Sportwashing e softpower: l’ascesa del Qatar

Immaginate di assistere ad una gara di ciclismo di inseguimento su pista. Due squadre a contendersi la vittoria finale. Alla partenza una delle due prende immediatamente un discreto vantaggio che prova ad amministrare fino al traguardo, anche se, giro dopo giro, gli avversari recuperano qualcosina.

Ora immaginate che questa stessa gara si sposti all’interno di un campo di calcio, anzi si sposti, più in generale, nel mondo del calcio. E che le due squadre in questione rispondano rispettivamente ai nomi di Qatar ed Arabia Saudita.

A portarsi immediatamente in una posizione di vantaggio è il Qatar dell’emiro Tamīm bin Ḥamad Āl-Thānī, che nel 2005 decide di fondare la Qatar Sport Investments, tramite cui – sei anni più tardi – acquista il Paris Saint Germain per 70 milioni di euro, affidandolo all’amico nonché presidente del fondo, Nasser Al-Khelaifi.

 

L’ingresso del Qatar nel mondo del calcio

Un’acquisizione che cambierà per sempre le regole del gioco dentro e fuori il rettangolo di gioco. Perché se, sportivamente parlando, l’ingresso del Qatar sulla scena calcistica mondiale coincide con una pioggia di milioni di euro spesi per i cartellini e gli stipendi dei calciatori, da un punto di vista più strettamente politico rappresenta un salto di qualità rispetto ad ogni tentativo di questo genere del passato poiché è – a tutti gli effetti – il primo chiaro esempio di trait d’union tra un’operazione di sportwashing ed una di softpower.

Acquisizione del PSG, sponsorizzazioni a squadre del calibro di Barcellona, Bayern Monaco, Roma, Boca Juniors, Al Ahly, Club Africain e tante altre tramite la Qatar Airways, compagnia aerea di bandiera qatariota, sponsor anche di alcune delle massime federazioni calcistiche mondiali quali FIFA, UEFA e Conmebol, sono solo alcune delle mosse, per rimanere strettamente legati al mondo del calcio, con le quali il Qatar ha provato (spoiler: riuscendoci) la propria avanzata sullo scacchiere della geopolitica mondiale, attestandosi a tutti gli effetti come interlocutore serio, affidabile e imprescindibile per le principali potenze occidentali, Stati Uniti su tutti. Una manovra di softpower che viene da lontano e mira ad arrivare lontanissimo.

Chi è, non a caso, l’attore principale – proprio in queste settimane – della mediazione tra Israele ed Hamas per trovare una quadra per il rilascio degli ostaggi detenuti da entrambe le parti? Proprio il piccolo ma, alla luce di quanto scritto, importantissimo Stato del Golfo.

Consideriamo pure che il Qatar, oltrepassando per un attimo gli stretti confini del calcio – attraverso la Qatar Investment Authority, altro fondo sovrano facente capo all’emiro – ha iniettato miliardi e miliardi di euro nel mercato europeo ed internazionale rilevando quote di Volkswagen, HSBC e Credit Suisse. Ha inoltre investito quasi due miliardi di euro in Deutsche Bank, acquistato il 22% della catena di supermercati britannici Sainsbury’s, il 20% dell’aeroporto londinese di Heathrow, oltre a tantissimi altri investimenti sparsi qua e là che rendono l’Occidente fortemente dipendente dai soldi provenienti da Doha.

Questo brevissimo riassunto del senso più profondo dell’ingresso del Qatar nel mondo del calcio, quale ulteriore step di una strategia più complessiva volta ad aumentare il proprio peso sullo scacchiere geopolitico internazionale, potrebbe sembrarci esaustivo se volessimo leggere ed analizzare l’operazione qatariota solo con la lente d’ingrandimento occidentale. Perché se invece provassimo a sostituirla con un filtro che ci portasse ad analizzare il tutto da una prospettiva meno eurocentrica ci renderemmo conto di come ci sia sfuggito tutto un pezzo, forse quello più importante ed interessante, di questa operazione.

Torna utile, quindi, rimettere a posto tutti i pezzi di questo intricato puzzle per dimostrare come questa del Qatar non sia una semplice operazione di sportwashing ma una ben più complessa mossa di softpower su un piano geopolitico mondiale ed allo stesso tempo il tentativo di affermare la propria supremazia su di un piano più strettamente “regionale”.

