In questi giorni Simone Inzaghi sta vivendo sulla propria pelle le conseguenze più nefaste dell’isterismo nelle valutazioni della stampa e dei tifosi del nostro Paese: a quanto pare, due finali di Champions in tre stagioni con l’Inter non sono sufficienti per convincere tutti di essere il miglior allenatore italiano. E questo al netto dell’alta considerazione di cui si gode all’estero. Siamo periferia del calcio europeo (lo dicono i bilanci e pure i risultati sul campo), eppure viene messo in discussione un tecnico che ha creato un gruppo capace di giocarsela a testa alta con i mammasantissima, quelli che spendono e spandono e non basano certo i loro progetti tecnici su cessioni remunerative e acquisti preferibilmente a parametro zero.
La narrazione distorta su Inzaghi
Quanto conta il risultato? Tanto, tantissimo. Normale sia così nello sport. Ma se una singola sconfitta, per quanto umiliante nelle proporzioni, mette in discussione quattro anni di lavoro di altissima qualità, beh, forse siamo davanti a una delle cause per cui il calcio italiano arranca, con i club e con la Nazionale. Nel post Monaco sta emergendo quella forma perversa di risultatismo esasperato a cui le società di Serie A erano abituate quando il nostro era il campionato più importante del mondo. Ma quell’epoca è ogni giorno più lontana e le considerazioni andrebbero calibrate sul livello dell’Inter e della altre più o meno big italiane. E sui loro conti economici.
A Inzaghi viene imputato di non aver vinto abbastanza nell’ultimo quadriennio. Secondo molti, il Demone di Piacenza avrebbe sempre avuto la rosa più competitiva della Serie A: si tratta di una ricostruzione postuma che ha poco a che fare con la realtà dei fatti. Inzaghi eredita la squadra dello scudetto di Conte a cui, pronti via vengono sottratti Lukaku, Hakimi ed Eriksen. Al proprio posto la società pesca uno Dzeko lontano dal suo prime, Dumfries dal Psv e con zero esperienza ad altissimi livelli, e Calhanoglu, di fatto uno scarto del Milan. Da lì inizia un percorso che stagione dopo stagione porterà alla valorizzazione di una quantità impressionante di giocatori, alcuni dei quali arrivati a Milano con aspettative prossime allo zero. L’elenco comprende, tra gli altri: Acerbi dato per finito anche soltanto per la Serie A e fatto diventare un calciatore di alto livello europeo; Dimarco passato da un’ottima stagione con il Verona a titolare in Nazionale; Thuram trasformato in una punta centrale a tratti irresistibile; Onana preso a zero e venduto a peso d’oro 12 mesi dopo; Calhanoglu pagato niente e diventato leader tecnico del centrocampo. Questo giusto per fare qualche nome e senza mettere nel conto quei calciatori che, nonostante l’età avanzata, con Inzaghi hanno reso in maniera sorprendente, da Mkhitaryan a Darmian passando per Sommer.
Le scelte dell’Inter hanno un prezzo
Quindi Inzaghi non ha mai sbagliato nulla? Assolutamente no. Ad esempio, come lui stesso ha ammesso più volte, di certo ha fatto spendere tanto e male per Correa, suo pupillo dai tempi della Lazio ma un fantasma all’Inter. Non è riuscito a integrare nel suo sistema alcuni calciatori come Taremi e Zielinski, ennesimi parametri zero presi per allungare le rotazioni e poter competere in Italia e in Europa.
Proprio la volontà di arrivare in fondo in tutte le competizioni ogni anno, ha portato l’Inter a lasciare per strada uno se non due scudetti che erano alla portata. Ma da qui a dire che i nerazzurri avessero l’obbligo di dominare la Serie A ce ne passa. Il paragone che si fa più spesso è quello con la Juventus di Allegri: si tratta di un parallelismo quantomeno forzato, visto che di certo l’Inter di Zhang (e ora di Oaktree) non ha mai avuto la capacità di cannibalizzare il mercato interno. Marotta, Ausilio e Baccin non avevano a disposizione i fondi per acquistare dal Napoli Kvaratskhelia come la Juve fece all’epoca con Higuain, giusto per fare un esempio. Il progetto societario nerazzurro ha imposto paletti molto rigidi a Inzaghi e il tecnico li ha aggirati con sapienza crescente nel corso delle ultime quattro stagioni. Banalmente, Inzaghi ha spremuto tutto ciò che ha potuto da quasi ogni singolo calciatore che gli è stato messo a disposizione, creando una mentalità che alla Pinetina mancava dai tempi di Mourinho. Già, Mourinho. Anche accostare la rosa attuale con quella del 2010, come è stato fatto ossessivamente da alcuni media nelle ultime settimane, è un’operazione che lascia basiti. Perché Sommer non è Julio Cesar, la carriera di Acerbi e quella di Samuel non sono nemmeno lontane parenti, Eto’o era un fuoriclasse di fama mondiale mentre Thuram in Bundesliga somigliava più a una promessa non mantenuta che a un centravanti da finale di Champions, Dimarco non è non sarà mai una leggenda come Zanetti e via discorrendo. Il tutto senza considerare che di certo Mourinho aveva alternative di spessore e mai in match decisivi era dovuto ricorrere a calciatori del livello discreto e nulla più di Asllani, Zalewski, Darmian e Arnautovic.
