Lettera d’amore alla famiglia, alla Roma

Ma come mai sei della Roma?”. Quante volte mi sono sentito fare questa domanda. Come se l’amore si potesse localizzare, se esistessero delle mura all’esterno delle quali il sentimento potrebbe diventare irrazionale. Solo perché sono un toscano nato a Genova. Che se ci pensi bene, poi, quanti sono davvero quelli che tifano per la squadra della loro città? Non sono, forse, una percentuale esigua all’interno del panorama del tifo?

Detto che l’amore non conosce spiegazioni, il mio amore per la Roma nasce grazie a mio nonno materno, Bruno. Quando ero bambino e fino ai cinque anni, nonno è stata l’unica figura maschile presente nella mia vita e con lui si è creato quel legame che solo il calcio sa dare, che generalmente lega i padri ai loro figli.

Anche lui era toscano ed aveva vissuto e lavorato per tanti anni a Genova. Cosa che, a cascata, di solito determina la stessa domanda nei suoi confronti, per capire come mai fosse della Roma. Volendo fare una cosa ancora più complessa dello spiegare i propri sentimenti, proverò a spiegare i suoi: lui si era innamorato della Roma perché, da ragazzo, c’era un giocatore che gli piaceva molto. Si chiamava Carlo Galli, detto Testina d’oro per la sua abilità nel gioco aereo.

Galli aveva dato tanto alla Roma nel suo momento peggiore, riportandola dalla Serie B alla Serie A nel 1952, al termine della sua prima stagione in giallorosso. Ma, in fin dei conti, non è stato una bandiera, uno di quei giocatori di cui i ragazzi si innamorano. Anche in quel caso, l’amore era nato in maniera del tutto irrazionale. E così la Roma ha saputo far breccia nella nostra quotidianità, riempito le nostre giornate e, talvolta, condizionato i nostri umori in terra nemica.

Umori diversi, devo dire. Mio nonno si trasformava con i bambini ma, nel complesso, era una figura austera e severa che tendeva a non lasciar trasparire le proprie emozioni e si arrabbiava quando ero io a farlo, riprendendomi se reagivo male ad un gol subito o andavo in escandescenze quando le cose si mettevano male per la Roma.

Il tutto, come detto, in terra nemica. Perché qua, anche se Roma non è lontana, il romanismo è cosa per pochi. In particolare, da bambino andavo all’asilo di un paese chiamato Porto Ercole, dal momento che vivevo con i miei nonni che facevano i guardiani in una villa a qualche chilometro dal paese.

Essendo mia madre molto giovane, era mio nonno l’autista di famiglia e, visto il suo lavoro, non riuscivo praticamente mai ad avere interazioni con gli altri bambini se non all’asilo. Essendo un bambino cresciuto in mezzo agli adulti, ho imparato a fare cose da grandi piuttosto in fretta: non solo leggere e scrivere ma anche argomentare, polemizzare e, cosa non banale, amare una squadra di calcio.

Porto Ercole è un vero e proprio feudo juventino, dove quasi tutti i miei compagni ed i loro genitori tifavano Juventus, tentando subdolamente di portarmi dalla loro parte. Vanamente, perché l’indole assertiva che avevo già maturato mi spingeva non solo a tenere duro ma anche a contrattaccare, riuscendo a fare breccia nelle loro convinzioni di bambino, per natura fragili in senso assoluto e, per costituzione, un po’ più fragili rispetto al piccolo adulto che ero.

E così la soddisfazione di sentirli pronunciare un “Forza Roma”, facendo cambiare l’espressione dei genitori, era un momento di impagabile goduria.

Mi era già chiaro che per la mia Roma avrei dovuto lottare ed era il sentimento che mi animava anche quando, la domenica, mio nonno accendeva la radio per ascoltare Tutto il Calcio Minuto per Minuto.

Già, la radio. Pur non amando gli eccessi di nostalgia applicati al calcio, devo dire che da bambino era uno strumento essenziale per il tifo ed anche per la mente.

