Pensando al prototipo dell’attaccante moderno, a molti di voi verrà probabilmente in mente il nome di Erling Haaland. Nella scorsa stagione il norvegese ha superato il record di Alan Shearer ed Andy Cole di 34 reti messe a segno in una singola stagione di Premier League. Un primato abbattuto a soli 23 anni e al debutto nel massimo campionato inglese. Un atleta dal fisico formidabile, quasi due metri di altezza per 95 kg di muscoli e tecnica, unito ad un grande fiuto del gol. Il classico centravanti di stampo scandinavo, combattivo quando deve difendere e dotato di una progressione dalla potenza straripante in conduzione di palla.

Non molti anni fa però, c’è stato un momento durante il quale il ruolo dell’attaccante moderno per eccellenza lo ha rivestito un ragazzo cresciuto nelle favelas di Rio de Janeiro. Più precisamente alla Rocinha, nella zona sud della città, la favela più grande del mondo con i suoi quasi 100mila abitanti. Un luogo dove le gang del narcotraffico si danno continuamente battaglia, dove si impara ad apprezzare quello che si ha – spesso non molto – e dove capita di vivere alla giornata. Non necessariamente qualcosa di negativo: chi cresce in queste realtà infatti, matura in mezzo alla propria gente, all’interno di una comunità.

La nostra storia racconta la vita di Adriano Leite Ribeiro, ex calciatore di Inter, Roma, Parma e Fiorentina. Dall’infanzia nelle favelas fino al successo che lo ha portato, per un periodo, ai vertici del calcio mondiale. Uno dei centravanti più forti dei primi anni 2000, un attaccante che per quasi due anni è stato il migliore al mondo, prima di imbattersi in una rovinosa parabola discendente. Un calciatore che ha una storia da raccontare, che ha vissuto così tanto da essere vittima dei propri demoni.

 

Un sogno forgiato nella favela

 

La Rocinha è un grande quartiere situato tra Gàvea e Sao Conrado, due distretti residenziali tra i più ricchi del sud di Rio de Janeiro. In mezzo a ristoranti di classe e locali notturni si trova la più grande baraccopoli del paese. È un luogo colorato, pieno di piccole vie affollate all’inverosimile, dove le condizioni igieniche sono precarie e la grande umidità, unita alla enorme densità della popolazione, favorisce un alto tasso di diffusione di malattie come la tubercolosi. Alla Rocinha le case sono tutte abusive, molte sono costruite in amianto e contengono un unico ambiente nel quale si raduna tutta la famiglia. La zona è tristemente nota per essere un centro nevralgico per il commercio di cocaina e marijuana. Per questo, episodi di violenza urbana, anche da parte di giovanissimi, sono all’ordine del giorno. Da un lato, ci sono le forze dell’ordine a contrastare le gang del narcotraffico, dall’altro sono gli stessi malviventi a dover reprimere gli agguati della polizia. Una situazione drammatica in cui non esiste distinzione tra buoni e cattivi.

Quando ripenso a come sono cresciuto nella favela, a dire il vero penso a quanto ci siamo divertiti. Penso agli aquiloni, alle trottole e a quando giocavamo a pallone nel vicolo. Un’infanzia vera, non questo ta ta ta del cazzo sugli schermi che fanno i bambini di adesso.

In un’intervista alla piattaforma multimediale The Players’ Tribune, Adriano afferma che chi non ha vissuto nella favela non è in grado di capire. Non è in grado di accorgersi del dramma di intere famiglie che vivono in uno stato di assoluta povertà, non è in grado di percepire l’equilibrio instabile su cui si fonda una comunità nella quale i più giovani sono spesso vittime e carnefici di loro stessi. Per riuscire a rimanere fuori da brutti giri e cattive conoscenze, serve avere alle spalle una famiglia solida. Ed è, per fortuna, il caso del nostro protagonista.

 

Nonna Wanda e la Escolinha

Adriano Leite Ribeiro nasce a Rio de Janeiro il 17 febbraio 1982 da papà Almir e mamma Rosilda. L’infanzia di Adriano è caratterizzata dalla forte presenza dei nonni e in particolare di nonna Wanda, che diventa di fatto il suo primo allenatore. Sì, perché a 7 anni, con un grande sacrificio economico, la famiglia decide di iscrivere il piccolo alla scuola calcio del Flamengo, la Escolinha. Ad accompagnare il ragazzo durante il lungo tragitto in autobus fino a Gàvea è proprio nonna Wanda, la quale non fa mancare il suo entusiasmo durante gli allenamenti. “Passatela ad Adirano”, dice agli altri bambini storpiando il nome del nipote. E poi i rimproveri tattici durante il viaggio di ritorno: Quando te l’hanno passata al limite, dovevi tirare prima”. Adri non sa rispondere a quella ramanzina, una strigliata precisa e puntuale prima delle sostanziose merende a base di popcorn, pane e zucchero.

