C’è stato un tempo, nei primi anni Duemila, in cui la squadra che giocava il basket più avanzato, più armonico, più imprevedibile di tutta la NBA si trovava a Sacramento. In quella squadra, il cuore pulsante non era una superstar da highlights, ma un lungo che giocava come un playmaker, che passava il pallone come se stesse dirigendo un’orchestra. Chris Webber non ha mai vinto un titolo. Non ha un riconoscimento individuale a certificare la sua grandezza. Nemmeno un MVP. Eppure chi c’era, chi ha visto quei Kings, chi ha amato quel basket, sa che Webber è stato uno di quelli che hanno cambiato il gioco senza riuscire a dominarlo del tutto. La sua è la storia di un talento assoluto, ma sempre in bilico tra la gloria e l’incompiutezza. Un racconto fatto di sliding doors, geometrie spezzate, partite che sembravano la sua ma non lo sono mai state davvero.
L’estetica della rivoluzione: i Fab Five
La storia di Webber non può che partire dai Fab Five, probabilmente il gruppo più iconico e influente della storia del basket collegiale. Nel 1991, l’Università del Michigan riuscì a mettere insieme cinque freshman che cambiarono per sempre il modo di vedere il basket NCAA. Chris Webber, Jalen Rose, Juwan Howard, Jimmy King e Ray Jackson erano giovani, arroganti, spettacolari, diversi. Giocavano con shorts larghi, calzettoni neri, trash talking continuo. Erano uno statement culturale.
Il loro leader era Webber. 2,08 metri di tecnica, potenza e visione di gioco, una combinazione che il basket non aveva mai visto prima. A Michigan era praticamente un playmaker aggiunto: dominava il pitturato, ma sapeva passare il pallone come un piccolo, faceva giocate da point forward prima ancora che il concetto esistesse. Nella Final Four del 1992, i Fab Five raggiunsero la finale NCAA al loro primo anno, ma persero contro Duke. L’anno dopo arrivarono di nuovo fino all’ultimo atto, questa volta contro North Carolina. Fu lì che iniziò la maledizione di Webber.
Con 11 secondi da giocare, Michigan era sotto di due punti. Webber prese il rimbalzo difensivo e iniziò la transizione. Ma commise infrazione di passi, che gli arbitri incredibilmente non fischiarono. Poi, intrappolato dalla difesa, fece l’errore che definì la sua carriera: chiamò un time-out che Michigan non aveva. Tecnico, palla a North Carolina, partita finita. Un errore da playground, ma fatto sul palcoscenico più grande, nel momento più decisivo. Quell’istante lo avrebbe seguito per tutta la carriera. Per quanto fosse dominante, per quanto fosse talentuoso, Chris Webber sarebbe stato sempre il giocatore a cui mancava qualcosa nei momenti decisivi.
Chris Webber Rookie of the Year
Webber si dichiarò eleggibile per il Draft 1993 e fu selezionato con la prima scelta assoluta dagli Orlando Magic. Ma non giocò mai con loro. Dopo pochi giorni, infatti, fu scambiato ai Golden State Warriors in cambio di Penny Hardaway. A Golden State finì sotto la guida di Don Nelson, che voleva trasformarlo in un lungo da small-ball prima ancora che l’NBA capisse cosa fosse quello stile di gioco. Webber, pur essendo Rookie of the Year, non si trovò bene e dopo una sola stagione chiese di essere ceduto. Fu il primo segnale che Webber non sarebbe mai stato un giocatore facile da incastrare in un sistema.
Ad accoglierlo furono i Washington Bullets, dove visse anni di talento sprecato, senza una squadra competitiva attorno. Il tempo passava, e mentre altri della sua generazione — Shaquille O’Neal, Tim Duncan, Kevin Garnett — iniziavano a vincere, Webber sembrava cristallizato in una dimensione di eterna potenzialità.
L’equilibrio perfetto: l’arrivo a Sacramento di Chris Webber
Nel 1998, finalmente, arrivò il passaggio decisivo: l’approdo ai Sacramento Kings. Una franchigia che all’epoca era tutto fuorché desiderabile: piccolo mercato, zero tradizione vincente, un’arena bollente ma marginale nei radar NBA. Webber inizialmente rifiutò anche solo di presentarsi. Ma proprio lì avrebbe trovato il contesto tecnico che nessun altro gli aveva saputo offrire.
Allenata da Rick Adelman, Sacramento era una squadra che credeva nel movimento di palla, nella collaborazione offensiva, in un basket che non aveva ancora nome ma che somigliava molto a quello che sarebbe arrivato anni dopo con gli Spurs o con i Warriors. I Kings del 1999 erano una squadra costruita sul ritmo e sulla visione, e Chris Webber era il cuore pulsante del sistema.
Per la prima volta non era più costretto a giocare solo spalle a canestro. Poteva orchestrare, portare palla, leggere i tagli, iniziare l’azione. Intorno a lui, una squadra pensata come un’estensione del suo gioco: Jason Williams (poi Mike Bibby) come creatore secondario, Vlade Divac come lungo-pivot pensante, Peja Stojaković come tiratore puro, Doug Christie come esterno difensivo.
