I tifosi nerazzurri, giunti in pellegrinaggio in Baviera, postano le prime storie all’Allianz Arena di Monaco. Delirio ed eccitazione, sono attimi di estasi, non sembra vero di essere arrivati fin qui. Tra chi è riuscito ad accaparrarsi un biglietto per la finale, c’è anche chi ha preferito godersi il grande evento, con i propri amici di tifo, nell’intimità delle mura domestiche. “Il Sabato del Villaggio”: un rituale carico di sentimento, frammenti di quotidianità che scandiscono la vita del tifoso di pallone. Indossiamo la casacca nerazzurra come cadetti in divisa e dai gradoni di San Siro, in piedi, intoniamo cori da stadio. Sono seduto sul divano di casa, due ore prima del fischio d’inizio. Guardo compulsivamente lo schermo del telefonino, ma il tempo non sembra passare.
In una situazione di analoga attesa ci sono i tifosi delle squadre storicamente nemiche. Quello tra i cugini – rossoneri e bianconeri – è un patto d’amore: uniti nella buona e nella cattiva sorte per un fine superiore. L’Inter è nel mezzo di una congiura, un intrigo oscuro e cospirazionista. “Gufare” è comunque servito a qualcosa. Anzi molti ringraziano Barcellona e Bayern per avergli regalato una finale coi controfiocchi. Un dono ai posteri grazie al quale potranno continuare a sfottere la tifoseria rivale per l’eternità.
Durante lo spettacolo prepartita dei Linkin Park, la frontwoman Emily Armstrong si esibisce dal vivo col brano Up From the Bottom, tratto dalla riedizione deluxe del loro ottavo album in studio, From Zero: “Wakin’ up without a name, Opening my eyes, knowing nothing’s gonna change, Circlin’ around a drain, As I realize that, there’s no one else to blame”. (traducibile come “Mi sveglio senza un nome, aprendo gli occhi, sapendo che niente cambierà, girando intorno a una fogna, mentre mi rendo conto che non c’è nessun altro da incolpare”).
Similmente a quanto scritto nel testo della canzone, l’indomani è straniante, come quando ti risvegli dopo una brutta sbornia. Tutto è sfocato, la testa è pesante, i pensieri annebbiati, e senti un senso di vuoto. Stiamo vivendo una sorta di derealizzazione, come se la finale di Monaco avesse lasciato un vuoto difficile da razionalizzare.
Inter-PSG, una finale di sofferenza e di orgoglio al cospetto di Dio
Come io stesso ho avuto modo di scrivere, “l’‘interismo’ non rappresenta solamente il tifo per la casacca nerazzurra, è un modo di vivere il calcio, una filosofia, uno stato d’animo, quasi una fede. Si nutre di emozioni, sospeso tra notti di gloria e rovinose cadute nel buio. Eppure, sono anni che le cose vanno sorprendentemente bene”. I tifosi rifuggono alla vita per abbracciare un’altra forma di sofferenza, un patema carnale e spirituale. Roberto Vecchioni diceva:
Uno si sceglie una squadra, non perché è migliore delle altre, e non è che deve cambiare squadra se la sua squadra perde, questo lo sanno tutti i tifosi. Se la sceglie perché è uguale a sé. L’Inter è uguale a me perché fa delle cialtronate tremende e poi ha dei momenti sublimi.
È un patto d’amore, vuol dire accettare il paradosso di trovare sollievo nella precarietà. Lo sa Davide Frattesi che in un post su Instagram scrive:
In questi mesi credo di aver capito al 100% cosa voglia dire essere interista, ne sono sicuro. Mi avete dato una mano, siete stati dalla mia parte nel momento più difficile della mia vita, anche quando in campo non giravo, quando non ero il Davide carico e sorridente di sempre. Non mi avete giudicato e mi siete stati accanto come dei fratelli maggiori. Non lo dimenticherò mai.
A settembre scorso scrissi a un amico: “Per come ha preso il via la stagione, fra prestazioni stentate e disattenzioni, temo e credo Inzaghi abbia la testa alla Champions”. Che a vincere fosse un’italiana rientrava, almeno sulla carta, nell’ordine naturale delle cose. E l’Inter era – e rimane – l’ultima ad aver alzato la Coppa dalle Grandi Orecchie, ormai quindici anni fa. Si può discutere se una manciata di Coppe Italia e Supercoppe, uno scudetto – considerando quelli regalati al Napoli quest’anno e al Milan nel 2023 – e due finali di Champions non siano abbastanza per la qualità di gioco espressa dall’Inter.
