Il cuore di un campione: la storia di Hakeem Olajuwon

Il centro più dominante di sempre? Shaq. Il centro più vincente di sempre? Bill Russell, che domande. Il più longevo? Kareem, ovvio. Ma il più completo? Il più creativo ed elegante in post basso? Queste domande, come tante altre, hanno un’unica risposta: Hakeem Olajuwon.

 

Formazione giovanile

Akeem (non è un refuso, l’h verrà aggiunta solo nel 1991) nacque a Lagos nel 1963. Com’è facilmente intuibile, ai tempi il basket in Nigeria non era certamente uno sport popolare, in uno Stato – o meglio in un continente – in cui era il calcio a farla da padrone indiscusso. Il protagonista della nostra storia infatti, come tutti i ragazzini dell’epoca ebbe il primo approccio con gli sport di squadra come giocatore di pallone.

Veduta dall’alto della capitale nigeriana con il villaggio su palafitte di Makoko sullo sfondo

 

Fu scoperto, nel senso cestistico del termine, nel dicembre del 1979 da tale Richard Mills, americano che ai tempi allenava la nazionale nigeriana di pallacanestro e che notò il ragazzo per caso mentre era impegnato in una partitella alla periferia della sua città natale. Mills fu ovviamente attratto dall’altezza e dalla eccezionale agilità di quel giovanotto dinoccolato che giocava in porta e non impiegò molto a convincere il ragazzo a mollare tutto e seguirlo, facendo leva sul suo desiderio di trasferirsi negli States.

Quello che diventerà uno dei giocatori più dominanti e iconici di sempre non aveva la minima idea di cosa fosse il basket, delle sue regole e dei movimenti più basilari. Leggenda narra che la prima volta che Mills lo convinse a provare a giocare dovette mettersi su una sedia e mostrargli come si schiacciasse perché, quando chiese a Olajuwon di effettuare il gesto, lui non capì nemmeno cosa significasse.

Grazie al costante incoraggiamento di Mills, Akeem si unì alla squadra di pallacanestro durante l’ultimo anno scolastico presso la Muslim Teachers di Lagos. Quasi immediatamente, come egli stesso rivelò in seguito, comprese che il basket sarebbe stata la sua vera passione, relegando in secondo piano calcio e pallamano, altri sport in cui Olajuwon eccelleva.

Nell’estate del 1980, a 17 anni, Akeem rappresentò la Nigeria negli All-African Games, attirando l’attenzione di Chris Pond, membro del Dipartimento di Stato e allenatore in Africa. Segnalando il giovane talento a diverse università americane, ottenne riscontri positivi soprattutto dalla Houston University e dalla St. John’s di New York. Pond fu una figura fondamentale per lo sviluppo del ragazzo, portando a termine il lavoro iniziato da Mills e convincendo Olajuwon che il trasferimento negli Stati Uniti avrebbe notevolmente migliorato il suo gioco e, di conseguenza, il suo futuro nel mondo del basket. Gli fornì così i nomi dei college che avevano risposto positivamente alla sua segnalazione, consigliandogli di porre in cima alla lista la Houston University.

Pochi mesi dopo, nell’ottobre del 1980, Olajuwon fece il suo ingresso in America, atterrando per la prima volta al John Fitzgerald Kennedy di New York. Affascinato dalla Grande Mela, la città dove il sogno americano sembra più accessibile, aveva in testa solo la St. John’s University. Uscendo dall’aeroporto però, non sentì solamente le vibrazioni che solo la città che non dorme mai può suscitare, ma dovette fare i conti con un freddo a lui sconosciuto che gli gelò immediatamente le ossa. Vibrazioni contro brividi: vinsero i secondi, senza storia. Tornò al caldo dell’aeroporto immediatamente.

Ora, ad Akeem erano rimasti tre biglietti, tre scelte: Louisville, Houston e Providence. Alcune fonti riportano che nell’aeroporto notò per caso un gestore di bagagli suo connazionale. Chiese quale delle tre città avesse il clima più simile a quello nigeriano: lui rispose Houston e quindi la scelta fu semplice e immediata. Lo stesso non si può dire del viaggio per raggiungere l’università: il tassista che lo accompagnava, complice la non perfetta pronuncia di Akeem, capì Austin anziché Houston e lo portò nella città sbagliata.

