Intervista a Giacomo Modica, allievo di Zeman alla conquista di Malta

Giacomo Modica è andato a Malta per allenenare l'Ħamrun Spartans nel solco del maestro Zeman.

Nato a Mazara del Vallo nel 1964, Giacomo Modica ha alle spalle più di quarant’anni nel mondo del calcio, prima da giocatore e poi da allenatore. Per molti è ricordato come collaboratore storico di Zeman, per altri come protagonista recente nelle serie minori italiane. Negli ultimi mesi, però, si è messo in mostra per aver scritto il suo nome nella storia del movimento calcistico di Malta grazie all’impresa compiuta alla guida dell’Ħamrun Spartans, che sotto la sua direzione ha raggiunto la League Phase della Conference League diventando la prima squadra maltese nella storia ad arrivare a disputare la fase finale di una coppa europea.

Lo abbiamo intervistato dopo l’esordio in Conference League, una sconfitta onorevole per 1-0 sul campo dei polacchi dello Jagiellonia. Una piacevole chiacchierata, spaziando tra la sua carriera, le emozioni europee, il livello raggiunto a Malta e tanto altro.

Intervista a Giacomo Modica

Partiamo dalla sua carriera. Lei è conosciuto anche per essere stato un collaboratore di Zeman con Fenerbahce, Napoli, Salernitana, Avellino, Roma e Cagliari. Ci parli dell’influenza che ha avuto sulla sua carriera e sul suo modo di allenare.

Mi fate tutti questa domanda. L’influenza è positiva: è quella di una scuola di pensiero, dell’uomo, del tecnico, dell’amicizia, del legame con lo staff e con i giocatori. Parte tutto da quando avevo 16 anni: lui mi volle nella Primavera del Palermo dopo avermi visto in una rappresentativa siciliana, perché io a 14 anni giocavo nel settore giovanile del Trapani. Lui era in quello del Palermo, gli hanno dato la Primavera e mi ha preso grazie alle prestazioni mostrate nella selezione, dunque il nostro percorso nasce da lì. Grazie a Dio che l’ho incontrato e abbiamo rafforzato un legame di grande stima e amicizia. Ho appreso molto da lui: tutti gli altri allenatori mi hanno dato qualcosa quando giocavo, ma lui per me è stato il top da seguire per metodologia e senso del lavoro ma soprattutto per conoscenza di questo mondo.

Penso che negli anni Novanta lui e Sacchi abbiano cambiato il calcio, dunque io ho avuto il privilegio di far parte di questo cambiamento prima come giocatore e poi come membro del suo staff. Mi piace pensare che il boemo mi abbia non dico cambiato ma affinato per quello che era il nostro lavoro, dandomi quei concetti basilari e importanti che sono la conoscenza tattica, il modo di allenare, il rapporto con il pallone. Soprattutto, mi ha fornito una conoscenza dello spogliatoio non solo dal punto di vista del giocatore. Grazie a lui so cosa sia l’autorità e l’autorevolezza di un tecnico, che cosa sia il rispetto verso i giocatori e quello dei giocatori verso di te, il rispetto del ruolo.

Cosa si porta di positivo e di negativo delle avventure nelle serie minori italiane, specialmente nel Sud, che ha affrontato negli ultimi anni?

Tanto, perché purtroppo quel mondo è una giungla vivente: problemi su problemi che conoscono tutti e si fa finta di non vedere mai, non capisco perché. Basti pensare a quello che è successo al Taranto l’anno scorso. Ci sono varie criticità: tutti vorrebbero partire per ottimizzare economicamente, però poi vogliono i risultati e dopo tre partite ti cacciano. E parlano di programmazione. Così è difficile, la programmazione dovrebbe significare concedere almeno sei mesi di tempo. Non tre settimane.

Ora parliamo della sua avventura a Malta, analizzando le ragioni che l’hanno spinta ad accettare questa nuova sfida. Aveva già in mente da tempo di allenare all’estero?

Io ero già stato in Turchia con Zeman e per quanto fascinosa fosse la Turchia – soprattutto Istanbul, meravigliosa – era stata una parentesi fine a sé stessa, perché poi abbiamo avuto la fortuna di muoverci, da soli o con Zeman, sempre in Italia. Quindi era una cosa che onestamente mi intrigava poco: ho sempre preferito cercare di poter dare un mio contributo al nostro movimento e al nostro Paese. Mi piaceva pensare che negli anni potesse cambiare in meglio qualcosa e potesse essere tutto un po’ più meritocratico.

