Steve Kerr è un nome che tutti associano alla NBA moderna. Il coach dei Golden State Warriors, il guru del movimento senza palla, il predicatore del tiro da tre punti che ha rivoluzionato il basket. Ma prima di tutto questo, Steve Kerr è stato un giocatore. Non una stella, non una prima opzione, non un leader vocale. Era uno di quei giocatori che passano sotto i radar, uno che non avrebbe nemmeno dovuto arrivare in NBA — figurarsi vincere cinque anelli e diventare un pezzo chiave della dinastia dei Bulls.
Kerr è stato una presenza silenziosa ma fondamentale, il classico giocatore che non si nota finché non è troppo tardi, finché la palla non esce dalle sue mani con il tempo che scade e la partita in bilico. Raccontare Steve Kerr giocatore significa anche raccontare la storia di un uomo che ha sempre vissuto il basket da outsider, che ha dovuto trovare un modo di esistere in un mondo che non sembrava fatto per lui. E che, alla fine, ha lasciato un segno indelebile nella storia della NBA.
Steve Kerr, precario nella NBA
Steve Kerr non era destinato alla NBA. Non aveva il fisico, non aveva l’atletismo. Aveva un buon tiro da fuori, sì, ma in un’epoca in cui il tiro da tre punti era ancora considerato una curiosità più che un’arma, sembrava un dettaglio secondario. Eppure, nel corso della sua carriera, Kerr trovò il modo di trasformare quell’unica abilità in un passaporto per l’immortalità cestistica.
Dopo un’infanzia trascorsa tra il Medio Oriente e gli Stati Uniti – segnata dalla tragedia dell’assassinio di suo padre Malcolm Kerr, presidente dell’American University of Beirut, ucciso nel 1984 – Kerr arrivò all’università senza grandi credenziali. Scelse Arizona, dove, sotto la guida di Lute Olson, si trasformò in un giocatore affidabile, un tiratore solido e un pezzo chiave per una squadra che nel 1988 arrivò fino alle Final Four NCAA.
Fu allora che iniziò a intravedere uno spiraglio nella NBA. Non come stella, non come prima opzione offensiva, ma come specialista. Il problema? Nel 1988, nessuna franchigia cercava uno specialista da tre.
Steve Kerr fu scelto al secondo giro del Draft, pick numero 50 dai Phoenix Suns. Già essere selezionato sembrava un miracolo, ma entrare davvero in NBA era solo il primo ostacolo. Un giocatore con il suo profilo era destinato a essere un taglio facile, il classico rookie che passa una stagione ai margini prima di essere spedito in Europa o in qualche lega minore. E infatti, Kerr fu subito scambiato ai Cleveland Cavaliers, dove passò quattro stagioni nell’anonimato, facendo fatica a trovare minuti in una squadra che aveva già Mark Price e Craig Ehlo.
Il suo ruolo era semplice: tirare quando possibile, non fare danni, non sbagliare mai una lettura. Era l’equivalente NBA di un lavoratore precario: sempre in bilico, sempre sotto osservazione, sempre con la sensazione di poter essere rimpiazzato da un momento all’altro. Nel 1992, Kerr venne scambiato agli Orlando Magic. Ancora una volta: pochi minuti, pochi tiri, nessuna vera opportunità di mostrare il suo valore. A quel punto la sua carriera sembrava già scritta: un paio d’anni da comprimario, poi una lenta uscita di scena. Ma poi arrivarono i Bulls.
Il salto ai Bulls e il rapporto con Jordan
Quando nel 1993 i Chicago Bulls firmarono Steve Kerr, nessuno se ne accorse. Era uno dei tanti tiratori da panchina, un giocatore senza un ruolo chiaro in una squadra che, fino a pochi mesi prima, aveva Michael Jordan e Scottie Pippen come dominatori assoluti della NBA.
Solo che nel 1993 Michael Jordan si ritirò. E all’improvviso, la gerarchia dei Bulls cambiò. Senza MJ, la squadra di Phil Jackson aveva bisogno di nuove soluzioni offensive. Kerr, con il suo tiro da tre, iniziò a ritagliarsi minuti. Non era ancora un giocatore fondamentale, ma stava imparando il sistema triangolo, stava assimilando la mentalità Bulls. E poi, nel 1995, Jordan tornò.
Giocare con Michael Jordan non era facile: miglior giocatore della NBA, maniaco della competizione, leader ossessivo. Un giocatore che pretendeva il massimo assoluto da chiunque fosse in squadra con lui. Per un comprimario come Kerr, che non aveva né il fisico né il talento di Jordan, sopravvivere in quel contesto significava dimostrare di avere qualcosa in più nella testa. E Steve Kerr lo dimostrò nel modo più diretto possibile: prendendo un pugno da Jordan in allenamento.
L’episodio è noto. Durante un allenamento del 1995, Kerr e Jordan iniziarono a provocarsi a vicenda. Jordan, come al solito, spingeva tutti al limite. Kerr, stufo di essere trattato come un giocatore “inferiore”, reagì. Si alzò di tono, rispose, spinse Jordan. MJ, senza pensarci due volte, gli tirò un cazzotto in faccia. Phil Jackson li divise, Jordan venne mandato a casa. Ma quella sera, chiamò Kerr per scusarsi. Da quel giorno, il loro rapporto cambiò. Jordan aveva capito che Kerr non era uno che si faceva mettere i piedi in testa. E quando arrivarono i momenti decisivi, fu proprio Steve Kerr a ripagare quella fiducia.