Il ragazzo negli anni cresce più degli altri bambini, diventa visibilmente più alto di tutti i suoi compagni e sui campi del settore giovanile sfodera da subito un potente sinistro che diventerà il suo marchio di fabbrica. A 10 anni il passaggio alla squadra di futsal, tappa decisiva per affinare la tecnica e i movimenti. Un traguardo anche dal punto di vista economico, perché le spese per i giocatori della squadra vengono sostenute direttamente dal Flamengo, permettendo così ad Adriano di non gravare più sul bilancio famigliare.

 

Gli inizi al Flamengo

Se vivi in una favela, devi abituarti il prima possibile alla violenza. Non c’è molto tempo per vivere da bambini spensierati: anche se sei piccolo devi pensare da adulto. D’altronde agguati, rapine e traffico di droga, sono tristemente parte del quotidiano alla Rocinha. Adriano pur avendo solo 10 anni è già maturo per la sua età, sia nel fisico che nel carattere, ma ecco che accade un evento traumatico che lo costringe, suo malgrado, a crescere ancora più in fretta di quanto già stesse facendo, ad abituarsi a pensare da adulto. Tre colpi di pistola colpiscono suo padre Almir in testa. Tre pallottole vaganti in una sparatoria tra le bande del narcotraffico. Dopo un lungo intervento, durante il quale i medici decidono di non estrarre il proiettile conficcato nel cranio, il padre di Adriano, lentamente, si riprende e di quel giorno rimane soltanto una lunga e spessa cicatrice.

Un segno indelebile che fa breccia anche nel carattere del figlio, che forse proprio in quel frangente comprende di voler investire nel calcio tutto ciò che la natura gli ha donato: un fisico perfetto ed un sinistro magico, allo stesso tempo capace di accarezzare il pallone e di maltrattarlo, scagliando potenti bordate. Un diamante grezzo da forgiare dal punto di vista tecnico, ma con tutte le carte in regola per diventare un fuoriclasse. E pensare che all’età di 15 anni, il Flamengo era in procinto di scartarlo. Fino a quel momento, aveva sempre giocato da terzino sinistro per via dell’altezza e della forza fisica, ma la fase difensiva lasciava troppo a desiderare. Si decise, allora, di provarlo in attacco e da quella posizione nessuno sarà più in grado di spostarlo.

 

Predestinazione, amore e passione

A 17 anni comincia ad allenarsi con la prima squadra e molti, tra gli addetti ai lavori, si accorgono del suo enorme potenziale. Il primo a crederci davvero è Paulo César Carpegiani, allenatore del Mengão agli inizi del 2000. La partita è San Paolo-Flamengo, grande classico del calcio verdeoro, gara valida per il torneo Rio-San Paolo, una competizione ormai scomparsa che nelle sue ultime edizioni dava alla squadra vincitrice l’opportunità di rappresentare il Brasile nella Copa Libertadores. Alla fine del primo tempo la formazione carioca si trova sotto per 2-1.

Al rientro dagli spogliatoi, Carpegiani fa entrare la maglia rossonera numero 14. È il momento di Adriano. I tifosi urubu, gli avvoltoi, soprannome coniato dalla mascotte del club, stanno intonando il loro canto più famoso “Raça, amor e paixão”– competizione, amore e passione. Dovranno interromperlo dopo circa 30 secondi, per lasciare spazio ad un liberatorio grido di gioia. Il primo pallone toccato da Adriano viene trasformato in gol. Un mancino esplosivo dal lato corto dell’area di rigore che lascia impietrito il portiere del San Paolo Rogerio Ceni. Poi un assist, nel finale, per il definitivo 5-2 a favore del Flamengo.

Il primo gol in carriera tra i professionisti rivela già parecchio di quello che sarà Adriano negli anni a venire

 

L’allenatore che gli permette di spiccare il volo definitivo verso l’Europa, un volo che, come vedremo, sarà di andata e ritorno, è il tre volte campione del mondo Mario Zagallo, alla sua ultima stagione in panchina prima del ritiro. “Attento, perché io di talenti che si sono bruciati ne ho conosciuti tanti” – è il mantra che ripete alle orecchie del giovane in ogni momento possibile. Una sorta di benedizione, perché Adriano, un 18enne che abita ancora nella favela insieme alla famiglia, riceve la convocazione per giocare nella Seleçao, la nazionale brasiliana. Il mondo del calcio ha scoperto una nuova stella: si spalancano le porte dell’Europa. Una carriera che lo porterà a calcare i campi dalla Serie A accettando la chiamata dell’Inter, squadra per la quale da lì a breve tempo sarebbe diventato L’Imperatore.