Poi quando si è presentata questa occasione l’ho valutata, ne ho parlato un po’ e ho pensato che dopo il terremoto societario che ho vissuto a Messina forse era meglio cambiare un po’ aria, così mi hanno convinto. Un elemento importante era che avrei potuto disputare almeno la prima fase delle coppe europee, perché noi abbiamo fatto i preliminari di Champions League, poi di Europa League e poi di Conference League.

Avevo così la possibilità di smentire chi, in Italia, mi diceva “è bravo, ha idee, le sue squadre hanno un’identità riconoscibile, ma preferiamo un allenatore giovane”. Ma io dico: tu devi prendere i giocatori giovani, non gli allenatori. Se sono bravo, le mie squadre hanno una loro identità, non ho l’Alzheimer, ho appena sessant’anni e ho alle spalle un enorme bagaglio: perché volete un allenatore giovane? Non posso sentirmi vecchio a sessant’anni. Piuttosto sono più ricco di esperienze e di campionati disputati rispetto a tanti altri, e questo potrà aiutarmi.

Come sta trovando la vita a Malta e il livello del campionato nazionale?

Il tenore di vita è buono: io sono un siciliano, quindi climaticamente siamo molto vicini. Questo è importante così almeno non prendo tanto freddo, perché poi le ossa… (ride, ndr). Il clima è molto buono, così come anche la qualità del cibo e della vita. Per quanto riguarda il calcio, invece, questa è la loro massima serie, ma il livello è ovviamente più basso rispetto alla nostra Serie A. Il movimento è alla ricerca di migliorie costanti: ho visto dei posti bellissimi come la struttura, meravigliosa, della nazionale maltese con quattro campi da gioco. L’unico problema è che non si fanno le trasferte, essendo tutto concentrato in un territorio molto piccolo.

Il calcio maltese è ancora in fase di sviluppo e penso che con la nostra qualificazione in Conference League si sia anche aperto qualche nuovo scenario: prima, all’Ħamrun, i giocatori volevano venire solo per soldi, mentre da quando ci siamo qualificati c’è stato l’inferno per venire da noi. Bisogna anche capire che non è un contesto in cui non valga la pena giocare: qui la qualità è tutto sommato di una bassa Serie B italiana o di un’alta Serie C. Nella peggiore delle ipotesi di una bassa Serie C, almeno per ciò che ho visto io.

La sua squadra comprende alcuni giocatori con un passato a buoni livelli come Ante Ćorić, N’Dri Koffi e Stijn Meijer e vari giocatori di provenienza internazionale: brasiliani, serbi, lituani, belgi, svizzeri, bosniaci, italiani e così via. Ha avuto delle difficoltà a rapportarsi con una rosa così varia?

Ho avuto un po’ di difficoltà perché non avevo tutta questa dimestichezza dell’inglese, che ora sto imparando strada facendo. Sono stato agevolato e aiutato dai tanti giocatori che parlano italiano: mi aiutavano e continuano ad aiutarmi spiegando velocemente agli altri ciò che dico sia nello spogliatoio che in campo. Tra l’altro le questioni calcistiche iniziano anche ad assumere una certa ripetitività, perché ora sono quattro mesi di lavoro e perciò diventa sempre più facile spiegarsi.

Già a luglio consideravate la qualificazione alla fase finale di una coppa europea un obiettivo realistico?

Beh, sì: poter entrare in Champions League era un sogno, ma per quella che è la competitività e in generale il percorso di Malta non siamo ancora pronti per la Champions League o per l’Europa League. Per la Conference League però sì, quindi qualificarsi alla fase finale era per noi un obiettivo prioritario. Abbiamo sognato di poter fare qualcosa di straordinario tra Champions League ed Europa League, e con un pizzico di fortuna avremmo anche potuto sperarci, ma il livello era troppo più alto. Avevamo fatto delle cose molto buone, ma era tutto basato più sulla fortuna che sul lato tecnico, mentre ora in Conference è pari alle avversarie che abbiamo incontrato. Oltre ai nomi che hai fatto tu io ho anche tre importanti nazionali maltesi in rosa, che sono il portiere Bonello, Camenzuli e Mbong: la mia è una buona squadra, che in Italia potrebbe fare una Serie B di alta classifica.

Quali sono stati i momenti più emozionanti delle otto partite di turni preliminari che avete giocato?

