Il calcio, in Italia, è ovunque. Mi piace pensare che esista una sorta di regola non scritta per cui, prima o poi, in un modo o nell’altro, il calcio trova sempre il modo di entrare nella vita di ognuno di noi. Lascia un segno, anche minimo, ma indelebile. Vuoi per un’emozione o per un ricordo. Vuoi perché, in una piazza in festa per uno scudetto, trovi l’amore della tua vita. Vuoi perché, in fondo, l’Italia è anche una Repubblica fondata sul “Scusi, chi ha fatto palo?” fantozziano. Quando si dice che il calcio è “di tutti”, in fondo, un po’ bisognerebbe crederci. E ognuno è libero di viverlo, intenderlo, condividerlo, oppure — perché no — usarlo come trampolino per raccontare se stesso. O, ancora, come mappa per ripercorrere le tappe della propria esistenza. Uno degli esempi più emblematici, in questo senso, è Paolo Sorrentino.
Paolo Sorrentino, il calcio e l’Oscar
Sorrentino vive il calcio, parla di calcio, è attraversato dal calcio. Lo trasforma in compagno fedele, presenza silenziosa, talvolta addirittura provvidenziale. Chi cerca conferme può partire da un dettaglio che non è affatto secondario: il ringraziamento a Maradona al momento del ritiro del premio Oscar.
Era il 2 marzo 2014 quando La grande bellezza riportò l’Oscar in Italia, quindici anni dopo La vita è bella di Roberto Benigni. Sorrentino, con la celebre statuetta in mano, si avvicina al microfono e dice: “Un ringraziamento a Diego Armando Maradona.” Un omaggio che, a molti, può essere sembrato eccentrico. Ma per chi conosce il suo cinema, la sua storia e soprattutto la sua Napoli, ha un peso che va ben oltre il colore. È una dichiarazione d’amore. È un ritorno alle origini.
Sorrentino non fa mai del calcio il centro esplicito dei suoi film. Eppure è lì, sullo sfondo, come un tema latente che prima osservi con la coda dell’occhio e poi ti accorgi che ha sempre guidato il racconto. Non è una semplice passione, è un elemento strutturale. E da anni, critici, colleghi e spettatori provano a decifrarne i significati.
La premiazione agli Oscar del 2014: Paolo Sorrentino ringrazia Maradona
Fine del gioco
Paolo Sorrentino, al suo esordio cinematografico con L’uomo in più nel 2001, dà già chiara dimostrazione di come il calcio sarà parte fondante dei suoi lavori. Proprio la pellicola del suo primo approccio al grande schermo è quella che maggiormente ruota attorno al gioco più vecchio di sempre e a tutti i suoi scenari. Stadio, partite, spogliatoio, declino e crisi dell’essere umano prima, e del calciatore poi. Concentriamoci su uno dei due protagonisti del film, entrambi omonimi: Antonio Pisapia, calciatore, interpretato da Andrea Renzi. L’altro, invece, Antonio Pisapia detto “Tony”, è un cantante. Ruolo ricoperto da Toni Servillo, che negli anni a venire poi diventerà una presenza assidua nei lavori di Sorrentino e che avremo modo di ritrovare più avanti.
Il Pisapia interpretato da Renzi è un personaggio chiuso, timido, cupo. In una sola parola: triste. Il film si apre in uno spogliatoio, dove vediamo il mister della squadra aggredire verbalmente i suoi uomini. Tutti restano in silenzio, soggiogati dalle parole dell’allenatore. L’unico a opporsi, nel merito e nei modi, è proprio Pisapia. La scena che vede il mister andare su tutte le furie è un chiaro rimando alla figura di Bruno Pesaola, allenatore e calciatore del Napoli, che nel film si scaglia contro Pisapia dicendo: “Come mi ha rotto i coglioni lei, non me li ha mai rotti nessuno, Pisapia”. Pisapia è un calciatore sul viale del tramonto, agli sgoccioli della sua carriera. Vive così un profondo scompenso emotivo, causato anche dall’incapacità di adeguarsi alla componente della società che vive fuori dall’universo calcistico, in cui non si identifica.
Su di lui grava anche la dolorosa vicenda del calcioscommesse, in cui è rimasto coinvolto. Finisce così, suicida nella solitudine. Ma chi è davvero Pisapia? Perché Sorrentino lo porta in scena? Personaggio frutto della sua immaginazione o rimando ed ispirazione a una figura precisa? Il richiamo ad Agostino Di Bartolomei è più che evidente. Di Bartolomei muore suicida il 30 maggio 1994, dieci anni dopo la sconfitta in finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Proprio alla vigilia del ventiquattresimo compleanno di Sorrentino, che ha vissuto questa coincidenza come un segnale. Un segnale che è poi divenuto esigenza di raccontare, come dichiarato dallo stesso regista:
Con Di Bartolomei ho fatto una scoperta sconvolgente. Un uomo che fa un mestiere normale e si suicida è un avvenimento nell’ordine delle cose, ma un calciatore che si suicida è un fatto eccezionale. Ho avuto voglia di raccontare questa fase in cui la vita smette di essere facile e smette di essere un gioco.