 

L’Imperatore a Milano

Il trasferimento in nerazzurro arriva nella stagione 2001-2002. Nel precampionato ha modo di mettersi in mostra nei minuti finali di un’amichevole contro il Real Madrid. Viene fischiato un calcio di punizione dal limite in favore dell’Inter, proprio a seguito di un dribbling di Adriano. Per la battuta si avvicina Marco Materazzi. Avete presente quando si dice “buona la prima?”. Il brasiliano dimostra di avere un certo feeling con gli esordi, d’altronde in quel momento si sta divertendo come un bambino. Prova così a fare qualche passo in direzione del pallone, ma è l’ultimo arrivato e non si azzarda ad insistere con il difensore veterano, che sta per calciare. In quel momento sopraggiunge però Seedorf, guarda il compagno di squadra e gli dice: “Lascia battere il ragazzino, la punizione l’ha conquistata lui”. Nessuno poteva contraddire Seedorf. Tira Adriano. Un missile terra-aria a 139 km/h che entra in porta, appena sotto la traversa, prima di rimbalzare quasi fino a metà area di rigore. Niente male come biglietto da visita.

 

Per attendere il primo gol ufficiale, decisamente meno spettacolare ma sicuramente più importante, bisogna aspettare la terza giornata di campionato, il 16 settembre 2001. L’Inter gioca con lo sponsor coperto da un adesivo nero in segno di rispetto per la tragedia del World Trade Center, il crollo delle Torri Gemelle, avvenuto soltanto 5 giorni prima. Il cronometro quasi lambisce il quarto minuto di recupero quando Adriano insacca la prima rete della sua carriera in Serie A: respinta corta del portiere del Venezia e tap-in vincente da posizione defilata che regala all’Inter una vittoria insperata per 2-1. L’attaccante impressiona, ha coraggio e sfrontatezza, i grandi colpi si intravedono ma il tecnico interista Hector Cuper, el Hombre Vertical, gli riserva un minutaggio esiguo. E come biasimarlo, considerando che i suoi attaccanti titolari sono Vieri e Ronaldo.

Un Roberto Scarpini fuori controllo, esulta così al primo gol in Serie A dell’Imperatore 

 

La Serie A scopre l’Imperatore

A gennaio viene quindi ceduto in prestito alla Fiorentina. Con i toscani realizza 6 gol in 15 presenze, un bottino soddisfacente che però non basta ad evitare la retrocessione della squadra viola. Un esito infelice che gli permette, ironia della sorte, di evitare la delusione del 5 maggio 2002 e dello Scudetto perso dalla sua Inter all’ultima giornata. Rientrato dal prestito, alla finestra c’è il Parma di Cesare Prandelli, squadra in completa ricostruzione: il brasiliano sbarca in Emilia con la formula della compartecipazione tra la società ducale e l’Inter, insieme ad un altro grande talento ex nerazzurro, il rumeno Adrian Mutu. La nuova coppia del gol fa girare la testa a tutte le difese italiane, segnano 39 reti complessive tra campionato e coppe, portando gli emiliani al quinto posto con la qualificazione per la Coppa UEFA.

 

E se Mutu, dopo una sola stagione con la maglia gialloblù, cede al fascino del Chelsea del magnate Roman Abramovich, Adriano decide di rimanere nella città ducale. Nonostante un infortunio che lo tiene ai box per diverse partite, mette a segno 8 centri in 9 gare nella prima di parte di campionato, quanto basta per convincere l’Inter a richiamarlo in anticipo. I nerazzurri del presidente Moratti mettono sul piatto 23 milioni di euro per acquisire la proprietà completa del cartellino e portare il brasiliano sotto la Madonnina per il girone di ritorno. Adriano non delude le attese, dimostra di essere all’altezza realizzando altri 9 gol in 16 presenze. Cominciano a chiamarlo L’Imperatore, con tanto di articolo davanti, per richiamare l’omonimo regnante romano amante della bellezza e del classicismo greco, capace di imprimere un’impronta significativa e duratura nel panorama artistico dell’impero. Una favola talmente bella da non sembrare vera. Dalle favelas al trono del calcio mondiale. Proprio da quelle favelas, nel mentre, Adriano è riuscito a portare via la famiglia: un bell’appartamento a Rio de Janeiro, da dove, di tanto in tanto, i suoi famigliari prendono un aereo destinazione Milano per vederlo giocare.