Simone Inzaghi ha il merito di aver fatto crescere i suoi giocatori, riuscendo a costruire un undici altamente competitivo malgrado la partenza di alcuni tra i suoi migliori interpreti. Gli ammiccamenti dell’Al-Hilal potrebbero aver inciso sull’umore del collettivo, precipitato da settimane in una crisi d’identità e di risultati. Come molti hanno già scritto, si chiude un ciclo. È una questione di rigenerazione emotiva: la scelta più saggia e naturale era necessariamente un passaggio di testimone. Anche se a dirla tutta anche adesso fatico a trovare un nome che potesse accontentare tutti: tifosi, giocatori, e dirigenza. Vincere la Coppa avrebbe condonato i passi falsi con Parma e Bologna, questo è certo, ma non si può certo dire che la stagione sia da buttare. Eppure, l’allenatore è il solo a passare dalla gogna mediatica. Luigi Garlando sulla Gazzetta dello Sport scrive:
È stato compromesso il futuro di questo gruppo. Una figuraccia del genere disinnesca i meriti per essere arrivati in fondo a tutte le competizioni e reclama dimissioni.
Così come Inzaghi, è proprio per superbia che Lucifero si ribella a Dio e cade dall’empireo. Non c’è sacralità, l’oltre-omismo dostoevskiano assurge a dogma di fede. La bellezza degli angeli caduti porta in sé il mito della ribellione all’ordine celeste. E non è un caso che l’ormai ex allenatore dell’Inter venga chiamato Demone, sia per le telecamere capaci di sorprenderlo spesso fuori di sé, sia per la sagacia tattica.
Per Dostoevskij Dio esiste, mentre il diavolo no. O almeno, il demonio – ‘Il Demone’ ai fini di questa narrazione – che appare a Ivan nell’undicesimo libro de I Fratelli Karamazov non ha corna, forcone né coda di maiale. È un’estensione di sé stesso, un alter ego della sua personalità: “In verità, ti arrabbi con me perché non ti sono apparso in una nube rossa ma mi sono presentato in una veste tanto modesta”. Inzaghi è vanesio, tatticamente integralista ed egotista. Il suo è un disturbo narcisistico della personalità. Il Demone non sa leggere le contingenze della partita, dimostrando scarsa adattabilità al gioco avversario.
Il Demone di Piacenza si manifesta in forma di vanità, bramosia di orgoglio e protervia: “Mi era stato chiesto degli obiettivi, ho detto tre ma ne sono quattro perché c’è il Mondiale per Club”. Non a caso, in I Demoni il prosatore russo volgarizza il relativismo morale e la precarietà dell’uomo che, alla morte di Cristo, si toglie anch’egli la vita. Al brunire del dogma dell’Immacolata Concezione questa trasvalutazione valoriale e letteraria inneggia al dolore come antidoto al nichilismo, declinato nella redenzione del reo confesso. Al naufragare dei valori cristiani, Kirillov impugna la rivoltella e, solo dopo aver negato l’esistenza di Dio, si spara: “Bisogna essere davvero un grand’uomo per saper resistere anche contro il buon senso”.
Per espiare i nostri peccati, sfuggendo, così, alla morte, diamo sangue all’umanesimo fino all’esaurimento dello spirito. In un’intervista rilasciata a L’Indiscreto in occasione dell’uscita del suo libro Morire per le Idee, Mariano Pecinetti, riflettendo sull’omicidio filosofico, osserva:
A differenza della maggior parte dei filosofi contemporanei, i filosofi di Dostoevskij non sono dei codardi: mettono in pratica la loro filosofia, mettono in gioco i loro corpi e ne pagano il prezzo. Uccidono, si suicidano, hanno incontri con il diavolo e impazziscono.
Anche Inzaghi muore per le idee e, in risposta all’offensiva parigina, sacrifica sé stesso per difendere i propri ideali. Il suo è un martirio offensivo, il frutto di una scelta consapevole, dettata dal libero arbitrio.