Le parole chiave del primo lavoro di Sorrentino sono quelle che il mister, a un certo punto, rivolge a Pisapia: “Il calcio è un gioco, ma lei è un uomo fondamentalmente triste”. Qui c’è tutto. Capire che ciò che hai fatto per tutta la vita è l’esatto contrario di ciò che sei. Un qualcosa che ti ha logorato fino a non riuscire ormai a trovare un tuo equilibrio neppure lontano da quella realtà. Una realtà che ti si è ormai appiccata addosso, una seconda pelle di cui vorresti liberarti ma che ormai fa parte di te. Troppo pesante da portare addosso, al punto che l’unica soluzione sembra distruggerlo. E lì allora sì, il gioco è finito.
La Grande Bellezza: Sorrentino guarda oltre
Soffermiamoci ancora un po’ sul mondo Roma. Nel 2013, in tutte le sale arriva La grande bellezza, film che abbiamo detto essere stato premio Oscar. Qui la materia calcistica è marginale, quasi impercettibile, ma Sorrentino non ha resistito alla tentazione di dedicarle almeno un ciak. Il film verte sul concetto di mondanità, sulla vita di tutti all’apparenza perfetta ma che, se esaminata nel profondo, poi si rivela essere il vaso di Pandora. I protagonisti sembrano incapaci di vedere oltre ciò che si può ostentare agli occhi degli altri, quelle minuzie in cui si racchiudono i veri piaceri della vita. Forse è per questo che l’elemento calcistico si rivela solo a chi sa scrutare nei dettagli della scena, così come nella vita. Nelle minuzie o, addirittura, in ciò che non è dato vedere.
La scena interessata è quella di una donna intenta a leggere la Gazzetta dello Sport del quotidiano dell’8 agosto 2012, dove compare in un piccolo riquadro la notizia dell’infortunio di Totti, avvenuto il giorno prima nel ritiro in Austria dei giallorossi per la preparazione del campionato. Difficile che l’occhio cada proprio lì, perché è solo un dettaglio di contorno, estraneo alla narrazione principale. La vede solo chi guarda in maniera dinamica. Per quell’elemento del “non visto” di cui si accennava prima, a onor di cronaca il trafiletto di Totti è posto sulla pagina destinata al retro della vista della donna, che ha gli occhi su un’altra pagina non a favore di telecamera.
Ed è solo qui che si coglie l’essenza del tributo alla Roma e ai suoi interpreti. Sulla pagina oggetto di interesse della donna si parla di Alberto Aquilani, altro fantasista giallorosso, un qualcosa estremamente complicato da poter capire o solamente ricordare anche se si è letta quell’edizione della carta stampata rosa. Qualche secondo, due pagine – una dalla visibilità discutibile e l’altra nulla – e il tributo è fatto. In maniera velata. Solo per chi riesce a strappare questo velo con la grinta del feroce occhio umano. In un mondo di decadenza, vanità e nostalgia, Sorrentino ci ricorda che il calcio appartiene ancora a chi sa guardare oltre la superficie.
Il ritmo del ricordo
Lasciamo Roma per spostarci finalmente a Napoli, patria di Sorrentino per volere divino e poi oggetto magnifico e quasi salvifico nelle sue pellicole. Partiamo da Youth, film del 2015. In realtà, qui, di Napoli non c’è nulla. O forse c’è tutto. La trama vede una coppia di anziani in una casa di riposo in Svizzera mentre attendono semplicemente il ritmo delle cose, il ritmo ciclico della vita. Nella stessa struttura alloggia un altro uomo, interpretato da Roly Serrano. È sovrappeso, ansimante, e non lascia spazio a dubbi: è Maradona. Se c’è una parola che racchiude il senso del film, è decadenza. La stessa che pesa sul corpo di Diego, senza impedirgli, però, di regalare ancora spettacolo: palleggia con una pallina da tennis.
Ancora una volta, è la vita di Sorrentino a fare da musa. 1986. Sorrentino ha sedici anni ed è ancora inconsapevole che, di lì a un anno, grazie a Maradona, avrebbe assistito al primo scudetto della squadra che ama da sempre. Una sera, per caso, passeggiando per Napoli, vide Maradona su un campetto. Tirava in porta, sempre nello stesso punto. Ogni tiro finiva nello stesso punto, con precisione ossessiva. Anni dopo, Sorrentino lo ricorderà così:
Il più grande spettacolo che io abbia mai visto. Più spettacolo di questo, non mi viene in mente niente.
In Youth, il calcio è ricordo. Un ricordo d’infanzia che sfida il tempo. Ricordo d’infanzia che non si arrende all’inesorabilità del tempo che avanza. Proprio come l’uomo non accetta il declino del suo fisico e della sua mente. Si sa: basta un pallone per tornare bambini. O, in questo caso, una pallina.