 

Comincia l’avventura in Texas

Il coach dei Cougars, Guy Lewis, si rese subito conto che il ragazzo era completamente da formare, d’altronde il basket era nella vita di Akeem da non più di un anno e mezzo. Vedeva però del grande potenziale e, soprattutto, apprezzava il suo grande spirito competitivo, qualità che a differenza dei fondamentali non poteva e non può essere insegnata.

Akeem passò la sua prima stagione da red-shirt non scendendo mai in campo, pratica piuttosto comune nei roster universitari dell’epoca. Al suo secondo anno le cose cominciarono a muoversi: accumulò 8,3 punti, 6,2 rimbalzi e 2,5 stoppate, tirando col 60% dal campo in 18 minuti di media, con i suoi Cougars che uscirono alle Final Four contro i Tar Heels di Michael Jordan e James Worthy.

Fu proprio l’estate del 1982 a fare da spartiacque per il proseguo della carriera del nigeriano. Su consiglio di coach Lewis iniziò a frequentare una palestra locale di Houston, nella quale tra gli altri era solito allenarsi un certo Moses Malone, ai tempi in forza proprio agli Houston Rockets. Grazie alle ore passate insieme a Malone, Olajuwon conobbe una crescita tecnica esponenziale e dalla stagione seguente divenne uno dei migliori giocatori della NCAA.

La terza stagione di Akeem, la seconda da giocatore effettivo, narra di 13,9 punti, 11,4 rimbalzi e 5,1 stoppate di media. Numeri che cominciano a lievitare, così come il rendimento della squadra. Al roster dei Cougars, nel quale militava anche Clyde Drexler, viene affibbiato un soprannome rimasto nei libri di storia della NCAA, al punto che gli è stato dedicato un episodio della collana 30 for 30 della ESPN: nacquero così i Phi Slama Jama, tre parole difficilmente traducibili letteralmente in italiano: rimanendo il più fedeli allo slang, una confraternita con il vizio di effettuare tantissime giocate sopra al ferro. In quest’annata arriva dunque la prima finale NCAA, vinta però da North Carolina State guidata da Lorenzo Charles in una partita decisa da un canestro all’ultimo secondo.

I video valgono più di mille parole: per capire il reale significato del soprannome di quei Cougars, non c’è niente di meglio che una compilation come questa.

 

L’anno successivo il copione fu lo stesso. Il talento di Akeem era in costante ascesa, arrivando a segnare 16,8 punti di media, guidando la NCAA per rimbalzi di media (13,5) e stoppate (5,6). I Cougars, pur senza Drexler approdato in NBA, arrivarono nuovamente in finale ma persero ancora, stavolta per mano di una Georgetown capitanata da Patrick Ewing, nome con il quale la carriera di Akeem si incrocerà parecchie volte.

In NCAA, malgrado le due finali perse, il nigeriano ormai aveva dimostrato tutto quello che poteva. Era arrivato il momento di andare al piano di sopra, con la certezza che sarebbero stati ben pochi i rivali a contendergli la prima chiamata assoluta. Erano passati solo cinque anni dalla prima volta che aveva afferrato un pallone da basket e le due squadre che avevano la possibilità di acquisire i suoi servigi sarebbero state Houston e Portland. Entrambe rappresentavano mete allettanti: rimanere nella sua città di adozione o unirsi all’amico Clyde Drexler a Portland e perché no, ricreare i Phi Slama Jama? Come ben sappiamo, Houston vinse la lotteria e Akeem si trovò a giocare al caldo sole del Texas.

Akeem in azione con i Phi Slama Jama

 

Twin Towers

I Rockets al tempo era allenati da Bill Fitch, ex istruttore del corpo dei marines (se il primo personaggio che viene in mente è il sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket, bravi, ci avete preso). Fitch era stato già campione NBA con Boston nel 1981, tra l’altro vincendo le Finals proprio contro i Rockets di Moses Malone. Un uomo duro e tosto, com’è naturale aspettarsi da un ex soldato, una figura che sia Larry Bird sia Olajuwon stesso hanno celebrato come una delle ragioni primarie della loro etica del lavoro così ferrea.

