I baffi di Max e la maschera di Thiago

Una maschera. Un paio di baffi. Un rasoio che al tempo stesso si fa materia e simbolo. La provincia di San Paolo che si staglia, per un singulto, sul mare che bagna le coste di Livorno. Un gioco, non di specchi, bensì di metafore che affiorano, di parole che sviliscono in un secondo e di illusioni che prendono vita. La storia di una nobile anziana, di quella Vecchia Signora ansante che osserva, ormai logora, una voragine, nella quale non esita a tuffarsi. Allegri, Juventus, Thiago Motta: tre nomi e un unico destino concatenato, tra immagine e trasformismo.

Se quella Vecchia Signora ne verrà fuori trionfante o avvolta in un battito di fuoco come Icaro ce lo dirà solo il futuro. Il passato, per ora, ci regala storie come questa. Una battaglia per il potere, una guerra che, come tutte le guerre, colpisce con asprezza i civili. Uno scontro fratricida, il cui epicentro trova casa nelle vite di tutti i tifosi juventini.

 

I baffi e la maschera

Un uomo che si rade. Sembra un’azione banale ma quando quei baffi sono diventati parte integrante della propria personalità allora, una volta preso in mano il rasoio, una parte fondamentale di sé sta per essere estirpata. Come fosse un braccio, una gamba o una sezione di cervello. E cosa succederebbe se quel grumo di peluria abbandonasse la propria dimora, appena al di sotto del naso? A cambiare non sarebbero più i soli connotati, bensì l’intero comparto della propria umanità.

Se nasci in una società schematica, incasellato in un ambiente che non t’appartiene è normale fare come il Kochan di Yukio Mishima. In un Giappone esasperato dal militarismo, la sensibilità non è pervenuta. Anzi, viene rigettata, estirpata, neutralizzata dall’interno, come fosse il cancro della società stessa. Così ci si crea una maschera, fragile nella sua durezza, inscalfibile nella sua delicatezza. Una maschera che mostra al pubblico un’immagine ovattata della propria personalità, proteggendo dall’esterno chi vi si nasconde dietro.

Quando Allegri ha perso i propri baffi si è distaccato totalmente dalla realtà. E, quasi in contemporanea, la perdita della propria maschera ha permesso a Thiago Motta di mostrarsi al mondo per quel che era davvero. Esiste un momento in cui tutti i pezzi di una storia si incastrano senza preavviso, modificando il corso delle cose. Una favola a tinte bianconere, che parte da San Paolo e arriva a Torino, passando per Livorno. La storia della squadra più titolata d’Italia e del suo destino, tenuto in bilico tra una maschera e un paio di baffi neri.

Allegri Juventus Motta - Puntero

Allegri e Thiago Motta: passato e presente della Juventus

 

Allegri il manipolatore

Come descrivere Massimiliano Allegri? Il primo collegamento logico che viene a crearsi è con la parola “manipolatore”. Si è rivelato un maestro nell’apprendere al volo i segni dei suoi interlocutori e utilizzarli a suo piacimento. Ecco perché gran parte della stampa lo ha amato e tutt’ora lo ritiene un genio. Un po’ come quel professore scanzonato, che tanto fa ridere i propri studenti ma che agli occhi dei colleghi non gode di grande simpatia. Un manipolatore anche della partita. L’ha dimostrato durante la prima avventura alla guida della Vecchia Signora. Dalla capacità di fare proprio il 3-5-2 contiano, al coraggio nell’abbandonarlo alle prime difficoltà, riscoprendo l’amato rombo a centrocampo, fino al folle 4-2-3-1 che ha guidato la squadra torinese fino a Cardiff. Chiamatelo trasformismo o metamorfismo ma, in fin dei conti, Allegri si è dimostrato un Sun Tzu livornese.