 

Gli anni d’oro del grande Adriano

La stagione 2004-2005 è la prima disputata per intero con la maglia dell’Inter. Sotto la gestione di Roberto Mancini il brasiliano compie gli ultimi passi per la definitiva consacrazione. 16 gol in campionato e 7 in Champions, numeri impreziositi da una doppietta nella finale di Coppa Italia che regala ai nerazzurri il quarto successo nella competizione. Indimenticabile la rete ai danni dell’Udinese che gli vede compiere tre quarti di campo palla al piede, con la difesa avversaria totalmente annichilita dalla prepotente progressione. La voce di Fabio Caressa esclama:È diventato verde come Hulk”.

 

Che lo si chiami Imperatore oppure Hulk, la sostanza non cambia. Di Adriano, ciò che balza agli occhi è lo strapotere fisico. Una corazza all’apparenza indistruttibile, con tanti, troppi demoni al suo interno. Si perché fino ad ora la nostra storia è stata tante luci e pochissime ombre: purtroppo il resto della vita di questo ragazzo dirà il contrario. Per cercare di capirlo, dobbiamo fare un passo indietro. 25 luglio 2004, il giorno più bello per la carriera dell’Imperatore.

 

La partita della vita

Si gioca la finale di Copa America tra Brasile e Argentina. Non una semplice partita, La Partita. Adriano in quel momento è uno dei migliori al mondo, forse il migliore. Nella fase a gironi ha segnato una tripletta alla Costa Rica, quindi una doppietta contro il Messico ai quarti ed una rete all’Uruguay in semifinale. È il protagonista assoluto della competizione. Di fronte, però, non esattamente una squadra agevole: è l’Argentina di Javier Zanetti, compagno dell’Imperatore all’Inter, poi Mascherano, Kily Gonzalez, Carlos Tevez. Per la nazionale verdeoro ci sono invece Julio Cesar in porta, Maicon, Luis Fabiano detto O Fabuloso e, appunto, Adriano.

Al 20esimo è un calcio di rigore di Kily ad aprire le marcature, con il pareggio verdeoro che arriva appena prima dell’intervallo, un’incornata precisa di Luisao sugli sviluppi di un calcio di punizione. La gara rimane in perfetto equilibrio fino al minuto 87, quando un bel tiro a mezz’altezza scagliato da Cesar Delgado, detto El Chelito, sembra dare al Brasile il colpo del KO. 2-1 Argentina. Ma il calcio ancora non ha posato la penna e continua a scrivere la storia.

Ultima azione del recupero. Lancio dalla trequarti alla disperata, mischia furibonda con giocatori che sgomitano da una parte e dall’altra, un pallone che rimane fermo per un istante. Adriano si prende anche il tempo di addomesticarlo con il mancino, di alzare la sfera quanto basta prima di girarsi, chiudere gli occhi e tirare in porta, potente e preciso, quanto basta per portare il Brasile ai supplementari. La partita non si sblocca fino ai calci di rigore e per la Seleçao l’esito è dolcissimo. L’Argentina va subito sotto per gli errori dal dischetto di D’Alessandro e Heinze. Il rigore decisivo lo tira Juan, Adriano il suo lo ha già segnato. Per il Brasile è la quarta Copa America. Per L’Imperatore è l’apice del successo. Viene addirittura scelto dalla Konami come uomo copertina di Pro Evolution Soccer 6. È il momento in cui si sente davvero grato al dio del calcio per avergli donato la fortuna di poter giocare allo sport più bello del mondo.

 

Un Impero spezzato da un infarto

Nove giorni dopo, il 4 agosto 2004, accade qualcosa che cambia per sempre la vita del ragazzo della Rocinha. L’Inter sta compiendo il viaggio di ritorno da Bari, dove si è appena giocato il trofeo Birra Moretti. Arriva una chiamata dal Brasile. Il padre di Adriano, Almir, è stato trovato senza vita nell’appartamento di Rio de Janeiro, stroncato da un infarto a soli 44 anni. Dal paradiso all’inferno: un lutto devastante che comincia ad alimentare quei demoni interiori che lo faranno chiudere progressivamente in sé stesso, fino a una logorante depressione. È uno degli stati dell’animo più difficili da descrivere: una delle letture più immediate è quella dello scrittore Andrew Solomon, “la crepa dell’amore”. Una lunga cicatrice, come quella che aveva accompagnato Almir per dodici anni della sua vita, con un proiettile nel cranio. Questa volta il solco è più profondo, una ferita nell’anima di Adriano, un taglio che distrugge perfino l’armatura di quel fisico così possente.

