Retrocessioni e paracadute: il sistema chiuso della Premier League

Ogni stagione che passa il sistema chiuso della Premier League, in cui le neopromosse non riescono più a competere, diventa più evidente.

Nella stagione 2023-24 lo Sheffield United, retrocesso dalla Premier League come ultimo in classifica, ha concluso la stagione con 16 punti, realizzando una delle peggiori stagioni della storia del campionato inglese ma ha soprattutto polverizzato il record di gol subiti: 104 in 38 partite. Un numero straordinario se si pensa che il precedente record apparteneva allo Swindon Town, che nella stagione 1993-94 ne subì 100, ma in 42 partite – il precedente record su 38 partite apparteneva al Derby County, che ne subì 89 nella stagione 2007-08. Per raggiungere questa cifra, lo Sheffield United ha subito un 8-0 dal Newcastle, un 6-0 dall’Arsenal e quattro 5-0 (da Arsenal, Brighton, Burnley e Aston Villa), diventando la prima squadra a subire 6 sconfitte con almeno cinque gol di scarto in una stagione e la prima a farlo in tre partite casalinghe consecutive. Nel percorso, le Blades hanno anche perso 28 partite su 38, andando a un’incollatura dall’allora record inglese.

Allargando il campo alle altre due squadre che hanno seguito le Blades in Championship, cioè Luton e Burnley, si nota che questo terzetto è quello che, in media, ha subito più gol a partita (2,34 ogni 90 minuti) nella storia della Premier League ed è anche quello con meno punti raccolti: appena 66 in una stagione da 38 partite. Nel marzo 2024, Duncan Alexander su The Athletic indicava lo Sheffield United come una delle peggiori squadre nella storia della massima serie inglese ma se questa può essere una posizione oggetto di discussione – più che altro per la presenza proprio del Derby County 2007-08 – ciò che sembra sostanzialmente indiscutibile è che quel terzetto di retrocesse è stato effettivamente il peggiore della storia del campionato. Ad accomunare queste tre squadre, oltre a tre stagioni a vario grado deludenti, però c’è un aspetto che allora poteva apparire secondario: tutte e tre erano neopromosse.

Il potere economico dietro il sistema chiuso della Premier League

Da qualche anno la Premier League ha intrapreso una direzione fatta di spettacolarizzazione e divario competitivo con le altre leghe europee che sembra ricalcare quello della NBA per il basket. È un trend abbastanza facile da riconoscere, visto il potere economico che ormai le squadre stanno acquisendo negli anni e il seguito sempre più grande soprattutto nel mercato estero.

In un periodo storico in cui le principali leghe europee stanno facendo grande fatica a mantenere contratti televisivi vantaggiosi – pensate alla Serie A, che ha prorogato l’attuale contratto per evitare una nuova asta che avrebbe verosimilmente ridotto gli introiti – la Premier League è ancora in crescita. Nel dicembre 2023 la lega ha sottoscritto un accordo quadriennale da quasi 7 miliardi di sterline con Sky e TNT per i diritti nazionali del campionato, con un incremento del 4% rispetto alle cifre del precedente accordo – 5 miliardi per il triennio 2022-2025 – a cui si sommano altri accordi multimiliardari per la trasmissione all’estero. Per dare una stima, negli Stati Uniti è il secondo campionato calcistico più seguito – dietro alla Liga MX e davanti alla MLS – e nel 2022 ha sottoscritto un accordo da 2 miliardi di sterline con NBC per la trasmissione delle partite fino al 2028.

Con cifre così importanti in gioco, è facile comprendere perché l’Inghilterra stia scavando un solco così ampio rispetto al resto d’Europa soprattutto quando si parla di investimenti sul mercato. Dalla stagione 2020-21, per esempio, tra i primi 20 club in Europa per spesa sul mercato ne figurano 12 inglesi, con Chelsea, City e United che occupano le prime tre posizioni e sono le uniche ad aver investito più di un miliardo di euro. Scorrendo questa classifica compaiono anche delle storture notevoli, come Leeds e Southampton che in questo periodo hanno speso più del Real Madrid. E non sarebbe neppure un dato così assurdo, se non fosse che in questo lasso di tempo Leeds e Southampton sono state per due anni ciascuna in Championship.

