Marco Pantani nacque a Cesena il 13 gennaio 1970: 55 anni, più di mezzo secolo fa. È passata una vita. Il tempo scorre velocemente, lasciandoci l’amaro in bocca e il ricordo di chi abbiamo incrociato anche solo per un attimo in strada, tra una salita e una discesa. È stato uno tra i più grandi scalatori di tutti i tempi. Il 1998 fu l’anno della consacrazione: Giro d’Italia e Tour de France. Un doppio trionfo che lo rese un mito immortale, entrato dalla porta principale nella storia del ciclismo accanto a Coppi, Bartali e Gimondi.
La generazione Xennial che ha conosciuto il ciclismo
La mia generazione ha vissuto Marco Pantani sulla propria pelle, quella cresciuta tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, fatta di ragazzi nati prima dell’esplosione della tecnologia digitale. Nella mia regione, la Puglia, il ciclismo non era uno sport praticato dalla generazione Xennial. Andava per la maggiore il calcio nel mito di Baggio, Pallone d’Oro del 1993 e trascinatore azzurro a USA ‘94.
In sella alla bici c’era Marco a pedalare dal 1992 al 2003, un’entità spirituale fatta di pura energia. Quella forza mistica è stata recepita da milioni di persone nel mondo. Amato e venerato dal popolo delle due ruote, il ciclista romagnolo non riconduceva fisicamente all’immagine stereotipata del classico atleta, l’uomo perfetto da copertina, tutto muscoli e testosterone. Pantani aveva un fisico normale, scolpito dalla fatica. Era il classico antidivo dal viso con i lineamenti marcati, un homo sapiens sulle due ruote. Orecchie a sventola, orecchino da tamarro e una calvizie in uno stato avanzato. Una testa liscia come una palla di biliardo e una bandana gialla; la sua corona invincibile. Per fortuna, i corpi sono tutti uguali al buio, quando finalmente le tenebre della notte mettono fine alla luce e ai demoni diurni.
E al contrario milioni di creature spirituali si muovono, non viste, sulla terra, quando siamo svegli come quando dormiamo.
Marco Pantani è stato un uomo solo
Sulla sua bici, Marco era un uomo solo al comando. Nella vita di tutti i giorni, semplicemente, un uomo normale come tanti altri. Un amore tormentato con Christina Jonsson, la dama bionda. I due si erano conosciuti in una discoteca di Cesenatico. Due anime fragili, con il mal di vivere in comodato d’uso. “Io e Pantani ci drogavamo insieme. Marco consumava cocaina in quantità industriale”, sono state le parole nude e crude di Christina, rilasciate subito dopo la morte del ciclista. Una storia tossica e maledetta dove solo la donna si salverà dalle fiamme dell’inferno.
La regia della famiglia durante la vita del campione romagnolo, l’infamia terribile del doping: nel 1999 Pantani fu cacciato dal Giro d’Italia, a Madonna di Campiglio, per un ematocrito superiore di appena l’1% al limite consentito. La droga per uscire dal tunnel della depressione in cui era piombato.
Vieni, uniamo le mani, e calpestiamo il suolo in un leggero fantastico volo.
Marco lo sapeva: da un volo fantastico si precipita senza rete. Marco bruciava velocemente come una rockstar famosa. Forse era il suo destino crudele. Del resto, chi vuole vivere per sempre da umile impiegato? C’era il ciclismo nella vita del forte corridore romagnolo, la sua passione più grande: dieci anni di carriera sulle gambe, migliaia di chilometri percorsi in sella al suo fedele destriero. Un carattere spigoloso quello di Marco, una personalità con tante sfumature. Un’anima ribelle in cerca di un’isola perduta da conquistare, diventata un’illusione troppo più grande di lui. Ma anche l’amore sconfinato per il ciclismo e una determinazione fuori dal comune in salita, il suo rifugio naturale. Maniacale la sua preparazione fisica e psicologica prima di una gara importante. Mentalmente partiva sempre da sfavorito, ma era il suo modo per affrontare la tempesta.
L’esistenza di Marco Pantani è un puzzle da ricomporre con pazienza: un frammento alla volta, un’immagine dopo l’altra, incastrate per dare un senso alla vita, che un senso non ce l’ha. Alla fine sono solo i fatti a contare per il forte ciclista romagnolo. 46 vittorie in carriera, quelle non gliele toglierà nessuno.
La durezza del ciclismo
Il ciclismo è uno sport per chi non ha paura del dolore, una filosofia di vita. A differenza di tanti altri sport, premia la fatica. Sui pedali di una bicicletta esisti per davvero. Sei vivo e respiri, vivi istinti primordiali, quelli più essenziali. Il ciclismo è una forma di estasi fisica, fatta di automatismi inconsci. In questo sport non c’è la teoria, solo il sudore. Il ciclismo è prevalentemente uno sport istintivo. Per Marco Pantani questo sport era fatica. Nessuno ti regala niente durante una gara, soprattutto in salita. Sei da solo con te stesso, a combattere i tuoi demoni. La montagna non è fatta per i velocisti, quelli dalle gambe molli. La vetta non è il posto per chi vuole vincere facile. Ci vuole calma e sangue freddo, si raggiunge con pazienza e determinazione. “Zitto, pedala e stacca”, questo è il mantra dello scalatore. L’obiettivo è quello di superare i propri limiti. Pedala e non guardarti indietro, perché non c’è nessuno ad aspettarti. Lo scalatore non ha amici, soprattutto nel momento del bisogno. Come diceva proprio il Pirata, “vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia”.