Tutti sono stati emozionanti, perché sono sensazioni che abbiamo vissuto quotidianamente e costantemente. Penso alla prima serie di rigori: al primo turno di Champions League avevamo perso 2-0 in Lituania contro lo Žalgiris, poi a Malta abbiamo vinto 2-0 e siamo arrivati ai rigori, quando ne sono stati tirati in totale 28: una serie infinita dopo che ci avevano annullato due gol, uno al VAR e uno per fuorigioco. Era una qualificazione che sembrava si fosse incanalata nel binario giusto nell’arco dei 90 o 180 minuti, però così non è stato e quindi siamo arrivati ai rigori. Lì avevamo anche avuto la possibilità di chiuderla prima perché loro avevano sbagliato l’ultimo rigore, ma dopo anche noi abbiamo sbagliato il nostro e quindi è stato come se fosse ricominciato tutto da zero.

Queste sono palpitazioni ancora più che emozioni, prove dure al cuore: quando va bene, però, il cuore inizia a gioire e ad accelerare. Lì la prima cosa bella è stata aver ribaltato il risultato dell’andata. Poi al secondo turno di Champions League abbiamo affrontato una squadra blasonatissima come la Dinamo Kiev: avevamo fatto molto bene in casa, poi abbiamo pagato il ritorno perché la loro qualità era molto più alta. Siamo quindi entrati in Europa League e abbiamo affrontato il Maccabi Tel Aviv con coraggio: in casa avremmo potuto andare sul 3-0 ma abbiamo perso 1-2 al 96’ per un errore nostro, quindi al ritorno abbiamo dovuto interpretare diversamente la partita e sono state messe in evidenza le nostre difficoltà.

Avendo passato il primo turno di Champions League, però, ci eravamo comunque guadagnati il diritto di fare i playoff per la Conference League, quindi è stata tutta un’esperienza costante e adrenalinica, anche perché nel frattempo era partito il campionato e quindi siamo stati sempre in movimento. È stato tutto molto intenso, ma anche bello da vivere.

Il 2-2 in Lettonia contro il Rigas, valso la storica qualificazione alla fase finale di Conference League

Ci parli dell’esordio europeo a Białystok: come giudica la prestazione della squadra?

Ottima. Anche quella è stata una grande serata da vivere, perché giocavamo contro lo Jagiellonia, che l’anno scorso era stato eliminato ai quarti di finale e che ha un pubblico meraviglioso e uno stadio bellissimo. Non puoi sapere cosa succede perché è la prima volta che ci presentiamo nei gironi. Arrivi e c’è la curiosità di capire come potrà andare questa prima gara. Nonostante la sconfitta sono contento, perché c’è da essere contenti quando vedi una squadra unita, sul pezzo, che ha costruito, che crea sei palle gol, che al 90’ si vede negare un rigore che sarebbe stato da dare, perché Meijer è stato toccato e l’arbitro non ha dato il rigore. Non si può non andare neanche al VAR per un contatto dal genere al 90’: magari abbiamo pagato il prezzo di essere una piccola realtà o forse lo ha semplicemente letto così, ma in quel caso lo ha letto male.

In ogni caso ci sono stati dei numeri relativi a questa gara che ci hanno detto che questa è la strada giusta: per la compattezza, le giocate e la costruzione non potevo chiedere di più. Siamo tornati a casa con 0 punti, ma questo fa parte del gioco. Se giocheremo sempre così, a mio parere non ne perderemo tante, perché per tutti i 90 minuti abbiamo giocato una bella gara che tra l’altro ci ha anche dato una maggiore esperienza in Europa. Siamo contenti, dai.

Che obiettivi vi ponete per quest’anno tra campionato e Conference League?

Non lo so, intanto dobbiamo vivere fino in fondo questo viaggio in Conference League.

Ci proveremo, però farlo per la prima volta significa indubbiamente pagare l’inesperienza. In campionato siamo una buona squadra e possiamo fare molto bene. Il problema è che se giochi cinque partite in dieci giorni perché hai anche la coppa e non ti spostano le date diventa un problema. Qua si parla di esseri umani, non di macchine: dopo la trasferta di Białystok siamo arrivati il venerdì mattina alle 5.45 e la domenica abbiamo giocato, non è prevalso il buon senso di spostare la partita.

Voi avevate fatto richiesta per spostarla?