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I mondiali di Qatar 2022

In quest’ottica i Mondiali di Calcio del 2022, ospitati per l’appunto dal Qatar, sono la perfetta cartina tornasole del progetto dell’emiro Āl-Thānī.

Parliamo della prima volta in cui un’edizione dei Mondiali è stata giocata in inverno, con il conseguente stravolgimento del calendario di tutte le competizioni nazionali. Una competizione che nei piani degli organizzatori doveva rappresentare il sigillo della più grande operazione di sportwashing e softpower dai tempi del Mondiale argentino del 1978.

Risultato che si può dire, senza troppa paura di essere smentiti, è stato portato a casa anche con una certa scioltezza, cosa tutt’altro che scontata.

Basterebbe, del resto, menzionare quello che è passato alla storia come qatargate – il primo vero e proprio scandalo di corruzione in seno al Parlamento europeo – per restituire la delicatezza ed importanza che un tale evento ha rivestito per il Qatar. Diversi milioni di euro finiti nelle tasche di alcuni europarlamentari sono stati “il prezzo da pagare” per assicurarsi che tutto andasse come desiderato. C’è, addirittura (e non lo diciamo con stupore), chi sostiene che lo stesso acquisto del PSG fosse parte dell’accordo per assicurarsi l’appoggio ed il voto francese nella corsa al Mondiale.

A supportare tale ipotesi le dichiarazioni dell’ex numero 2 della Fifa, il francese Jérôme Valcke: “Ci fu un voltafaccia, un cambiamento improvviso da parte di Platini, legato a qualcosa. O al fatto che si rese improvvisamente conto che il Qatar era il candidato migliore, o a quel pranzo in cui si discusse di tutto questo”. Il pranzo a cui fa riferimento il dirigente sportivo francese è il “pranzo segreto” all’Eliseo – finito nel mirino della giustizia francese – a cui parteciparono Sarkozy, Platini, all’epoca presidente dell’Uefa e vicepresidente della Fifa, il principe erede del Qatar, oggi emiro, Tamīm bin Ḥamad Āl-Thānī, e il primo ministro dell’emirato, Ḥamad bin Jassim Āl-Thānī. L’assegnazione dei Mondiali al Qatar avvenne nove giorni dopo l’incontro, proprio con il voto decisivo di Michel Platini.

Del resto, quale migliore occasione dell’organizzazione dell’evento sportivo più importante e seguito al mondo per mostrare e dimostrare al mondo intero – leggasi mondo occidentale – di poter sedere al tavolo dei potenti spazzando via ogni dubbio ed incertezza circa la propria natura di Stato retrogrado, chiuso e poco rispettoso dei diritti civili delle minoranze?

Non ci si meravigli quindi se, sulla carta, tutto quel che ha preceduto lo svolgimento dei Mondiali sia stato descritto – anche qui da noi – come un incredibile successo, dimostrazione della bontà dell’intuizione di quanti avevano dato la propria fiducia (diciamo non proprio disinteressata) al piccolo stato.

E così, vere e proprie cattedrali nel deserto sono improvvisamente diventati stadi di ultimissima generazione costruiti solamente con materiali non impattanti da un punto di vista ambientale; sfruttamento ai limiti della schiavitù e centinaia di morti sul lavoro sono stati fatti passare come “prezzo da pagare” in linea con gli standard occidentali (che, comunque, sono di ben quattro morti al giorno sul lavoro).

La sistematica e brutale repressione e/o censura dei diritti della comunità LGBTQ+, denunciata da anni anche qui da noi in occidente, tutta ad un tratto è sparita dalla narrazione di un evento che è sembrato a tutti gli effetti un successone sotto ogni punto di vista. Sicuramente lo è stato dal punto di vista del Qatar relativamente all’operazione di sportwashing.

Ma non solo.

Perché quale migliore occasione della cerimonia di premiazione dei vincitori dei Mondiali di calcio per gridare al mondo intero non solo la propria esistenza ma anche – e soprattutto – la propria importanza? E l’immagine di Messi, che ha fatto il giro del mondo, con indosso il bisht, abito della tradizione della Penisola Araba, gentilmente appoggiatogli sulle spalle proprio dall’emiro Āl-Thānī ne è la più plastica delle dimostrazioni.

Ma ancora.