Il bilancio del campo e quello economico
Inzaghi ha portato risultati straordinari di bilancio arricchendo anche la bacheca (oltre allo scudetto, due Coppe Italia, tre Supercoppe) e per farlo ha coniato una proposta di gioco moderna, spesso esaltata dalla stampa internazionale e anche da molti suoi colleghi. Lo ha fatto nascondendo i limiti della rosa ed esaltando le caratteristiche migliori dei calciatori a disposizione, creando un sistema liquido e camaleontico, capace di produrre mesi di calcio spettacolare, dominante oltre che efficace, ma anche affinando giocate codificate utili ad agire di rimessa contro le squadre a cui era difficile e pericoloso contendere la supremazia del possesso palla.
Per competere in tre competizioni, Inzaghi ha plasmato un gruppo che indubbiamente ha anche peccato di presunzione, come del resto capita a chiunque abbia l’ambizione di andare oltre i propri limiti. In buona sostanza, il Demone ha spinto molti dei propri ragazzi a credersi migliori di ciò che sono: questo ha portato a una crescita costante delle aspettative degli osservatori esterni e anche della maggioranza dei tifosi, fino alla disfatta di Monaco. Paradossalmente, ora a Inzaghi viene imputato di non esserla giocata con una squadra che può contare sul miglior portiere del mondo, su una quantità di talento offensivo paragonabile soltanto a quello del Barcellona e del Real Madrid, con una società che investe ogni estate centinaia di milioni per vincere la Champions. Insomma, ora Inzaghi viene massacrato a causa di ciò per cui dovrebbe essere esaltato: aver portato due volte in finale un club che non ha i mezzi per essere costantemente nel gotha del calcio europeo.
Lontano dal frastuono provocato dal bombardamento di giudizi sommari che piovono sulla testa di Inzaghi, Marotta dovrà capire se ci sono i margini per continuare il progetto tecnico attuale o voltare pagina. E dovrà farlo in tempi brevi visto che il Mondiale per club è dietro l’angolo. Sembra evidente che la volontà della società sia quella di non cambiare, in questo senso le parole post finale del presidente nerazzurro rappresentano più di un indizio. Del resto, gli introiti che l’ex tecnico della Lazio ha garantito all’Inter nelle ultime tre stagioni, soprattutto grazie alle entrate derivanti dalle campagne europee, sono quanto di meglio una società che ha il risanamento del bilancio come obiettivo possa chiedere.
D’altra parte, però, pare che Inzaghi, sotto contratto fino a giugno 2026, sia consapevole di non potersi spingere oltre e di non poter garantire risultati simili nel prossimo triennio. A meno che la rosa venga non solo rinforzata ma anche ringiovanita in maniera decisiva. I vari Acerbi, Mkhitaryan, Darmian, Taremi e Arnautovic sono a fine corsa. Ma anche le carte d’identità di Sommer e De Vrij parlano chiaro. Molto dipenderà dalle opportunità che Inzaghi potrà vagliare: di sicuro sul piatto c’è l’offerta faraonica dell’Al Hilal ma non è detto che rimanga l’unica, anche se le panchine delle big europee, a cui il fratello di Pippo ambisce, al momnto sono tutte occupate. I nomi di Sucic, Luis Henrique e Bonny potrebbero essere un buon viatico per tentare di convincere Inzaghi ma è chiaro che serva anche altro per poter parlare concretamente di un rilancio del progetto tecnico e allontanare i titoli di coda di un gruppo con un’età media che punta pericolosamente ai 30 anni.
Una chiusura amara
La manita subita a Monaco ha indubbiamente scosso Inzaghi e lo ha spinto a una riflessione profonda. La macchina del fango che si è scatenata nei suoi confronti subito dopo la fine della partita con il Psg e l’essere giudicato tanto negativamente per una singola prestazione della squadra dopo oltre 200 partite in nerazzurro, potrebbe essere stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In questo senso anche gli spifferi arrivati dallo spogliatoio, vedi la pubblicazione su diverse testate del presunto diverbio avuto con Frattesi a Monaco, sono segnali da non sottovalutare. Che l’Inter sia arrivata al termine di un ciclo è evidente, sarebbe stato lo stesso anche in caso di vittoria della Champions. La terrificante sconfitta con i parigini, però, rischia di lasciare un retrogusto amarissimo al termine di un quadriennio decisamente positivo e a tratti esaltante. Se così sarà, basterà attendere poche stagioni per poi guardarsi indietro e rivalutare l’incredibile lavoro svolto da Inzaghi. Perché la nostalgia funziona sempre, mentre la memoria a breve termine di tifosi e osservatori spesso fa cilecca.