L’avevamo chiesto, sì. Avrebbero potuto rinviarla a data da destinarsi, non sarebbe stato un problema. Per la federazione dovremmo essere un orgoglio: non siamo stati fuori per capriccio, ma perché abbiamo avuto la fortuna e la bravura di essere entrati in una coppa europea, dove abbiamo dato luce anche a Malta e ai maltesi, oltre che oltre che a noi, alla proprietà e ai tifosi. Siamo, nel nostro contesto, come Juventus, Inter o Milan in Italia e sotto questo punto di vista possiamo dare fastidio: sarà che abbiamo una società molto buona. Apparentemente sembra che siamo tutti amici, poi però nei fatti non si vede.

Come sta trovando Malta dal punto di vista delle tifoserie, la vostra e quella di altri?

La nostra è fantastica: in Champions League, Europa League e Conference League avevamo sempre 250 spettatori al seguito anche all’estero. In Polonia saranno stati 120 o150, che non è roba da poco anche considerando la distanza. L’ambiente è molto caloroso e la tifoseria si fa sentire. Siamo felici anche di questo: abbiamo dei supporters, come li chiamano qua, importanti, che vivono per la squadra. C’è una forte simbiosi: negli ultimi anni il presidente Portelli ha fatto cose straordinarie, perché negli ultimi cinque anni ha vinto quattro volte il titolo nazionale. Lui è amatissimo ed è una persona rispettabilissima, è adorato dalla gente, che a sua volta è ricambiata. Tra noi e la tifoseria c’è un bellissimo clima.

Ha in mente di continuare all’estero anche una volta terminata questa avventura o di tornare in Italia?

Non saprei, le vie del Signore sono infinite. L’Italia è sempre l’Italia: è la mia casa e la mia terra, e se qualcuno potrà pensare che io possa essere d’aiuto ne potremo parlare. Arriveranno offerte? Chi lo sa.

Magari questa esperienza le porterà più visibilità.

Ma io non ho bisogno di farmi conoscere: tra gli anni con Zeman e quelli da primo allenatore alleno dal 2000, sono la bellezza di 25 anni. Non devo venire a Malta per farmi conoscere, perché chi vuole mi conosce anche senza venirmi a vedere qua. Non ero un altro tre mesi fa: sono lo stesso, magari con un inglese migliore.

Qual è stato il momento più bello della sua carriera, tra calcio giocato e panchina?

Ne ho tanti: l’esordio in Serie B con il Palermo a 16 anni contro la Cavese, le due promozioni su due a Terni tra C2 e C1 dal 1996 al 1998, poi quando sempre in rosanero nel 1991 siamo stati promossi in Serie B e c’erano 40.000 persone allo stadio. Queste sono state belle emozioni, toste ma positive. Ci sono state anche emozioni negative, come la retrocessione in C a Palermo all’ultima giornata nel 1992 per un gol di differenza nella classifica avulsa. O anche ad Ancona, città in cui mi trovai benissimo, quando nel 1996 retrocedemmo in Serie C all’ultima giornata. Queste sono mazzate.

Ho anche avuto il piacere di aver giocato con Del Piero a Padova, l’anno prima che andasse alla Juventus. Quell’anno c’erano anche Di Livio, Galderisi e Bonaiuti. Ho anche giocato con Schillaci a Messina. Per quanto riguarda la carriera da allenatore, invece, beh… io ho lavorato con Totti. Quell’anno nella Roma c’erano lui, De Rossi Osvaldo, Pjanić, Lamela, Marquinhos, Romagnoli. Poi a Cagliari ho avuto Daniele Conti, che è un’istituzione. Mentre a Napoli avevamo Amoruso, Stellone e qualche straniero buono come Quiroga. Insomma, qualche giocatore bravo lo abbiamo toccato: non siamo i pivellini di turno.

Totti è stato il migliore di tutti, immagino.

Totti è fuori concorso. È uno che ha gli occhi davanti e dietro la testa, vede tutto mezz’ora prima. Una poesia calcistica. Tra quelli con cui ho giocato invece cito Del Piero, che già a 18 anni si vedeva fosse un talento straordinario. E infatti lo prese la Juventus e da lì diventò un giocatore conosciuto in tutto il mondo, ma faccio anche il nome del mio più grande compagno di squadra, che purtroppo si è perso per strada: Maurizio Schillaci. Senza offesa per nessuno, è stato il più forte con cui ho giocato. Faceva cose che per gli altri erano impensabili.

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