Dall’album delle figurine, fonte immancabile del mio divertimento e supporto formativo grazie al quale ho imparato a leggere e scrivere, nomi e volti prendevano vita. Ascoltando le parole del radiocronista mi immaginavo tutto: verso quale porta stessimo attaccando, lo sviluppo delle azioni, la pericolosità del possesso palla, cosa avrebbe potuto succedere dopo.

Il tutto continuava ad albergare nella mia mente anche una volta finita la partita, fin quando, alle 18.10, su Raiuno scattava l’ora della verifica, che prendeva il nome di 90° Minuto, il programma in cui potevo vedere se quanto immaginato fosse effettivamente corretto.

Prima che venisse introdotta la pay-per-view, esisteva un solo momento in cui l’immaginazione poteva riposare e lasciare spazio alla sensazione di godersi il momento: le coppe europee.

 

Le coppe sono l’appuntamento che mi ha sempre affascinato di più. Un tempo si giocavano tutte di mercoledì, un giorno doppiamente speciale perché era anche quello in cui i miei nonni avevano il giorno libero a lavoro.

Il pomeriggio, seppur non sempre, potevo uscire un po’. La sera, quindi, andavamo nella casa dei miei nonni a Orbetello, da poco acquistata con i risparmi di una vita ma in cui, vista la loro professione, non potevano ancora vivere se non in quel giorno di festa.

Ci mettevamo nel salotto, sul divano nuovo di pacca, a guardare le immagini della nostra Roma e degli idoli che ne difendevano i colori. In principio era Rudi Völler, di cui avevo una foto sul comodino del letto come gli adulti fanno coi loro amati, quindi sarebbe stato Ruggiero Rizzitelli.

Che forse non era un campione ma che, col senno di poi e ragionando oggi, fu l’idolo più condivisibile per l’attaccamento alla maglia che ha sempre mostrato nonostante non fosse romano. Rizzitelli era la proiezione sul campo di ciò che io sono nella vita e per questo, anche oggi, è un punto di riferimento.

Non so dire se sia il motivo per cui mi sono appassionato a Rizzi-gol, fatto sta che il mio primo ricordo visivo legato alla Roma è proprio in una partita decisa da un gol di Rizzitelli. Una vittoria vana, però, quella della finale di ritorno di Coppa UEFA 1990-91 contro l’Inter.

Il primo ricordo è una finale persa: se da una parte è un evento sfortunato, dall’altra ha contribuito a legarmi ancora di più alle coppe. Avevo voglia di vedere la Roma e l’unico momento possibile erano le partite di coppa. E desideravo ardentemente vederla vincere, da bambino mi sembrava l’unica cosa giusta nel mondo.

Così le coppe europee sono diventate un evento speciale, per me. La fine del giorno di festa, il momento in cui l’amore si formava sullo schermo della TV e prendeva vita, un momento di apprendimento sul calcio, sui calciatori stranieri che fin lì non conoscevo e persino una lezione di geografia, imparando nomi di squadre e città di tutti i paesi del continente.

Per qualche anno nulla ha turbato la sacralità di quel momento. A sei anni, per ragioni scolastiche, mi sono trasferito con mia mamma nella nuova casa dei nonni, mentre due anni dopo mia mamma ha sposato mio padre. Quello vero, l’uomo che mi ha cresciuto, una cosa sicuramente più importante di insignificanti aspetti biologici, sebbene, ahimè, sia juventino.

Dopo il matrimonio abbiamo iniziato, ovviamente, a vivere tutti insieme ma le coppe sono rimaste un appuntamento di unione con mio nonno ed anche con mia nonna, Alida, che per amore sosteneva la Roma e si univa a noi anche nelle prime avventure allo Stadio Olimpico.

La casa di mio nonno ha ospitato serate di coppa gloriose ed anche di grande dolore, su tutte una sera di metà marzo del 1996, in cui tutta Roma aveva cominciato a sognare un trionfo in Coppa UEFA e invece il viaggio si era fermato innanzi ad un signore ceco di nome Jiří Vávra, che aveva sgonfiato una rimonta epica e consegnato una serata che sembrava da sogno ai pluriennali incubi di tutto un popolo.