Il Maradona di Sorrentino
Calcio e cristianità napoletana
Con la prima stagione di The Young Pope, il Napoli assume le sembianze della più alta vocazione di fede che si possa sentire. Non poteva essere altrimenti, visto che tutto si svolge proprio negli ambienti della Curia romana. Sì, siamo di nuovo a Roma. Ma qui, la città del cristianesimo per eccellenza cede il passo al culto della napoletanità. Per mano dei suoi stessi uomini di Chiesa. Uno su tutti: il cardinale Voiello, interpretato da Silvio Orlando.
Voiello è una figura ambigua, lontana dall’ideale cristiano a cui siamo abituati. Manipolatore, freddo, spietato. Pronto a tutto per piegare gli eventi a suo favore. Un po’ come tutti noi, quando cerchiamo di giustificare le difficoltà della nostra squadra del cuore. Anche Voiello ne ha una: il Napoli, appunto.
È il Napoli a rivelare un’altra faccia di Voiello. La cover del cellulare con Insigne, Hamsik e Higuaín. La suoneria di Un giorno all’improvviso. E poi quella scena, mai andata in onda: Voiello che si tuffa in una fontana per festeggiare lo scudetto del Napoli. Dopo una vita costruita su potere e intrighi, il Napoli è la sua unica valvola di sfogo. L’unico spazio dove può essere davvero se stesso. Che il Napoli fosse più di una squadra per Voiello, Sorrentino ce lo aveva già suggerito. Come? Nel suo nome: Voiello. Sponsor del Napoli negli anni ’90. Ancora una volta, Sorrentino ci dice che il calcio non è mai un caso. È una scelta. Una cifra stilistica.
È stata la mano di Dio
Qui, le presentazioni non servono: il titolo entra a gamba tesa nell’immaginario calcistico. Film autobiografico del 2021, massima espressione di un’idea già chiara: il calcio, per Paolo Sorrentino, è vita. Salvifico, come detto in apertura.
Giugno 1984. A casa Sorrentino (Schisa, nel film), i genitori hanno appena litigato per un tradimento. La situazione si è appena placata e il telefono squilla. Dall’altro capo, la banca dove lavora il padre (Toni Servillo). La fideiussione tanto attesa dai napoletani è finalmente arrivata. Significa solo una cosa: Diego Armando Maradona è del Napoli.
Una notizia ormai insperata, visto che il mercato era a poche ore dalla chiusura e tutte le testate giornalistiche nazionali davano la trattativa per saltata. La realtà fu diversa. Quella del film è una scelta narrativa. Una realtà che Sorrentino ha comunque poi rivelato:
Era l’estate dei miei 14 anni e mi trovavo in vacanza da solo in Inghilterra. Chiamavo a casa ogni tre giorni e uno di questi giorni mio padre mi disse che il Napoli aveva comprato Maradona. Poi fece una pausa e mi disse di aver già fatto gli abbonamenti per l’anno seguente.
Aprile 1987. Un salto nel tempo. Come da tradizione, la famiglia Sorrentino ha intenzione di recarsi nel weekend nella casa di Roccaraso. Ma Paolo ha altri piani: vuole seguire il Napoli in trasferta a Empoli, in piena corsa scudetto. Quella montagna sarà fatale. I genitori di Paolo muoiono nel sonno, avvelenati dal monossido di carbonio.
Facile, quasi inevitabile, pensare a una sola cosa: è stata la mano di Dio. Maradona ha salvato la vita di Sorrentino. E non sembra allora più così bizzarro quel ringraziamento sul palco dell’Oscar, addirittura fatto prima di quello ai genitori.
Nella vita e nel film, Maradona salva Sorrentino. E salva Napoli. Diventa simbolo, speranza, riscatto per una città in crisi. Risveglia Napoli, suona la tromba. È aria pura. Gioia. Orgoglio collettivo. Il pretesto per un grido: “Dannazione, esistiamo anche noi.” Napoli cresce con la figura del Pibe: si fa bella. Sorrentino si fa uomo.
L’attesa della festa
L’ultima opera di Sorrentino, uscita a fine 2024, racconta la storia di Parthenope, nata nel 1950. La sua vita prende un’altra strada. Dopo mille vicissitudini, sceglie di stare lontana da Napoli per quarant’anni. A Trieste. L’unico richiamo al Napoli è nella scena finale.
Parthenope, tornata a Napoli dopo il pensionamento, cammina per le vie della città, guardandola come se fosse la prima volta. Ancora follemente innamorata di una città che le aveva fatto male. Dalla direzione opposta arriva un piccolo autobus scoperto a tinte Calcio Napoli, chiaro rimando ai festeggiamenti per lo scudetto vinto l’anno precedente.
Parthenope è incredula. Aveva lasciato una Napoli ferita, la ritrova in festa. Lo stesso percorso della sua anima. Napoli l’ha spinta via. Ora la riaccoglie. Con l’unico amore che non tradisce mai: quello per la squadra. L’amore che ti salva.