Il suo cammino alla Juve ha avuto qualche battuta d’arresto ma con un fil rouge a collegare le varie stagioni: la vittoria. Se nel 2016 trionfava in campionato dopo una rimonta storica, l’anno successivo è quasi riuscito a toccare il cielo di Cardiff. Librandosi a mezz’aria assieme al suo fedele Mario Mandžukić, diventato esterno in nome del trasformismo, ha toccato l’empireo madridista per 45′. Come ci insegnano i classici, quando si vola troppo in alto, quando si è accecati dalla hybris, le conseguenze sono funeste. La caduta è una discesa libera verso l’inferno, mentre il paradiso si fa beffe del povero malcapitato. Ma anche nella sconfitta, Allegri è rimasto in piedi. Coi suoi baffi fermi al loro posto. Quattro colpi di mortaio sono troppo pochi perché il suo esercito potesse perire. Serviva qualcosa di più, una nemesi. Serviva José Mourinho.

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Il gol del momentaneo 1-1 di Mandzukic contro il Real Madrid

 

La prima perdita

Allegri è sempre riuscito a maneggiare sapientemente tanto gli eventi di una partita, quanto gli animi in sala stampa. Il personaggio di José Mourinho è l’espressione più pura del comunicatore. Un uomo posto sullo zenit della manipolazione calcistica e inafferrabile per l’ex allenatore di Milan e Cagliari. Un idolo divenuto nemesi, un miraggio che, dissoltosi, l’ha lasciato solo in mezzo al deserto.

È il 2018. Cristiano Ronaldo si è accasato allo Stadium per tentare l’avvicinamento a quel sogno, divenuto ossessione, chiamato Champions League. Una fredda notte di novembre fa da cornice ad uno stadio gremito. Le urla dei tifosi sono la colonna sonora di una partita che non può essere banale. Ronaldo contro il suo passato, Allegri contro sé stesso. E la Juve si fa trovare pronta, ornandosi di un abito bellissimo, forse il più bello mai indossato nei cinque anni con Max. Ma se la cornice è tanto gradevole il quadro al suo interno non può esimersi dal tentare si superarne l’estetica. Il gol di CR7 è poesia. La consueta verticalizzazione di Bonucci premia il taglio di Ronaldo, che si coordina come solo gli dei sanno fare. De Gea può solo applaudire. Per 75 minuti c’è tutto: la cornice, il quadro, il pubblico. Tutto perfetto. Cosa mai potrà andare storto?

Tutto. Mourinho sa che è arrivato il momento di prendere le redini del proprio destino. Esaurisce i cambi nell’arco di dieci minuti. I 600 secondi che hanno fatto da preludio alla capitolazione di Massimiliano Allegri. All’86’ è Juan Mata a pareggiare i conti con una punizione deliziosa. A pochi secondi dalla fine ci penserà Alex Sandro ad ammutolire lo Stadium. La palla entra in rete, ma dietro le spalle di Szczęsny. Ed ecco il cortocircuito. L’ostruzionismo mourinhano ha abbattuto l’estetica sabauda. Nonostante il 60% di possesso palla e 500 passaggi i tre punti se ne vanno a Manchester. Il rasoio di Occam è un principio metodologico che indica di scegliere la soluzione più semplice tra più soluzioni egualmente valide di un problema. Ecco che allora la vittoria dello United diventa facilmente spiegabile. La soluzione più immediata è che l’estetica non debba appartenere al racconto calcistico.

 

La seconda – e definitiva – perdita

Ecco che Allegri si riscopre filosofo. Quel rasoio scelto per rispondere razionalmente alla débâcle contro Mourinho inizia a lavorare sotto il suo naso. Parte dei suoi baffi sono già andati perduti, mutando la percezione dell’Allegri-pensiero non sono al pubblico ma anche a se stesso. Il tecnico livornese ha iniziato, così, una battaglia ideologica. Il campo non è più un tratto fondamentale della narrazione calcistica. E se Allegri è diventato bellino significa, per conseguenza logica, essere divenuto perdente. Talvolta le guerre sfuggono al controllo dei generali e logorano tutte le parti in causa. Così ad ogni battaglia mediatica, Allegri ha cominciato a perdere un pezzo dei suoi baffi.

In preda a una vera e propria crisi d’identità, l’allenatore della Juventus ha cominciato a vedere fantasmi ovunque. Da quell’Adani che ha osato criticarlo pur avendo vinto meno di lui, alle cosiddette “categorie” nelle quali si iscrivono i diversi allenatori, definendo con chiarezza chi ha il permesso di parlare e chi solo di tacere. Un elitismo insito nella natura di chi arriva a toccare il cielo ma non riesce mai a insediarcisi. Il bisogno di ribadire al mondo la propria grandezza, per nascondere la paura dell’oblio. Ma quando si è troppo sicuri di sé per indossare una maschera, allora si diventa vulnerabili. Troppo vulnerabili.