Il tempo ha reso il rito un po’ più diffuso: una volta andato in pensione, nel 1999 mio nonno si è abbonato alla piattaforma di pay-tv che deteneva i diritti sulla trasmissione delle partite della Roma, rafforzando i momenti di unione e condivisione.

Finalmente, anche se il bambino aveva fatto spazio all’adolescente, il mio sogno di vedere i miei beniamini ogni domenica si era realizzato ed aveva aumentato la mia brama. Il tempo veniva scandito dalle partite della Roma e dalle stagioni calcistiche, da agosto a maggio era una continua attesa di ciò che sarebbe avvenuto durante le partite della Roma, condizionando le mie aspettative ed il mio umore.

A fine maggio arrivava il mio compleanno, preludio della fine di tutto: un periodo di tre mesi tremendi, nei quali non trovavo consolazione nel fatto di essere in vacanza o di poter andare al mare, cosa che non mi ha mai particolarmente attirato.

Il mio compleanno è il 25 maggio, una data che al tempo mi pareva calcisticamente irrilevante. Nei miei ricordi, solo un compleanno era stato contraddistinto da una partita, quello dei miei 11 anni: era il 1997 e avevo comunque deciso di ascoltare alla radio gli eventi di uno scialbissimo Perugia-Roma perso 2-0 al termine di una stagione orrenda che aveva sancito l’esclusione dalle coppe per l’anno successivo.

Tendenzialmente, i campionati finivano prima del 25 maggio e le eventuali partite di coppa da giocare in quella data sarebbero state rarissime finali che, purtroppo, la Roma non riusciva mai a raggiungere.

Le coppe, ancora loro. Un’ossessione. L’arrivo della pay-tv non aveva mutato la mia passione per quegli eventi globalizzanti. Di lì a poco la Roma avrebbe vinto il terzo scudetto della sua storia, esordito in Champions League e disputato partite prestigiose, come sempre vissute a fianco dei miei nonni, fonte di quell’amore così prorompente da attirare le critiche di chi non è in grado di capirlo.

Come mio nonno, che non amava il fatto che mi infervorassi troppo o che urlassi al cielo la mia gioia in caso di gol, talvolta anche dei miei genitori, che avevano da ridire sul mio modo di vivere questa passione, di “rovinarmi le giornate” per una cosa che loro ritenevano marginale, come il calcio. Ma non è marginale. Rubando una frase di un grande romanista come Tonino Cagnucci, “la Roma è un sentimento e i sentimenti sono una cosa seria”.

Sta di fatto che, pur avendo vinto i primi trofei della mia vita di tifoso e vissuto serate europee importanti, di arrivare in fondo e vincere una coppa europea non se ne parlava proprio. Nel corso di quegli appuntamenti infrasettimanali a casa dei miei nonni spuntava sempre una serata triste e storta, che distruggeva il sogno e, dopo qualche giorno, ricaricava la brama in vista della stagione seguente.

Solo due anni da studente fuori porta hanno interrotto parzialmente il rito, impedendomi anche di festeggiare con mio nonno la Coppa Italia del 2007.

Avevo, invece, sobriamente festeggiato con lui la Supercoppa dello stesso anno e la Coppa Italia del 2008. Sobriamente perché, come detto, mio nonno non amava le eclatanti manifestazioni di gioia, neanche dopo la vittoria di un trofeo.

Non amo la parola “rimpianto” ma, se proprio dovessi usarla, la collocherei in quel momento lì. Se avessi una macchina del tempo, l’uomo che sono oggi la azionerebbe e tornerebbe a quel 24 maggio 2008, per andare a parlare col Manuel di allora, quel ragazzo di 22 anni ancora pieno di capelli.

E lo tratterebbe con severità, gli direbbe “Dai, forza, esulta. Festeggia, urla, non fare il coglione. Abbraccia i tuoi nonni per la gioia e festeggia con loro. Chissà quando ti ricapiterà. Chissà se ti ricapiterà”.