Questa enorme premessa serve a dire che la Premier League è diventata una miniera d’oro per le squadre che ci arrivano, anche solo momentaneamente. Qualche mese fa, The Athletic ha definito il massimo campionato inglese una “Terra promessa” e, vedendo il volume di denaro che circola al suo interno, si capisce il perché.

Un campionato molto livellato

Quella che si è appena conclusa è stata una delle stagioni di Premier League più equilibrate di sempre, con cinque squadre che hanno lottato fino all’ultima giornata per la qualificazione alla Champions League e con almeno altre tre che hanno lottato per l’ottavo posto che avrebbe potuto portare la qualificazione alla Conference.

Estendendo il discorso si può dire senza grandi difficoltà che quest’anno ci sono state un’abbondante decina di squadre – a grandi linee dal Liverpool, primo, fino al Crystal Palace, dodicesimo e vincitore della FA Cup – che hanno offerto validissime ragioni per essere seguite, mettendo in mostra qualità individuali straordinarie e un ventaglio di proposte di gioco ampio come in nessun altro campionato europeo. Inoltre questo livellamento ha prodotto un’imprevedibilità nelle partite inedita anche in un campionato da sempre con gerarchie abbastanza fluide. Pensate al Nottingham Forest, che a metà gennaio è stato capace di perdere 5-0 contro il Bournemouth e vincere 7-0 contro il Brighton nello spazio di una settimana. Al tempo stesso, però, il prezzo pagato da questo campionato è stata l’assenza di reali competizioni per i due estremi della classifica, dove i verdetti finali – la vittoria del Liverpool e le retrocessioni di Ipswich, Leicester e Southampton – sono arrivati con svariate settimane di anticipo dopo mesi in cui la situazione generale era già ampiamente definita.

Ora, mettiamo per un attimo da parte la corsa per il titolo, fortemente influenzata dalla presenza di un Liverpool dominante, e concentriamoci sulla lotta salvezza. Le tre retrocesse, come detto, sono state Ipswich, Southampton e Leicester che, anche in questo caso, erano le tre neopromosse. Può sembrare normale che le squadre provenienti dalla seconda serie siano anche le squadre meno attrezzate per il campionato ma è decisamente meno normale che questo accada per due anni consecutivi, men che meno in Premier League. Per dare un’idea: dalla nascita del campionato nel 1992 fino a quest’ultimo biennio era successo solo una volta, nel 1998, che le tre neopromosse – allora Barnsley, Crystal Palace e Bolton – retrocedessero tutte insieme.

Inoltre, se Luton, Burnley e Sheffield United nel 2024 erano diventate le peggiori ultime tre classificate di sempre nella massima serie inglese, in questo campionato Ipswich, Leicester e Southampton hanno ritoccato il record, totalizzando 59 punti totali, altri 7 in meno rispetto a quelle della scorsa stagione. In poche parole, negli ultimi due anni abbiamo avuto per due volte il peggior blocco di retrocesse della storia della Premier League e con un trend anche peggiorativo.

Le neopromosse non sono più all’altezza?

Come spesso capita con questo tipo di domande, la risposta è “in parte sì, in parte no”. Negli ultimi due anni abbiamo visto due volte retrocedere tutte le squadre neopromosse, ma è anche vero che nel 2023 le stesse (in quel caso Fulham, Bournemouth e Nottingham Forest), sono riuscite tutte a difendere la categoria e anche questo è un fatto abbastanza insolito, specie considerando che ora tutte quelle tre squadre si sono consolidate nella parte alta della classifica – il Forest è arrivato addirittura a qualificarsi in Europa. Ad accomunare queste squadre sono intervenute anche delle dinamiche particolari, ossia delle guide tecniche molto valide e degli investimenti molto pesanti e intelligenti sul mercato.