La prima, vera, sconfitta arriva con l’esonero e il conseguente arrivo in bianconero del suo nuovo nemico ideologico: Maurizio Sarri. Una ferita troppo grande per essere colmata con semplici ospitate a Sky o con gli amati cavalli. Nulla è più importante della rivalsa, di dimostrare a chiunque che è il mondo ad essere sbagliato. Il ritorno è da re. La tifoseria lo acclama dopo un deludente quarto posto nella stagione di Andrea Pirlo. I canali social della Juve vengono invasi da frasi sulla semplicità del calcio e dai confini stilizzati del Minnesota. Un ritorno che non guarda al futuro. Allegri ha cercato la propria identità laddove aveva lasciato le proprie radici. Una volta che i baffi vengono persi, però, non resta che da chiedersi se quegli stessi baffi siano mai esistiti davvero.

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Lo scontro tra Allegri e Adani negli studi di Sky, nel 2019

 

La maschera al di sopra dei baffi

Il ragionamento può sembrare contorto, motivo per cui è d’obbligo fare un passo indietro prima di proseguire. Bisogna tornare alla gara di Manchester, a quando Allegri ha deciso di non indossare alcuna maschera. Si sarebbe sfibrata in fretta sotto i colpi avversari, durante le proprie battaglie. Forse si è sbagliato. Apporre uno scudo di fronte alla propria personalità non è una debolezza, a volte è una condizione obbligatoria. Ed è questa stessa maschera che può confessare, in un remoto futuro, la verità su chi vi si cela dietro. Quando viene tolta e l’inganno viene svelato è il momento ideale per poter cambiare il proprio destino.

Thiago Motta è stato un calciatore-maschera. Tecnica pura da brasiliano ma nessuna intenzione di mettersi esageratamente in mostra. Un ragazzo che è stato capace di vestire le maglie di Barcellona e Atletico Madrid ma che la memoria corta dell’opinione pubblica ha spesso ignorato. Un calciatore che a 26 anni, dopo un brutto infortunio, ha avuto il coraggio di rilanciarsi al Genoa, arrivando ad alzare la seconda Champions League con l’Inter.

Il calciatore italo-brasiliano riusciva a mostrare la propria personalità solo in campo, solo i propri compagni di squadra, gli allenatori e lo staff riuscivano a carpirla. Un calciatore preso di mira sui social perché lento, messo al centro di aspre critiche e commenti ironici, da parte di chi il calcio l’ha sempre guardato troppo superficialmente. Lui però ha sempre lavorato con pazienza, noncurante delle opinioni esterne ma al tempo stesso consapevole che nel movimento calcistico godeva della stima di allenatori e colleghi. Nel 2018 ha finalmente capito che quella maschera poteva – e doveva – cadere. Solo allora poteva confessare al mondo chi realmente fosse.

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Thiago Motta da calciatore, con la maglia dell’Inter

 

Il vero Thiago Motta

La maschera non si è sfibrata. Ha deciso di comune accordo col suo proprietario di farsi da parte. Il Thiago Motta calciatore non esiste più. Anche il calciatore-maschera si è dato al trasformismo. Le metafore mutano con la personalità ed ecco la nuova nascita del Motta allenatore-reale. A 36 anni ha deciso di mostrare al mondo la versione primordiale di sé, riscontrando comunque non poche difficoltà. Alla guida della selezione Under 19 del PSG, il suo 2-7-2 è stato oggetto di risa dalla stampa mondiale. Tutte le invenzioni più geniali hanno bisogno del tempo adatto perché fermentino e si insedino nella mente delle persone comuni. In questo caso, il tempo occorso è pari a cinque anni.