Non sarebbe capitato di nuovo. Una lunga malattia si è portata via mia nonna nel 2011, lasciando mio nonno solo e rinsaldando ulteriormente il mio rapporto con lui.

Perché a quel punto ogni occasione era buona per andare a trovarlo e non farlo sentire solo, figuriamoci guardarci la nostra Roma, continuare il nostro rito, sognare una vittoria in una coppa europea, allontanare dalla sua testa la tristezza ed i cattivi pensieri.

Che però dalla sua testa non se ne sono mai andati via. La voglia di riunirsi con mia nonna era troppo grande e ha preso il sopravvento alla prima occasione utile. Stavolta non è stata una lunga o brutta malattia ma solo un pretesto. Un normale intervento di routine che mio nonno ha usato come un trampolino per saltare via.

Ha deciso che era arrivato il suo momento, si è convinto che fosse una malattia seria e che nessuno gli stesse dicendo il vero, smettendo di mangiare ed abbandonandosi ad una lenta e dolorosa fine.

Il 7 gennaio del 2015 sono andato a trovarlo in ospedale. Da qualche settimana non ci era stato possibile vedere la nostra Roma insieme, quindi gli ho raccontato di cosa era accaduto il giorno prima. La Roma aveva vinto a Udine e si era portata a un punto dalla Juventus.

Siamo rimasti soli e gli ho detto “ci ha fatto un bel regalo, la Roma eh?”. Non ho potuto dirgli altro, il suo viaggio era finito quel giorno. In 25 anni insieme non eravamo riusciti a vedere la nostra Roma vincere una maledettissima coppa europea.

Quattro giorni dopo è tornata in campo la Roma per un match non banale, il derby contro la Lazio. Accanto a me, nella casa che fu dei miei nonni e che ora è casa mia, c’era la mia ragazza, che di lì a poco sarebbe diventata mia moglie.

Una fonte inesauribile di amore e sostegno nei momenti in cui ne ho bisogno, al punto da accollarsi anche la visione delle partite accanto a me, sebbene a lei il calcio non interessi più di tanto.

Quel giorno ho pianto ai gol della Lazio e urlato a quelli della Roma. Urlato come non facevo da tempo, senza nonno a riprendermi avevo liberato quell’aspetto del mio carattere e, al tempo stesso, volevo che quell’urlo al cielo fosse il più forte possibile.

Era per lui, per festeggiare insieme.

Ironicamente, il derby di ritorno si giocò nel giorno del mio compleanno, un lunedì sera in cui la Roma vinse 2-1 qualificandosi alla Champions League: Roma, compleanno e coppe, forse era un segno mandato dal cielo.

Ho continuato a urlare ad ogni occasione, soprattutto nelle coppe europee. Il primo match di coppa senza mio nonno è arrivato poco più di un mese dopo la sua morte. Non si giocava più solo il mercoledì come quando ero bambino.

Quella sera, infatti, era un giovedì, un match di Europa League in cui la Roma affrontava il Feyenoord. Era l’inizio di un viaggio diverso, senza le certezze di un tempo ma con la speranza di creare un rito nuovo, magari bagnandolo con la gioia del successo.

Gli anni sono passati, si sono susseguite urla ed emozioni europee. In particolare ne ricordo una, il 10 aprile del 2018: non stavo bene e pensavo che avrei vissuto una serata tranquilla, alla luce del fatto che giocavamo contro una squadra molto più forte di noi, il Barcellona, che all’andata ci aveva sconfitto 4-1.

Eppure quella sera successe l’incredibile, mi ritrovai a dannarmi e vagare avanti e indietro per la stanza con movenze più simili a quelle di un granchio che di un essere umano, ad urlare come un pazzo, ridere e piangere dopo la rimonta e la qualificazione accanto al pancione di mia moglie. Già, mia moglie era incinta del mio primo figlio, avrei fatto ripartire un rito, gli avrei insegnato quel grande amore, avrei visto le partite insieme a lui. E avrei smesso di urlare per non spaventarlo, era un voto.