Marco esisteva grazie al ciclismo e noi esistevamo grazie alle sue imprese. Eravamo insieme a lui a fare fatica sui pedali di una bicicletta, grondanti di sudore sotto il sole cocente, in una strada curva e stretta alle pendici di una grande montagna; nel posto più vicino a Dio nel tentativo – invano, ma umano – di capire Dio. Sui pedali della sua fedelissima Bianchi diventava qualcosa di impalpabile, una proiezione del dolore che sfida la gravità.
“Scatto di Pantani” era il grido di battaglia per una generazione di tifosi del Pirata, accecati da quell’energia bestiale. Marco aveva fatto il miracolo e acceso i nostri cuori. Aveva riportato il ciclismo nelle case degli italiani: in strada, la gente scendeva chiassosa e festosa al passaggio dei propri beniamini. In sottofondo c’erano le voci calde di Adriano De Zan e Davide Cassani. L’emozione correva veloce sulle nostre pelli bianche e lisce che si preparavano al sole caldo dell’estate. Eravamo tutti a pedalare con Marco. La nostra era una squadra affiatata e vincente; prima con la Carrera Jeans (1992-1996) e dopo con la Mercatone Uno (1997-2003).
L’impresa dell’Alpe d’Huez: al Tour de France 1994 è nata una stella
Forse la tappa più bella del Pirata. Attacco di Pantani, Indurain non lo segue, Virenque ci prova ma fallisce come un topo intrappolato in una ruota. Marco è lanciato verso la conquista dell’Alpe D’Huez, che si stendeva davanti a lui: quasi quattordici chilometri, oltre mille metri di dislivello con una pendenza dell’8%. Un muro per molti, un destino per lui: ci mette 38 minuti per arrivare sulla vetta, un nuovo record. Il popolo delle due ruote torna a gioire in quelle stradine di montagna. I divani degli italiani si riversano sui bordi delle stradine dell’Alpe D’Huez. Eravamo finalmente liberi di transumare come i bovini al pascolo.
Alla fine sarà Roberto Conti a vincere quella tappa, grazie a una fuga di oltre 200 chilometri. Un’impresa sensazionale quella del ciclista ravennate, che però passa in secondo piano: gli onori della cronaca vanno a Marco Pantani. È nata una nuova stella luminosa nel firmamento del ciclismo mondiale. L’impero di Indurain è pronto a capitolare sotto l’impeto del Pirata romagnolo.
L’impresa sull’Alpe d’Huez del 1994, che ha fatto innamorare l’Italia del Pirata
Il tragico finale
Marco è tornato a casa ed ha passato giorni interi a piangere, a disperarsi. E non poteva uscire. La casa era circondata da 150-200 giornalisti. Marco si è sentito tradito, abbandonato. Pensava che la sua squalifica fosse premeditata. Poi, dopo quattro giorni di silenzi, ha ricominciato a uscire la sera. E dopo una decina di giorni mi ha detto di aver iniziato a prendere della cocaina.
Queste le parole di Christina Jonsson. Il 14 febbraio 2004, a soli 34 anni, la Polizia rinviene il corpo senza vita di Marco Pantani. Morto per overdose nel Residence “Le Rose” di Rimini, con segni di percosse sul volto. A noi resterà il ricordo di un grande campione, andato via troppo presto. Una storia fatta di luci e ombre, cadute e risalite. Dalla vittoria al fallimento è stato soltanto un attimo. La macchia del doping rimarrà appiccicata sulla pelle del ciclista romagnolo.
Ho sempre avuto l’impressione che prendesse dei farmaci da solo e valutando bene i rischi. Era la sua scelta e ho anche avuto l’impressione che pagasse di tasca sua i prodotti. Su quest’argomento si confidava con pochissime persone, nemmeno con me. Sentivo che non aveva fiducia neppure nei medici della squadra. Un giorno sì è lasciato andare con me, dicendo che bisognava prendere delle porcherie per avere successo. Aveva sempre dei prodotti in un contenitore di plastica dentro il frigorifero. Talvolta si faceva delle punture e io lo aiutavo tenendogli il braccio.
Il romagnolo resterà nella storia del ciclismo italiano non soltanto per le sue vittorie epiche, ma soprattutto per le sue sconfitte rovinose. Nonostante tutto, resterà il campione amato dal popolo. Un campione immortale e un perdente di successo. Un Pirata audace ed eroico, un uomo solo al comando in sella alla sua Bianchi. Ma anche un ragazzo debole e solitario, con l’istinto primordiale di una bestia feroce. E in effetti Marco Pantani è stato una bestia di rara bellezza, senza difese e senza pace, come in fondo siamo tutti. La felicità è soltanto un’illusione. È la dura legge di un uomo solo al comando.