Houston veniva da due anni di tanking matto e disperatissimo. Nella stagione precedente furono appena 29 le vittorie racimolate, per non citare le 14 della stagione 1982-83: una doppietta di cui non andare per nulla orgogliosi ma che valse ai texani per due stagioni di fila la prima chiamata al draft.

Il primo anno i Rockets scelsero Ralph Sampson. 224 centimetri, agilità fuori categoria, capacità di correre il campo e di mettere palla a terra impensabile per un giocatore di quelle dimensioni e un solidissimo tiro da fuori per l’epoca. In poche parole, la cosa più vicina all’attuale Victor Wenbanyama. Se il francese, nell’NBA degli Antetokounmpo, Embiid, Lebron e Leonard (per citarne pochi), sembra un qualcosa di mai visto e unico, pensate a quanto potesse essere un unicorno 40 anni fa il prodotto di Virginia.

 

Sampson aveva giocato da centro nella sua eccellente prima stagione vincendo anche il premio di Rookie of the Year. Un giocatore su cui i Rockets avrebbero potuto tranquillamente costruire un roster vincente. Ma se l’anno successivo ti capita la fortuna di selezionare un giocatore del talento di Akeem, sono ben poche le considerazioni da fare sulla coesistenza dei due. Poco importa se era ancora disponibile una guardia di North Carolina con il 23 sulle spalle, il nigeriano andava preso e fatto giocare insieme a Sampson. Sfruttando l’estrema duttilità del 50 – che accettò di giocare da 4 leggermente più perimetrale – nacquero le Twin Towers.

Al suo primo anno da professionista Olajuwon segnò 20,6 punti, catturò 11,9 rimbalzi e tirò col 53.8% dal campo e finì secondo nelle votazioni per il Rookie of the Year, proprio alle spalle del giocatore con il 23, Michael Jordan. Il nigeriano fu anche convocato all’All Star Game – cosa estremamente rara per uno al primo anno – oltre a finire nel secondo quintetto difensivo.

Houston venne completamente ribaltata: dalle 29 vittorie della stagione ’83-’84, con Akeem si toccò quota 48, strappando così un biglietto per i playoffs. Un impatto straordinario, se si considera che Olajuwon era ben lontano dall’essere un prodotto finito su entrambi i lati del campo. In attacco dominava fisicamente gli avversari a suon di schiacciate (aveva imparato come fare, anche troppo bene) e rimbalzi, con un jumper occasionale, già presente nel suo arsenale ai tempi del college, ma senza quella finesse che lo avrebbe contraddistinto negli anni a venire. Difensivamente non aveva le fini letture che avrebbe sviluppato qualche stagione più tardi, eppure aveva già una mostruosa abilità, dovuta a una mobilità laterale e una velocità di piedi tale per cui a volte sembrava sdoppiarsi in campo.

La corsa dei Rockets si fermò al primo turno contro i Jazz, non quelli dell’era Stockton to Malone ma la versione precedente, guidata da Adrian Dantley, Darrell Griffith e Mark Eaton allenati da Frank Layden. Un’eliminazione formativa, avvenuta per la beffa nella decisiva gara 5 (le serie di primo turno ai tempi erano al meglio delle 5 partite): Houston iniziò il quarto quarto in vantaggio di 9 punti ma subì un parziale di 37-21 che la spedì a casa senza troppe cerimonie. La lezione che, come in tutte le storie che si rispettino, fece scattare la molla definitiva. Era evidente che c’era una nuova forza emergente a Ovest.

 

Nuovo che avanza

L’anno dopo, la stagione 1985-86, i Rockets vinsero 51 partite, eliminando i Kings e i Nuggets ai primi due turni dei playoffs. Ad attenderli in finale però c’era una montagna invalicabile, gli strafavoriti Lakers dello Showtime. Rispettando i pronostici, Los Angeles si aggiudicò gara 1, ma da lì in poi la musica cambiò. I Rockets non ne persero più una, chiudendo la questione a gara 5 con l’iconico tiro sulla sirena di Ralph Sampson entrato di diritto nella storia della lega. I Lakers non trovarono alcun modo di reagire all’esuberanza fisica di Olajuwon, che chiuse la serie con 31 punti, 11,2 rimbalzi e 4,2 stoppate di media.