Il regno dell’imperatore comincia a sgretolarsi. L’amore per il calcio non è più lo stesso. Se c’è una caratteristica della depressione è proprio quella di essere incapaci di amare. Il nostro protagonista commette il più classico degli errori, rifugiandosi nell’alcool. Gli effetti del lutto e della malattia prendono sempre più il largo, soprattutto a lungo termine. Adriano segna sempre meno, complice anche l’arrivo di Ibrahimovic che gli soffia il posto. Beve molto, ha poca voglia di allenarsi, si inventa anche qualche infortunio. Frequenta locali notturni e discoteche, si lascia con la fidanzata quando è in attesa del primo figlio. Nel 2007 è addirittura attore principale di una rissa in discoteca. Circolano foto in compagnia di belle ragazze e qualcuno lo accusa addirittura di essere un drogato.

 

L’epilogo

Per Adriano è troppo, una situazione che non sa più reggere. Viene ceduto per sei mesi in prestito gratuito al San Paolo: l’aria di casa gli restituisce il gusto del gol ed una accettabile forma fisica. Quando rientra a Milano, agli inizi della stagione 2008-2009, l’Inter è sotto la guida di Josè Mourinho. Nonostante gli apprezzamenti del tecnico lusitano, il loro rapporto umano non decolla mai, soprattutto a causa della mancanza di disciplina del centravanti brasiliano, ancora alle prese con i problemi con l’alcool. Nell’aprile del 2009 arriva la rescissione definitiva con l’Inter. L’Imperatore è stato deposto, la stampa parla di saudade, la nostalgia di casa, ma in realtà c’è molto di più. Decide, dunque, di acquistare quel biglietto di ritorno, di rientrare dove tutto è cominciato, fra la sua gente, con la maglia del Flamengo.

 

In Brasile torna a star bene, vince addirittura la classifica cannonieri, riprende fiducia in sé stesso e nei propri mezzi. Tanto che nell’estate del 2010 cede all’offerta della Roma, nel tentativo di tornare grande proprio nella città degli imperatori. Adriano ci riprova ma è solo un flebile barlume che si spegne in fretta. Colleziona solamente 8 presenze e finisce per rescindere il contratto pochi mesi dopo, a causa dei molti infortuni e della scarsa forma atletica. L’ultimo sussulto lo vive al Corinthians, dove riesce a vincere il campionato brasiliano nel 2011. Dopo quest’ultima esperienza, alterna periodi di inattività a nuovi tesseramenti con Flamengo, Atletico Paranaense e Miami United, senza mai giocare con continuità, tra allenamenti saltati, serate in locali notturni e foto dove impugna armi, fino alle accuse senza fondamento di una presunta falsificazione di documenti e traffico di droga.

 

Un Imperatore che non è diventato uomo

Su di lui, specialmente in Italia, se ne sono dette e scritte di tutti i colori. Nessuno saprà mai spiegarsi fino in fondo come un talento così cristallino si sia potuto rovinare così in fretta. Una caduta drammatica arrivata proprio all’apice di una carriera coronata da diversi successi sia in Italia che in Brasile ed impreziosita dalla Copa America del 2004 vinta con la nazionale verdeoro. Adriano Leite Ribeiro oggi vive in Brasile, a Rio de Janeiro. È un apprezzato personaggio social su Instagram e si gode la famiglia e i suoi tre figli, avuti da altrettante relazioni diverse.

La depressione è ormai alle spalle, anche se talvolta gli torna in mente papà Almir. Per questo, ogni tanto torna alla Rocinha per fare qualche donazione ai più sfortunati e per ricordarsi della propria infanzia. Ha provato anche la carriera da attore, realizzando un documentario su sé stesso, raccontando la propria storia. Se mai gli doveste chiedere che cosa ci sia alla fine dell’Impero, vi risponderebbe che c’è un bambino un po’ cresciuto che forse, dalla sua favela, non se ne è mai andato davvero. Vi racconterebbe di quando la nonna lo chiamava Adirano e di quando mangiava popcorn, pane e zucchero dopo il viaggio in autobus, per crescere più in fretta. Non saprebbe invece dirvi perché, quella volta in cui doveva tirare prima dopo aver ricevuto palla al limite, non l’ha fatto.

 


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catenaccio

Di Alessio Castagnoli

Scrivo articoli, realizzo podcast sui personaggi e gli avvenimenti controversi del mondo dello sport. Il mio ultimo podcast si chiama Tempi Supplementari, puoi ascoltarlo qui: https://rb.gy/d8rtz3