Al tempo stesso, però, se nell’annata 2023-24 lo Sheffield United ha deciso di infrangere diversi record negativi della Premier League, in quest’ultima stagione il Southampton si è impegnato a fare altrettanto, chiudendo con appena 12 punti – meglio solo del già citato Derby County – perdendo 30 partite su 38, retrocedendo con 7 giornate di anticipo (entrambi dei record) e con Ivan Jurić che nei suoi quattro mesi in panchina è diventato il peggior allenatore per media punti (0,3) della storia del campionato.

Ora, senza voler fare pornografia del dolore di Sheffield United e Southampton, si può dire che neanche le altre retrocesse abbiano onorato particolarmente bene la competizione. Nella stagione 2023-24 la migliore tra le squadre scese in Championship è stata il Luton con 26 punti, in quella seguente è stata il Leicester con 25. Se questi numeri possono sembrare poco rilevanti basti pensare che prima di questo biennio era successo solo nel 2019 che nessuna delle retrocesse riuscisse a totalizzare almeno 30 punti. Non sarà una cifra particolarmente significativa, ma offre una misura indicativa della loro distanza dalla salvezza, la cui quota invece è rimasta sempre molto vicina ai 40 punti – l’unica eccezione, il Nottingham Forest 2023-24, ha totalizzato 32 punti ma con una penalizzazione di quattro.

Quello che è avvenuto in questi due anni, insomma, sembra essere una rottura del sottile equilibrio che regola la parte inferiore della Premier League: le squadre consolidate in massima serie, ancorché meno attrezzate delle favorite, sembrano diventate too big to fail, facendo sì che le neopromosse, senza compiere investimenti eccezionali – e talvolta anche facendolo – non riescano mai a essere in grado di colmare il solco che si è creato e che, anzi, sembra ormai anche destinato ad ampliarsi.

Lo squilibrio in Championship e il campionato intermedio

Questo squilibrio si è propagato anche nella Championship, in cui, come è anche prevedibile, sono quasi sempre le squadre provenienti dalla Premier a guidare il campionato. Burnley, Leicester e Southampton sono riuscite a riconquistare la massima serie nella stagione in cui sono retrocesse (il Burnley lo ha fatto addirittura due volte), mentre Leeds e Sheffield ci sono riuscite l’anno seguente (ed entrambe hanno disputato la finale dei play-off nelle ultime due stagioni). Insomma, dal 2023 a oggi su 8 squadre che hanno ottenuto la promozione 5 di queste sono squadre scese non più di due anni prima. Questo implica non solo che queste squadre hanno mantenuto una discreta parte delle rose con cui hanno disputato la Premier League, ma anche che stanno ancora ricevendo i circa 45 milioni di paracadute, che vengono erogati per tre anni dopo la discesa.

Questa cifra, già importante di suo, diventa enorme se si pensa che i club di Championship che non lo ricevono hanno un monte ingaggi che non supera i 25 milioni di sterline e spiega in modo molto evidente come mai la rotazione tra i due campionati si stia riducendo. Nelle ultime due stagioni, infatti, le prime tre squadre per monte ingaggi della seconda divisione, che di norma coincidono con le retrocesse dal massimo campionato, hanno regolarmente concluso la stagione non più sotto del quarto posto in classifica. E, con il continuo aumento degli introiti della Premier League, l’aiuto continuerà ad aumentare senza che a questo corrisponda un aumento degli introiti per le altre squadre.