Un voto che cadde in un’altra serata europea, tre anni dopo. In casa dell’Ajax, un gol vittoria di Ibañez a tre minuti della fine mi fece saltare dal divano, urlando e scavalcando il mio secondogenito che stava giocando a terra.

La Roma si stava avvicinando al bersaglio grosso, per due volte l’ho vista giocare una semifinale come mai accaduto prima.

Da cultore delle coppe europee, ho accolto con entusiasmo la notizia, risalente a fine 2018, della creazione di una nuova competizione europea che avrebbe iniziato a disputarsi a tre anni di distanza, dalla stagione 2021-22.

Il susseguirsi di eventi e coincidenze fece sì che, nella prima edizione della nuova coppa, chiamata Conference League, l’unica squadra italiana a partecipare sarebbe stata proprio la Roma.

E, ironia della sorte, a proposito di coincidenze machiavelliche, il giorno della finale era stato fissato per il 25 maggio 2022. Il giorno del mio trentaseiesimo compleanno.

Dopo aver avidamente ingurgitato nozioni sulla coppa e sulle partecipanti di tutta Europa a partire dai primi turni preliminari, mi sono tuffato a capofitto nel sogno europeo.

I turni passavano e la nostra Roma continuava a mietere vittime: il Trabzonspor ai preliminari, il primo posto nei gironi, il Vitesse agli ottavi, il Bodø/Glimt ai quarti di finale.

In semifinale, la Roma ha trovato il Leicester. Non riuscivamo ad eliminare una squadra inglese dal 1999. Da quel giorno, anche assieme a mio nonno, abbiamo vissuto tante notti di delusioni, che sono riaffiorate nella mia mente assieme ai ricordi belli. Delusioni e voglia di ripartire.

Stavolta eravamo ripartiti, eravamo pronti. E il Leicester è caduto, la Roma era di nuovo in un finale europea a distanza di 31 anni dall’ultima volta, da quel gol di Rizzitelli che è il mio primo ricordo di bambino giallorosso.

Il 25 maggio avremmo giocato la finale. E l’avversario, a proposito di coincidenze, sarebbe stato il Feyenoord, proprio il primo avversario europeo senza mio nonno. Era un segnale, ne ero sicuro. Eravamo in missione.

Il 25 maggio 2022 è una data carica di tensione, il compleanno più strano della mia vita. Alle 18 corro via da lavoro per andare a casa, dove quella santa donna di mia moglie asseconda la mia follia, anticipando festa, cena e torta con i miei bambini ad un orario in cui è difficile parlare di cena.

Un compleanno sospeso, ancora non so se sarà il più bello o il più brutto della mia vita.

Tutto per permettermi di vivere l’evento, il prepartita, quella notte. La Notte. Che scorre via tra battiti accelerati, scatti per il salotto, l’urlo per il gol di Zaniolo e la paura per i due legni colpiti dagli avversari.

Gli ultimi minuti sono ancora più strani, sono in piedi che cammino avanti e indietro in quel salotto che aveva ospitato l’inizio dei miei sogni europei accanto ai miei nonni. Mi rendo conto che Matthew, il mio primogenito, mi guarda e ride, divertito per un padre così tarantolato.

Il cronometro segna 95 minuti ed una manciata di secondi e si sente il suono più bello del mondo, in quel momento: i tre fischi dell’arbitro.

È finita, Roma ha vinto, quel sogno di poter festeggiare un successo europeo assieme ai miei figli è diventato realtà. È il compleanno più bello della mia vita, ora è ufficiale.

I miei figli si alzano, si aspetterebbero di vedermi ridere e festeggiare ma non è così. Sono accasciato a terra, in lacrime, riesco a dire solo una parola: “Nonno!”.

Grazie per il regalo, questo compleanno l’abbiamo festeggiato insieme.

 


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catenaccio

Di Manuel Fanciulli

Laureato in giurisprudenza e padre di due bambini, scrivo di sport, di coppe e racconto storie hipster. Cerco le risposte alle grandi domande della vita nei viaggi e nei giovedì di Conference League.