Solo a Bologna l’Italia ed il mondo intero hanno capito le idee di Thiago Motta. Una rivoluzionaria visualizzazione orizzontale del campo da calcio, in cui il portiere diventa un ruolo centrale nel gioco e gli esterni (di difesa e di attacco) svolgono compiti fondamentali. Una formazione la cui somma fa 11. Uno schieramento che trascende il totale, che denuncia la completa inutilità della rappresentazione grafica del modulo di partenza nel calcio moderno. Lo sport prende vita attraverso gli spazi, attraverso l’interpretazione di ognuno dei calciatori. Il pallone si riscopre centrale. Si trasforma in un oggetto socio-culturale, catalizzatore di emozioni che devono raggiungere con la maggiore forza possibile i tifosi sugli spalti. Un calcio che, quindi, diventa cassa di risonanza della personalità del Thiago Motta allenatore, quella personalità nascosta al pubblico da un ritmo troppo compassato per un calciatore di quel calibro. In un tacito accordo, la maschera ha ceduto il passo al pallone, creando una sinfonia mai vista all’interno del panorama calcistico mondiale.

 

Serviva la maschera, non i baffi

Quella maschera che tanto bene ha protetto la carriera da calciatore di Thiago Motta avrebbe potuto aiutare anche Massimiliano Allegri. Soprattutto nella sua seconda avventura juventina. Dall’inizio del suo secondo mandato Allegri non è più stato lo stesso. Ha capito fin dalle prime partite che, per tornare a toccare il cielo, come a Cardiff, ci sarebbe stato bisogno di tanto lavoro, soprattutto su sé stesso. La guerra ha assunto una dimensione totale, come predetto da Carl Schmitt molti decenni prima. Gli attacchi, veri o presunti, sono arrivati da ogni fronte. Dagli scontri con Lautaro Martínez o Simone Inzaghi in occasione dei primi trofei persi, fino alle dichiarazioni rilasciate dal suo maestro e alter ego Giovanni Galeone, criticando la sua stessa squadra.

Dal caos societario che ha investito il mondo Juve, e che l’ha reso ancora più solo con sé stesso, permettendogli di trovare nuovi alibi per le delusioni in Europa ed un mercato deficitario, fino a questa stagione. Ad un epilogo stonato in un giorno di festa. La vittoria della Coppa Italia è diventata valvola di sfogo personale nei confronti di Giuntoli, della Juventus stessa, dei giornalisti e di tutta la stampa in generale. Un’avventura culminata in un freddo comunicato di addio. L’ennesima sconfitta dell’Allegri-bis, che ha perduto una sfida del tutto personale, riflessa sul campo da calcio solo fugacemente. Massimiliano Allegri se ne è andato solo e criticato, esattamente come nel 2019. Qualcuno potrebbe definirlo un cane che si morde la coda ma, più semplicemente, si tratta di ritornare a quando Allegri era conscio della sua dimensione. Ora è un trasformista a cui sono stati strappati tutti i vestiti. Un uomo senza più baffi o che, forse, quei baffi non li ha mai posseduti.

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L’esultanza di Thiago Motta per la conquista della Champions alla guida del Bologna

 

La nuova Juventus

Allegri è la rappresentazione in carne ed ossa del protagonista uscito da un romanzo di Carrère. È stato rimpiazzato, nuovamente, da un uomo che rappresenta un calcio totalmente opposto al suo. Da un uomo che ha avuto il coraggio di dimostrare le proprie idee nonostante gli sbeffeggi della stampa, con l’obiettivo di diventare un allenatore di caratura mondiale.

La nuova Juve è ufficialmente nata da una cesura netta col proprio passato. Un video semplice, sintetico – forse fin troppo asettico – ha riportato il pallone al centro del campo. Un comunicato preciso ha riportato la parola “gioco” all’interno del vocabolario della Juventus. Thiago Motta ha il compito raccogliere un’eredità pesantissima. Ha bisogno di scrollarsi di dosso il pensiero di dover sostituire uno degli allenatori più vincenti nella storia della Vecchia Signora e, in generale, uno dei più divisivi del calcio italiano. Ma il futuro non può che essere roseo, per coloro i quali hanno il coraggio di cambiare la propria visione del mondo. Udite udite, signore e signori: la Juve è morta. Evviva la Juve.

 


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Di Thomas Novello

Studente di Editoria e Giornalismo e aspirante scrittore a tempo perso. Famoso su X (fu Twitter) per proteggere Diego "el más grande" Ribas Da Cunha e Berbatov.