Tutto tranne che una conclusione educata e pulita quella di Sampson, ma è il risultato che conta.

 

Ad aspettarli in finale c’erano i Celtics nel loro massimo splendore, con Bird nel prime, Kevin McHale, Dennis Johnson, Robert Parish, Danny Ainge e addirittura Bill Walton da sesto uomo. La serie non ebbe grande storia: Boston chiuse la contesa in 6 partite e vinse il titolo meritatamente. La strada per Akeem e i Rockets sembrava però ben delineata, e a detta di tutti l’NBA per i dieci anni seguenti sarebbe stata nelle loro mani. Niente di più sbagliato.

 

Roster decimato

Nel giro di pochi mesi i Rockets persero i tre giocatori più importanti del loro backcourt, tutti e tre per motivi di droga. Il primo fu John Lucas, il playmaker titolare, uomo da 15,5 punti e 8,8 assist di media. Lucas fu tagliato da Houston nel marzo del 1986 dopo aver fallito due test antidroga. A gennaio del 1987 toccò a Lewis Lloyd e Mitchell Wiggins (il padre di Andrew Wiggins), trovati positivi alla cocaina e sospesi due anni e mezzo. Dopo i problemi al backcourt, non mancarono quelli al frontcourt, con gli svariati infortuni di Ralph Sampson che da lì a breve ne avrebbero affossato la carriera. Nel 1988 venne spedito ai Golden State Warriors, chiudendo anzitempo l’era dei Rockets delle twin Towers.

Nonostante i problemi di squadra, Akeem compì miglioramenti costanti e divenne una macchina inarrestabile. Solo per dare un’idea, negli anni successivi fu:

  • Primo quintetto NBA nel 1987, 1988 e 1989;
  • Primo quintetto difensivo nel 1987, 1988 e 1990;
  • Centro titolare inamovibile all’All Star Game per la costa occidentale;
  • Miglior rimbalzista della lega nel 1989 e nel 1990;
  • Miglior stoppatore nel 1990, 1991 e 1993 con il picco del 1990 in cui divenne uno tre giocatori nella storia della lega, assieme a Jabbar e Walton, ad essere leader nello stesso anno in rimbalzi e stoppate.

Sempre nel 1990 divenne il primo giocatore della storia a chiudere fra i primi dieci alle voci punti, rimbalzi, recuperi e stoppate per due stagioni consecutive. Quello stesso anno, il 29 marzo per la precisione, contro i Milwaukee Bucks, realizzò 18 punti, 16 rimbalzi, 11 stoppate e 10 assist, diventando il terzo giocatore nella storia a realizzare un quadrupla doppia.

Olajuwon era ormai diventato un giocatore totale. Completo in ogni aspetto del gioco ed egualmente efficace su entrambi i lati del campo. In difesa, aiutato da un tempismo e da un’agilità eccezionale, era uno stoppatore prodigioso, un ottimo rimbalzista, ma soprattutto era dotato di un notevole intuito nell’intercettare passaggi, specialità che per quattro anni lo ha portato fra i primi dieci nella classifica dei recuperi, risultando ovviamente sempre il primo fra i centri.

In attacco aveva ormai definitivamente perfezionato il tiro dalla media ma il meglio lo evidenziava sotto canestro: il tiro dalle tacche girandosi e buttandosi indietro, il semi-gancio, le scivolate a canestro e soprattutto i suoi movimenti e il suo campionario infinito di finte e controfinte, entrate di diritto nei libri di storia della NBA, sotto l’iconico nome di Dream Shake.

Un minuto e 40 secondi di video: quanto basta per farvi venire il mal di testa. Figuratevi i malcapitati che dovevano marcarlo.

 

Nonostante i successi personali, questi furono gli anni più bui della carriera di Akeem, per colpa di una Houston che non riusciva a decollare: nei quattro anni tra il 1988 e il 1991 il nigeriano non riuscì mai ad andare oltre il primo turno dei playoff, nonostante serie incredibili a livello individuale, come quella del 1988 contro Dallas in cui chiuse a 37,5 punti e 16,8 rimbalzi di media.

