risultati insoddisfacenti dei giallorossi, più che per i budget disponibili, vanno addebitati a una resa delle risorse economiche utilizzate sul mercato assolutamente deficitaria.

Risorse che sono state gestite, dal 2017 ad oggi, da direttori sportivi che per diversi motivi non si sono dimostrati all’altezza dell’incarico conferitogli. A partire dal señor Monchi, arrivato nella Capitale per replicare i fasti della lunga esperienza con il Siviglia e incappato, nei due soli anni di attività a Trigoria, nel peggior periodo della sua carriera. Oltre ai già citati Nzonzi e Pastore, a lui vanno ricondotti anche gli scellerati acquisti di Olsen, Ćorić, Bianda e Marcano. Un fiume di denaro uscito dalle casse della società che non solo non ha dato sul campo gli esiti sperati ma ha costretto la Roma, negli anni successivi, a fare slalom molto complicati tra i paletti del fair play finanziario. Anche i suoi successori – dall’esperienza spezzata di Petrachi all’inesperto Ghisolfi, passando per Tiago Pinto – hanno mostrato limiti, rivelandosi inadatti alla gestione di una società ambiziosa ai massimi livelli.

Le valutazioni sull’area tecnica non possono lasciare da parte le considerazioni sugli allenatori che hanno guidato la squadra. Con le eccezioni legate a Spalletti (che ha tenuto i giallorossi sul podio del campionato nel 2015-16 e 2016-17), Mourinho (che ha raggiunto due finali europee) e Ranieri, i tecnici che si sono succeduti in panchina non avevano il profilo adeguato per competere ai massimi livelli, soprattutto in una città complicata, nella quale l’attenzione mediatica è sempre altissima e gli umori forti e instabili della tifoseria possono costituire un problema difficile da gestire.

Una rassegna sui peggiori colpi del biennio Monchi

Finalmente in buone mani?

La società che si appresta ad affrontare la stagione 2025-26 sembra aver fatto tesoro delle esperienze pregresse. Reduce da un campionato nato male, che solo la maestria di Claudio Ranieri ha saputo convertire in una stagione che, dopo sette anni, avrebbe potuto riportare la Roma in Champions League, il club si presenta ai nastri di partenza con uno staff manageriale finalmente competente nel comprendere le dinamiche di campo. Frederic Massara rappresenta oggi il profilo ideale, in quanto ex calciatore, esperto di dati e soprattutto profondo conoscitore del mercato. Dopo l’apprendistato con Walter Sabatini e lo scudetto come ds del Milan, si presenta con una credibilità che Roma non vedeva da tempo in quel ruolo. Gian Piero Gasperini, se non entrerà in rotta di collisione con l’effervescenza dell’ambiente romano, ha tutte le qualità per sviluppare un progetto tecnico che ha come obiettivo il ritorno in Champions League e la lotta per i primissimi posti della classifica attraverso il bel gioco e la valorizzazione dei giovani.

Ma sarà ancora Claudio Ranieri, con il credito acquisito grazie all’ottima conduzione della squadra nella scorsa stagione e a una carriera di successo, la figura chiave della prossima Roma. Toccherà a lui garantire i sottili equilibri, difficili da creare e mantenere, che potranno spingere in alto la squadra, nonché a tradurre e interpretare in favore del tecnico di Grugliasco e della proprietà il linguaggio talvolta schizofrenico della piazza, oltre a suggerire le modalità per indirizzarne gli entusiasmi. Sarà lui a costituire il baricentro di una società che in passato è inciampata sulle proprie disarticolazioni, facendosi travolgere poi dalle pressioni esterne. Un vizio capitale, in buona parte dovuto, almeno per quanto riguarda gli ultimi cinque anni, alla poca importanza che la proprietà a stelle e strisce ha dato alla conoscenza delle dinamiche del calcio italiano. Visto anche il ruolo formale di senior advisor assegnatogli dai Friedkin, sarà proprio l’ex allenatore di Testaccio il primus inter pares di un triumvirato che, con il bagaglio tecnico acquisito, ha tutte le prerogative necessarie a portare la Roma a riveder le stelle.

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