Piutost che nient, l’è mei piutost
“Per competere in tre competizioni, Inzaghi ha plasmato un gruppo che indubbiamente ha anche peccato di presunzione, come del resto capita a chiunque abbia l’ambizione di andare oltre i propri limiti”, scrive Vincenzo Corrado per Puntero. È innegabile che l’Inter abbia fatto un percorso ben al di sopra delle proprie possibilità. Il rimpianto non è, allora, la figuraccia in finale, quanto essere arrivati a giocarsi il titolo con un organico non all’altezza di questo palcoscenico. Una inadeguatezza evidenziata anche da Maurizio Crosetti di Repubblica:
La lunga avventura da zero tituli, per dirla come un illustre predecessore, lascia come ultima immagine quella di una squadra inesistente e inerme, spaventata e sfinita.
Questa stagione, tra fischi e fiaschi fin troppo frequenti, è conseguenza dell’alterigia di un gruppo, che, nel tentativo di assecondare i desiderata della dirigenza e, di riflesso, dell’allenatore, ha finito per inciampare a pochi passi dal traguardo.
“È forse possibile accostarsi al tavolo da gioco senza farsi immediatamente contagiare da superstiziosi presentimenti?”, scrive Dostoevskij ne Il Giocatore. C’è qualcosa di sottilmente erotico nel brivido di rischiare tutto, nell’adrenalina di un all-in che sfida il buonsenso. Tuttavia, è proprio nell’azzardo che si annida una strana forma di piacere: un vero giocatore sa riconoscere il sapore beffardo di certi scherzi del caso. L’alea di vincere tre – addirittura quattro – competizioni è perlomeno temeraria, un atto di hybris. L’accidia è un peccato in senso religioso ed anche umano. Sempre in I Demoni leggiamo: “L’uomo, oltre a volere la felicità, ha un eguale, identico bisogno anche della sventura”.
I nerazzurri subiscono la subjugatio, la sfilata sotto il giogo nemico, un’umiliazione rituale della sconfitta militare: usciti sconfitti dalla Battaglia delle Forche Caudine, spogliati della cotta di maglia, i legionari romani s’inginocchiano di fronte all’esercito sannita. Come ha detto Luis Enrique dopo la premiazione:
Voglio elogiare l’Inter in modo assoluto: tutti i giocatori e tutto lo staff sono rimasti ad aspettare con rispetto, in campo, fino a quando abbiamo finito di festeggiare. Nonostante il dolore per la sconfitta hanno scelto di rimanere lì. Penso sia una grande lezione per i bambini, nella vita e nel calcio si vince e si perde. Bisogna anche saper perdere, a questo mondo ci sono persone che sanno solo vincere.
Oaktree – in persona del presidente Beppe Marotta – appena dopo la débâcle di Monaco ha dichiarato:
Inzaghi ha un contratto di un altro anno e con lui avevamo già deciso di trovarci in settimana. Quasi tutto il merito di questo positivissimo ciclo è dovuto alla sua professionalità e alle sue capacità. Se lui ha voglia di continuare, noi siamo contenti. […] Non c’è nessuna rivoluzione in corso. Ci incontreremo per ascoltarlo, ripeto che da parte nostra siamo molto fieri e orgogliosi di continuare con lui.
Quest’anno La Beneamata ha registrato il miglior utile della storia del club, senza, per questo, avere vinto nessun titolo. In contraddizione col giuramento di Stephen Zhang – che, in tempi non sospetti, ha detto “schiacceremo tutti, in campo e fuori” – il private equity californiano si crogiola della medaglia d’argento, la seconda in quattro anni. D’altronde, a partecipare al Mondiale per Club sono le sole squadre che più si sono distinte in campo europeo ed internazionale nei quattro anni precedenti. In tal senso, se l’orizzonte temporale di Oaktree è ancora di tre anni, e l’obiettivo è quello di massimizzare l’utile dalla cessione dell’Inter, allora Inzaghi era veramente la migliore opzione possibile:
Dove alleno, aumentano i ricavi, si dimezzano le perdite e si conquistano i trofei.
Nonostante questo, non si tiene conto dei giocatori, che, adesso, sono stanchi, malconci e tremendamente sfiduciati. Sfido chiunque in questa situazione a ritrovare la giusta motivazione per ripartire nella prossima stagione sportiva.