Insomma, sta emergendo un vero e proprio campionato intermedio, in cui gravitano le squadre troppo deboli per competere per la salvezza in Premier ma al tempo stesso troppo forti per non lottare per la promozione in Championship. In quest’ultimo triennio le uniche eccezioni a questo trend sono state Luton, Ipswich e Sunderland, che hanno mostrato come il divario economico tra chi riceve il paracadute e chi non lo fa non sia ancora insormontabile. Certo è che, se questo delta dovesse continuare ad allargarsi, sarebbe difficile prevedere che i club di fascia inferiore riescano a inserirsi nella corsa alla promozione anche nei prossimi anni, a meno che non siano disposti a fare investimenti estremamente pesanti e rischiosi.

Quest’ultimo è un caso abbastanza diffuso nei club le cui proprietà sono subentrate con l’interesse preciso di ottenere una quota dei ricavi miliardari della Premier. In un articolo del 2023 per The Athetic, Philip Buckingham faceva notare come le squadre di Championship operassero con una perdita media di 476 mila sterline a settimana – tra cui Fulham e Bournemouth, poi promossi, in grado di disperdere più di un milione a settimana. Questi numeri sono quasi tutti imputabili ai contratti dei calciatori, che molto spesso hanno costi superiori all’intero fatturato societario. Sempre Buckingham cita i casi di Birmingham e Preston North End, che nella stagione 2022-23 hanno speso quasi il doppio del loro fatturato per pagare gli stipendi dei giocatori. Il risultato è che, salvo casi molto rari, le società che investono per la promozione e non riescono a ottenerla finiscono in dissesti finanziari gravi – tanto che ormai quasi ogni anno la EFL deve comminare penalizzazioni – e chi invece dispone ancora dei soldi della Premier League vive quasi sempre con la serenità di poter lottare per riconquistare la categoria entro uno o due anni. E, allo stesso modo, i club di Premier che non rischiano la retrocessione si muovono con la tranquillità data da risorse tali da garantire la permanenza nel massimo campionato anche senza impegnarsi troppo.

In questa stagione si è giunti a un caso estremo, con il Tottenham che ha chiuso la Premier al quartultimo posto – con ben 13 punti di vantaggio sul Leicester – e lo ha fatto impiegando le sue riserve per quasi tutto l’ultimo mese di campionato in modo da risparmiare i titolari per le partite decisive in Europa League. Nonostante ciò, gli Spurs hanno raccolto 38 punti e, tra le salve, sono l’unica squadra ad averne fatti meno di 40. Nella stessa zona di classifica sono poi rientrate squadre altrettanto disastrose come Manchester United, West Ham e Wolverhampton, che hanno esonerato i rispettivi allenatori ma mai davvero a rischio. Non ha fatto fatica neanche l’Everton, che aveva una situazione finanziaria molto complessa e nel corso della stagione ha cambiato proprietà e allenatore. Insomma, la lega si trova davanti a una realtà sempre più contraddittoria. Nell’autunno del 2023 la Premier ha trovato un accordo con la EFL per aumentare sensibilmente i solidarity payments distribuiti nelle serie inferiori, che nella prossima stagione raggiungeranno i 6 milioni di sterline per ogni club (nel 2024 erano 3,5), con l’obiettivo di ridurre il folle gap economico tra chi retrocede e le squadre già presenti in seconda serie. L’intenzione sembra delle migliori, ma rimane un problema: le squadre retrocesse, oltre a prendere il paracadute, da ora beneficeranno anche dei nuovi solidarity payments.

In poche parole: la Premier ha aumentato il flusso di denaro verso i club della Championship ma lo ha fatto conservando il principale strumento di iniquità al suo interno. Quindi, senza ignorare le buone intenzioni dichiarate dalla lega più potente del mondo, si può dire che, almeno per ora, il massimo campionato inglese sta diventando un sistema chiuso: un campionato ricchissimo ma in cui è ormai quasi impossibile per nuove realtà stabilizzarsi. Quello che rende il tutto più tragico – e forse anche comico – è che tutto ciò sta avvenendo non per ingordigia dei presenti, ma semplicemente perché i posti a disposizione per gli altri sono esauriti.

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