Un’orchestra in cui Webber era insieme primo violino, direttore e compositore. Sacramento non aveva superstar, ma aveva un’identità riconoscibile, moderna, spettacolare. Finalmente Chris Webber aveva trovato casa.
2002: l’apice, la beffa, il punto di rottura
Le stagioni 2000-01 e 2001-02 furono il picco della carriera di Webber, sia individuale che collettivo. Nella prima mise insieme 27,1 punti, 11,1 rimbalzi, 4,2 assist di media, dando l’impressione di essere un giocatore in controllo assoluto del campo. Ma fu nella seconda che i Kings toccarono l’apice: 61 vittorie in regular season, miglior record della lega e un sistema offensivo così fluido da sembrare un corpo unico in movimento. La pallacanestro che giocavano somigliava a quella degli Spurs più virtuosi, ma con il ritmo e l’imprevedibilità che sarebbero appartenuti, anni dopo, ai Warriors di Curry. Sacramento giocava un basket che la lega non era ancora pronta a comprendere e al centro di tutto c’era Webber.
La corsa sembrava destinata a chiudersi con il titolo. Ma alle Finali della Western Conference, l’ostacolo si chiamava Los Angeles Lakers: Shaquille O’Neal,Kobe Bryant e un’aura di inevitabilità. Sacramento arrivò a condurre 3-2 nella serie, Gara 6 è ancora oggi uno degli eventi più controversi della storia NBA. In quel solo quarto periodo, i Lakers tirarono 27 liberi, molti dei quali concessi su contatti invisibili o inesistenti. L’arbitraggio fu un fattore determinante. Sacramento perse quella partita e crollò in Gara 7. I Lakers vinsero il titolo. I Kings non ci arrivarono mai più.
Chris Webber aveva giocato la miglior pallacanestro della sua vita. Ma quella serie non premiò la squadra migliore. E come spesso accade nello sport, quando perdi la tua occasione perfetta, non ne arriva un’altra.
La frattura e la caduta
Dopo il 2002 Sacramento rimase competitiva e Webber continuò a essere il centro tecnico ed emotivo della squadra. Ma nel maggio 2003, durante una serie di playoff contro i Dallas Mavericks, avvenne il cortocircuito definitivo. In un normale taglio verso il canestro, Webber piantò male il piede sinistro. Il ginocchio cedette. Rottura del menisco, danni cartilaginei. Rimase fuori per quasi un anno. Quando tornò, era ancora Chris Webber, ma solo nel nome.
Aveva perso la velocità laterale, l’esplosività, la capacità di creare separazione. Sacramento lo aspettò, ma intorno a lui il tempo si muoveva più veloce. Peja Stojaković stava prendendo il controllo dell’attacco, Vlade Divac era ormai in fase calante, la finestra per il titolo si era chiusa senza preavviso. Nel 2005, i Kings decisero di ricostruire e scambiarono Webber ai Philadelphia 76ers.
Lì giocò due stagioni discrete, da veterano intelligente, con meno gambe ma ancora una visione superiore. Dopo un breve passaggio a Detroit, chiuse la carriera nel 2008 con i Golden State Warriors, la squadra che lo aveva scelto quindici anni prima. La fine fu silenziosa e senza celebrazioni.
Oltre l’anello
Eppure, quello che resta di Chris Webber va oltre le vittorie. Perché in un’epoca in cui i lunghi erano ancora ancorati al ferro, Webber mostrava che un 2,08 poteva leggere il gioco, iniziare un’azione, manipolare le difese con un passaggio. È stato uno dei primi lunghi realmente playmaker. Un modello anticipato di Jokić, un’eco tecnica che ha influenzato intere generazioni di giocatori.
Ma il suo impatto è stato anche culturale. Con i Fab Five, Webber fu pioniere di un’estetica e di un’identità afroamericana che il basket collegiale non aveva mai accettato pienamente: hip-hop, calzettoni neri, espressione individuale, orgoglio. Quelle stagioni a Michigan aprirono un varco. Segnarono il passaggio da un college basketball ancora rigido a una NBA più permeabile alla cultura che la circondava.
Chris Webber è uno dei più grandi “what if” della storia NBA. Se non avesse sbagliato quel time-out nel 1993, avrebbe vinto il titolo NCAA? Se Sacramento non fosse stata derubata nel 2002, avrebbe un anello NBA? Se non si fosse rotto il ginocchio nel 2003, avrebbe potuto guidare i Kings fino in fondo?
La sua carriera è fatta di momenti mancati, di grandezza interrotta, di una bellezza che sembrava sempre sul punto di esplodere e invece si dissolveva. Ma questo non toglie nulla a ciò che è stato. Non è stato un vincente nel senso canonico. Ma è stato un giocatore che ha lasciato un’impronta incancellabile. Che ha ispirato, contaminato, anticipato.