Amor ch’a nullo amato amar perdona
Quella tra Inzaghi e l’Inter è stata una storia d’amore tossico, finita nel peggiore dei modi, con un comunicato preconfezionato ed impersonale. Un addio non dissimile da quello consumatosi con la Lazio quattro anni fa, quando, dopo avere dato la sua parola a Lotito, rifiutò l’offerta dei biancocelesti per sposare l’ambizioso progetto di Beppe Marotta. Progetto che naufragò nell’istante stesso in cui, nel corso della stessa campagna acquisti, dovette salutare in ordine Eriksen, Hakimi, e Lukaku. Il suo atteggiamento da “voltagabbana” alimenta le dietrologie della vulgata, la quale accusa il tecnico di avere provato a portarsi in Arabia sia Barella che Bastoni.
Alla fine, in ossequio alla tradizione giudaico-cristiana, Satana è rappresentato come un demone tentatore ed ingannatore. Tanto più il maligno è sopito quanto meno è aderente alla coscienza umana. È quello che accade ne Il Sosia, dove Goljadkin, pur cercando di mantenere l’immagine immacolata di un eroe senza macchia, perde ogni considerazione da parte degli altri. Inzaghi sembra, quindi, caduto nel Complesso del Messia. Si sente cioè investito di una missione salvifica. Raramente cambia, anche quando la partita lo richiederebbe. Tende a fidarsi più dei meccanismi che ha interiorizzato in allenamento rispetto alla capacità di adattarsi all’imprevisto e di rompere lo spartito – escludendo l’ingresso nei novanta minuti di Frattesi. Lui e talvolta Zalewski sono gli unici a dare vivacità e imprevedibilità alla manovra nerazzurra.
Le sue squadre si fondano su automatismi rodati, l’occupazione degli spazi, un impianto tattico sempre uguale – il 3-5-2 – e il gioco posizionale. L’Inter non ha fatto nulla per evitare la deriva del match in finale. Non ha nemmeno provato a variare e adottare, per esempio, un gioco più verticale rispetto alla solita costruzione dal basso, cifra stilistica inconfondibile del tecnico piacentino.
Ma perché non si è, quindi, deciso di scompaginare gli schemi di gioco? Per quale motivo il Biscione non si è deciso a cambiare pelle? A spiegarcelo è il neoallenatore nerazzurro Cristian Chivu che, intervistato per DAZN, a inizio stagione commenta così l’ultima Inter targata Simone Inzaghi:
Secondo me la propositività che cercano di portare nel gioco questa stagione, attaccando in sette, addirittura otto, il dominio e il controllo di una partita li porta a esporsi di più in transizione. L’anno scorso cercavano più equilibrio, c’era una difesa più bassa, cercando di riaggredire a palla persa. È una scelta dettata dalla fiducia che la squadra ha di sé stessa.
È la naturale evoluzione – o involuzione – di Simone Inzaghi che, complice la superficialità dei vari Barella, Dimarco, e Acerbi, ha errato in protervia, mancando, suo malgrado, di umiltà. Un altro esempio di malvagità demoniaca è il protagonista di Memorie dal Sottosuolo, il quale, pur distaccatosi dalla morale tradizionale, non ha concretato la volontà di potenza. “Il volere umano, molto spesso e anzi il più delle volte si trova assolutamente e cocciutamente in contrasto con il raziocinio”. Se l’uomo d’azione è privo di dubbi, la sua antitesi, cioè l’uomo dominato dalla coscienza, manca di quella stessa determinazione.
Ma dietro a questa retorica si cela un significato più profondo, che affonda le radici nella produzione dostoevskiana. Al pari di Kirillov, il Demone di Piacenza è un uomo tormentato; sopprime la sua umanità per assurgere a Divino: “Dio è il dolore della paura della morte. Chi vincerà il dolore e la paura, quello diverrà Dio”. In altri termini, Inzaghi ha voluto diventare immortale e, per coerenza col proprio – fallace – sistema d’idee, ha scelto di restare fedele alla propria filosofia di gioco.
La finale tra Inter e PSG
All’ingresso in campo, i nerazzurri indossano una giacca nera con l’effige del serpente, pensata per avere un potere apotropaico: scongiurare la cattiva sorte, impaurire gli avversari, ed elevarsi a divino. Fischio d’inizio, il PSG lancia la palla fuori, lontanissima, sulla corsia mancina. Caressa è frastornato, sembra il kick-off di un incontro di football. Barella raccoglie la palla sul punto della rimessa laterale, l’inquadratura stringe su Dembélé. Il francese ha gli occhi iniettati di sangue. Inizia un pressing furibondo, che mette in completo affanno la squadra di Simone Inzaghi. La pressione asfissiante dei parigini, assieme all’ossessiva rotazione delle mezzali e i movimenti sinergici degli attaccanti, obbliga i nerazzurri a rintanarsi nella propria area di rigore.