Quale migliore occasione dell’ospitare la competizione calcistica più popolare in assoluto per parlare al proprio mondo – leggasi quello arabo – e porsi come riferimento culturale e politico?

Non c’è, quindi, da meravigliarsi se nell’arco di tutta la competizione, l’unico simbolo politico autorizzato – a fronte di controlli al limite del lecito e della censura messa in campo fuori e dentro gli stadi per evitare l’esposizione di qualsiasi vessillo che potesse anche solo lontanamente rimandare alla politica nel senso stretto del termine – sia stata la bandiera palestinese. Quella Palestina che, come abbiamo tragicamente riscoperto in questi ultimi mesi, è nel sentimento popolare arabo punto di unione e fratellanza.

Quella stessa Palestina che già in precedenza era stata oggetto delle attenzioni, non propriamente disinteressate, dello stato qatariota per acquisire maggiore importanza nel panorama politico mediorientale. Non deve sembrare strano, dunque, che dopo il lancio nel 1996 dell’emittente televisiva Al Jazeera, strumento individuato dal Qatar per trasformare il paese nel centro culturale della regione, l’emittente abbia imposto la propria leadership come principale media del mondo arabo nel 2000 con la copertura completa  proprio della seconda intifada palestinese.

Messi alza al cielo la Coppa del Mondo indossando il bisht, non senza polemiche

 

La Coppa d’Asia 2024

Ma le ambizioni geopolitiche del Qatar non si sono placate dopo i mondiali di calcio e così, quando la Cina ha ufficializzato la propria rinuncia – causa Covid-19 – all’organizzazione della diciottesima edizione della Coppa d’Asia, l’emiro Āl-Thānī ha colto la palla al balzo per rafforzare la propria leadership nella regione, dando al Qatar l’occasione di ospitare la seconda importante competizione internazionale nel giro di due anni.

Parliamo di una competizione che vede ai nastri di partenza squadre di nazioni che, sul piano della geopolitica mondiale nonché regionale, hanno al momento una rilevanza non indifferente. Come Arabia Saudita, Giordania ed Emirati Arabi Uniti, tutte e tre coinvolte nei bombardamenti in Yemen contro i ribelli Huthi, conflitto che da qualche giorno ha visto affacciarsi anche Stati Uniti e Gran Bretagna che hanno effettuato diversi attacchi missilistici sulla costa yemenita per “proteggere il commercio internazionale” ed impedire agli Huthi di bloccare ulteriori navi in transito nel Mar Rosso.

Come Iran e Cina, che rappresentano due delle principali potenze del continente ma anche come Siria, Libano e, ovviamente, la Palestina, che sembra proprio rappresentare quel fil rouge attraverso il quale il piccolo stato del Golfo porta avanti il proprio progetto di scalata nelle gerarchie politiche dell’intera regione.

Non sorprenda, dunque, che a seguito dell’invasione di terra voluta da Israele nella striscia di Gaza e la conseguente crisi umanitaria esplosa nei territori palestinesi, Doha abbia deciso di destinare i proventi della vendita dei biglietti delle partite della Coppa d’Asia per fornire aiuti umanitari ad alcune ONG che operano a Gaza. Così come rientra nella stessa logica la decisione del capitano della nazionale qatariota, Hassan Al-Haydos, di lasciare l’onore di tenere il discorso inaugurale nel corso della cerimonia d’apertura della competizione al collega e capitano della nazionale palestinese Mus’ab Al-Batat.

E così, anche il tentativo di porsi come riferimento non solo più culturale ma anche politico dell’intera regione sembra essere a buon punto, sebbene necessiti di ulteriori puntellamenti per consolidare ulteriormente la propria leadership e per respingere il tentativo speculare che sta portando avanti – con qualche anno di ritardo – l’Arabia Saudita. Che, goccia di sudore dopo goccia di sudore, o, per meglio dire, euro dopo euro, sta provando a colmare il gap e raggiungere il Qatar in quella che sembra una gara destinata a monopolizzare il futuro prossimo ed in cui il calcio sembra essere stato scelto come campo privilegiato della sfida.

Akram Afif festeggia per il gol del vantaggio sul Libano nel match inaugurale della Coppa d’Asia

 


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Di Gabriele Granato

Attivista sociale, frequentatore di stadi e collezionista di t-shirt da gioco. Appassionato di sport e politica, unisco queste passioni nel progetto "Calcio&Rivoluzione" di cui sono co-fondatore.