Il tiro che definisce una carriera
Finals NBA 1997, Gara 6. I Bulls stanno affrontando gli Utah Jazz, la serie è sul 3-2 per Chicago. Si gioca allo United Center, e mancano pochi secondi alla fine. Timeout. Jordan si avvicina a Kerr e gli dice: “Quando raddoppieranno su di me, sii pronto.” Quello era il momento della verità. Quando il gioco riprese, Utah fece esattamente ciò che Jordan aveva previsto: mandò due uomini su di lui. Kerr, libero, aspettò un solo istante, poi tirò. Niente esitazione. Niente paura. Solo rete.
Quel canestro chiuse la partita, consegnò ai Bulls il quinto titolo e trasformò Steve Kerr da giocatore invisibile a eroe per una notte. Jordan lo abbracciò. Lo prese in giro nella parata per il titolo: “Ho dovuto fidarmi di Steve Kerr.” Ma la verità è che, in quel momento, Kerr era entrato a far parte della storia della NBA.
L’ultimo specialista
Kerr è stato l’ultimo esemplare di una specie in via d’estinzione: il puro specialista del tiro da tre punti, un giocatore il cui valore era ridotto quasi esclusivamente alla sua capacità di segnare da fuori. Negli anni ‘90, essere un tiratore da tre non era considerato abbastanza. Il tiro da tre punti era ancora un’arma secondaria, un colpo da usare solo quando il cronometro stava per scadere o quando non c’erano altre opzioni. Le squadre NBA costruivano le loro fortune sulla fisicità, sul gioco in post, sul dominio delle superstar. Eppure, Kerr riuscì a sopravvivere in questo contesto.
Non aveva bisogno di portare palla, non aveva bisogno di creare il proprio tiro. Bastava un piccolo spazio, un attimo in cui la difesa si distraeva, per punire gli avversari con una precisione chirurgica. Era un cecchino perfetto, uno che non aveva margine d’errore. Perché in quegli anni, se il tuo unico compito era segnare da tre, non potevi permetterti serate storte. E Kerr raramente le aveva.
Uno degli aspetti più sottovalutati della carriera da giocatore di Kerr è la sua mentalità da sopravvissuto. Sapeva di non essere il più forte. Sapeva di non avere un margine d’errore. Ma proprio per questo, era ossessionato dalla perfezione. Durante gli anni a Chicago, mentre Jordan spingeva i suoi compagni al limite con la sua ossessione per la vittoria, Kerr si allenava ogni giorno come se il suo posto in NBA fosse in discussione. Il suo compito era uno solo: entrare, muoversi nel sistema, aspettare l’occasione e segnare. E in questo, era praticamente perfetto.
Dai Bulls agli Spurs
Dopo il 1998, con lo smantellamento dei Bulls, la carriera di Kerr sembrava destinata a spegnersi lentamente. Aveva 33 anni e, in una NBA sempre più atletica, sembrava difficile che potesse trovare un altro contesto adatto a lui. Ma poi arrivò una chiamata da San Antonio. Gregg Popovich, allenatore visionario e ossessionato dai dettagli, capì che un tiratore come Kerr poteva ancora essere utile in un sistema che stava nascendo attorno a Tim Duncan e David Robinson. A San Antonio Kerr non aveva più un ruolo di primo piano, ma il suo impatto si fece sentire nei momenti decisivi.
Dopo aver vinto il quarto anello personale alla sua prima stagione in Texas, Kerr si riunì con Pippen a Portland nel 2001, tornando dopo appena un anno a San Antonio per la sua personalissima Last Dance. E proprio nel 2003, quando gli Spurs affrontavano i Mavericks in una decisiva Gara 6 delle finali di Conference, Kerr entrò in campo nel quarto quarto e segnò quattro triple consecutive, spezzando la partita e mandando San Antonio alle Finals. A fine stagione vinse il suo quinto anello. Era l’ultima pennellata sulla sua carriera. Il colpo da maestro di un giocatore che non avrebbe nemmeno dovuto arrivare in NBA, ma che era riuscito a vincere più titoli di molte superstar.
L’eredità di Kerr come giocatore
I numeri dicono che Steve Kerr è stato il miglior tiratore da tre della storia NBA in termini di percentuale: 45,4% in carriera, un dato che nessuno ha mai superato. Eppure, non viene quasi mai citato nei discorsi sui migliori tiratori di sempre. Perché? Perché il suo gioco era un’altra cosa. Non era un volume shooter come Reggie Miller o Ray Allen, non era un creatore di tiri come Stephen Curry. Il suo ruolo era quello di aspettare il momento giusto e colpire, con un’efficienza che nessun altro poteva replicare.
Se oggi vediamo squadre costruite attorno ai tiratori, giocatori che basano la loro carriera sulla specializzazione nel tiro da tre, lo dobbiamo anche a pionieri silenziosi come Kerr, che hanno dimostrato che un giocatore con un solo talento poteva comunque fare la differenza.
Quando si parla di Kerr oggi, si pensa all’allenatore. Si pensa all’uomo che ha rivoluzionato i Warriors, a quello che ha dato libertà a Steph Curry e Klay Thompson, a quello che ha costruito il basket del futuro. Ma prima di tutto questo, anche il Kerr giocatore è stato un rivoluzionario. Un outsider. Un sopravvissuto. Un uomo che non aveva nulla per stare in NBA, ma che ha trovato un modo per esistere nel sistema perfetto.
Quando la palla pesava, Steve Kerr era quello che non sbagliava mai. Il cecchino che vuoi sempre avere dalla tua parte.