L’Inter predilige la costruzione dal basso, mentre i transalpini colpiscono soprattutto in transizione, sfruttando il recupero palla per ribaltare rapidamente l’azione e ripartire in contropiede. I meneghini incontrano maggiori difficoltà nel riconquistare il possesso proprio dopo avere perso palla, con un’efficacia pari al 6,94%, sensibilmente inferiore al 10,30% del PSG. Questo aspetto diventa ancora più significativo se si considerano anche le percentuali di recuperi subiti dopo una perdita di palla: la squadra di Simone Inzaghi ne concede 17,96, mentre i parigini si fermano a 10,97. Dopo la partita, parlando a Canal+, Dembélé ha detto:
Ho messo moltissima pressione su Yann Sommer per non lasciargli il tempo di rinviare, così abbiamo recuperato dei palloni.
Delle parole di Mkhitaryan ricordiamo soltanto la frase ad effetto, “siamo ingiocabili”, ma a passare inosservata è la premessa iniziale, “se giochiamo così”. Quel “così” sottintende una prestazione fatta di intensità, organizzazione, e potenza. Senza queste condizioni, l’Inter non è imbattibile. È fisiologico avere dei cali nell’arco di tutta una stagione, specie se si giocano più di sessanta partite all’anno. Del resto, il timore di rimanere a mani vuote era troppo ingombrante, e invece di reagire con orgoglio, la squadra si è persa, come se persino il compromesso di accontentarsi fosse diventato niente più che una croce.
Dalla virtù nasce la bellezza
Un gioco armonioso, incantevole per fluidità, ma instabile e soggetto a cali di ritmo e concentrazione. Inzaghi incarna una bellezza tanto palpabile da rivelarsi nella sua vera, fragile natura. Intrinsecamente effimero nella sua bellezza. In L’Idiota, invece, il Principe Myškin, secondo la tradizione russa dello Jurodivyj, rivela il motivo della bellezza de Il corpo di Cristo morto nella tomba di Hans Holbei.
Il pittore sovverte l’iconografia cristiana cattolica tradizionale, conferendo al Cristo deposto dalla croce – persino nelle più atroci sofferenze – una bellezza angelicata. Il quadro rappresenta la salma di Gesù di Nazaret, costretto nel santo sepolcro, un loculo stretto e basso, quasi soffocante. Ma è davvero possibile fuggire da quella tomba angusta? Abbiamo perso fede nella risurrezione della carne. Allo stesso modo, dopo il 5-0 contro il PSG, il Demone non può risorgere dalle ceneri del suo esercito sconfitto:
Se era quello il corpo (e doveva essere proprio così) che videro i suoi discepoli, soprattutto i suoi futuri apostoli, le donne che lo avevano seguito e assistito vicino alla croce, che credevano in lui e lo adoravano, come potevano essi credere, guardando un cadavere ridotto così, che quel martire sarebbe risorto?
Il più marchiano tra gli errori dell’uomo è pensare che l’amore sia refrattario al dolore. Per quanto mi riguarda, non ho paura di soffrire, non mi spaventa il risultato, non mi toccano nemmeno gli sfottò. L’interista è avvezzo alla sconfitta, noi la vittoria non sappiamo come gestirla. E a chi mi chiede se avrei preferito uscire col Barça o perdere di misura la finale contro il PSG, rispondo: scelgo mille volte di vivere il 5-0. È un ricordo che porterò con me finché avrò fiato in corpo.
Sono fiero di essermi unito ai miei compagni nel cordoglio. Non sono matto, anch’io avrei voluto vincere, festeggiare in Piazza Duomo e presentarmi al lavoro il giorno dopo con qualche ora di sonno in meno. Mi sarebbe piaciuto dirlo a papà che, seppur a stento mi riconosca, è ancora innamorato dell’Inter.
– Abbiamo perso ieri sera.
– Veramente? E di quanto?
– 5-0.
– Contro chi?
– Il Paris Saint-Germain.
– Non conosco.
Come dargli torto, nonostante la malattia è più lucido di tanti esperti di pallone, i quali preferiscono cavalcare l’onta mediatica piuttosto che motivare il perché e il per come negli ultimi quindici anni – dal “gol in fuorigioco di Milito” e dal “fallo di mano di Yaya Touré” – nessuna squadra italiana abbia alzato la Coppa dei Campioni. Perché l’Inter ha fatto vincere il tripletea due clubche non si erano mai aggiudicati una competizione europea in tutta la loro storia, ma ha capitolato contro dei giganti. Due anni fa, dopo la sconfitta contro il Manchester City, Inzaghi diceva:
Il percorso in questa Champions è stato eccezionale, vogliamo tornare in finale e abbiamo le possibilità per farlo. Siamo arrivati al 10 giugno giocando 57 partite, per me è un percorso straordinario. Sono orgoglioso di questi ragazzi perché avrebbero meritato di più.
Le giustificazioni non sono, poi, così diverse, ma i titolari sono per nove-undicesimi gli stessi di allora. C’è da chiedersi se abbia dato più l’Inter a Inzaghi che Inzaghi all’Inter. Secondo Stefano Barigelli per La Gazzetta dello Sport:
Un capo non lascia il gruppo che ha condotto alla sconfitta, ma rimane lì, per riportarlo a vincere. Dire che si è orgogliosi dei propri giocatori è facile, perché è gratis. Più difficile dimostrarlo con i fatti.
La separazione tra Inzaghi e l’Inter è, dunque, inevitabile, l’unica opzione possibile. Che questo legame ormai logoro fosse arrivato al capolinea era evidente da tempo, da settimane se non addirittura da mesi. Pare che i giocatori lo sapessero già da un po’, ma Marotta ha preferito ignorare la cosa, mentendo in primis a sé stesso e poi ai tifosi. O almeno, questa è l’impressione. Nondimeno, al Festival della Serie A il presidente in persona smentisce tutti:
Il calcio è un mondo dove tutto si brucia con velocità estrema, ma martedì noi abbiamo assistito ad una dichiarazione del nostro allenatore, che è stato l’attore principale, il quale ci ha detto ‘Credo di ritenere finito il mio ciclo nell’Inter e preferisco fare una nuova esperienza’. Molti sostengono che ce lo potessimo immaginare, ma non è così, perché l’avvicinamento alla finale ci ha portato a non toccare questo argomento nella settimana precedente. Dico con altrettanta schiettezza che Inzaghi ha preso questa decisione solo il lunedì successivo alla sconfitta col PSG.
L’Inter che verrà
Ci siamo ammalati di malinconia, sedotti da una narrazione posticcia secondo cui l’Inter è – per distacco – la squadra migliore del campionato e una delle principali candidate alla vittoria della Champions League. Nella conferenza stampa di presentazione alla guida del Parma, Cristian Chivu diceva:
Nella mia vita le sfide le ho sempre accettate. Hanno fatto parte del mio modo di essere, la mia motivazione è sempre stata quella. Lo storico dice molto di me, dalla morte di mio padre agli spostamenti fino agli infortuni, anche quello alla testa. Ho le spalle larghe, mi prendo sempre le responsabilità.
La scelta di puntare su di lui è tutt’altro che disavveduta, soprattutto se l’intento della dirigenza è quello di svecchiare la rosa e valorizzare la squadra Primavera, che lui stesso ha allenato fino allo scorso febbraio. Il romeno rappresenta, in fondo, una scommessa, non un ridimensionamento, oltre che l’unica e l’ultima opzione possibile. Come ribadito da Marotta:
C’è l’orgoglio di aver legato un nome storico per l’Inter al ruolo di allenatore. Chivu racchiude tanti valori che sono fondamentali per raggiungere anche gli obiettivi sportivi. Quindi siamo assolutamente orgogliosi, soddisfatti e felici. Siamo orgogliosi, soddisfatti e felici.
Non rimane che aspettare l’inizio del Mondiale per Club. Il mister ha detto che l’obiettivo è arrivare in fondo alla competizione. Una tragedia dal copione già scritto. L’Agamennone, primo atto della trilogia dell’Orestea: lo spettacolo della colpa. Ma io sono un interista cronico, un passionale, un masochista. Voglio sperimentare ogni forma di sofferenza e di follia.