Una situazione che stava sempre più stretta al 34. I rapporti con Houston iniziarono a deteriorarsi, fino a precipitare quasi del tutto quando sul finire della stagione 1991-92, Akeem, che nel mentre si era convertito all’Islam cambiando il suo nome in Hakeem (nessuna differenza a livello di suono dato che la H è muta come la D di Django), lamentò un presunto stiramento alla coscia. La dirigenza di Houston lo accusò di scarso impegno, ritenendo che stesse fingendo: Olajuwon non la prese bene e si rifiutò di scendere in campo. Risultato? I Rockets lo sospesero e finirono per vincere solo 42 partite in totale, bucando l’appuntamento con i playoff.

Insomma la situazione a questo punto sembrava grigia per Hakeem e veramente nera per Houston ma la svolta in realtà non era lontana.

 

Ripartire da Olajuwon

L’owner dei Rockets, Charlie Thomas, si rifiutò fermamente di cedere il nigeriano e fece di tutto per trattenerlo, nonostante le insistenti richieste di tutta la lega. Nella primavera del 1992 nominò capo allenatore Rudy Tomjanovich, bandiera degli Houston Rockets degli anni ’70 nonché grandissimo amico di Olajuwon, convincendo la sua stella a firmare un’estensione di contratto fino al 1999.

Tomjanovich ridefinì il roster attorno ad Olajuwon, dando vita una squadra più perimetrale, giovane e atletica.

In quintetto partirono:

  • Kenny Smith, The Jet: giocatore atletico, veloce e dall’inarrestabile parlantina.
  • Vernon Maxwell, Mad Max: guardia di grande energia, molto forte fisicamente, che si affermò come il leader difensivo della squadra tra gli esterni.
  • Un’ala piccola di 2 metri e 6 dotata di grandi mezzi atletici e una discreta mano, che qualcosa vincerà in giro per la lega nel corso della sua carriera, tale Robert “Big Shot” Horry.
  • Otis Thorpe, il secondo miglior giocatore della squadra, ala forte tecnicamente completa e molto solida, all-star nel 1992. Nessun nickname purtroppo per lui.
  • Hakeem, non c’è bisogno di dire altro.

Sesto uomo, un rookie con la faccia da E.T., una parlantina in grado di far impallidire quella di Kenny Smith e la tendenza ad alzare il livello quando le partite contavano davvero, Sam Cassell.

La squadra così composta passò dalle 42 vittorie dell’anno precedente alle 55 della stagione ’92-’93. Olajuwon realizzò 26,1 punti, tirò giù 13 rimbalzi di media, rifilando 4,2 stoppate a partita (che gli garantirono il terzo titolo in quattro anni di miglior stoppatore della lega). Nei playoff i Rockets si arresero in semifinale di Conference contro i Seattle Supersonics dopo 7 tiratissime gare ma ormai era evidente che l’aria a Houston era cambiata.

Si arrivò così al fantastico 1994, con Hakeem che giocò probabilmente il miglior basket della sua carriera: segnò 27,1 punti a partita e venne eletto per la seconda stagione consecutiva difensore dell’anno vincendo l’MVP della stagione regolare.

Houston si presentò ai playoff con un record di 58 vittorie e 24 sconfitte e col secondo seed, dietro proprio ai Seattle Supersonics. Il primo turno contro i Blazers non fu troppo difficile, perfetto per scaldare i motori. Al secondo si assistette invece a una serie storica contro i Phoenix Suns di Barkley, in cui tutte le prime 6 gare furono vinte dalla squadra che giocava in trasferta. La serie si concluse a Houston con la vittoria dei Rockets e un Olajuwon da 37 punti e 17 rimbalzi. Le finali di conference contro i Jazz furono più che altro una formalità, si risolsero con un netto 4-1 e Houston volò in finale.

 

Dopo la lezione subita dai Celtics otto anni prima, Olajuwon era pronto a tutto. E proprio come nei migliori drammi teatrali, come la più classica pistola di Čechov, ecco che ritorna nella nostra storia dopo dieci anni un nome già incontrato: quel Patrick Ewing, uscito vittorioso nella finale NCAA del 1984, campione a Est con i suoi New York Knicks.

Fu una serie tiratissima, combattuta sul filo del rasoio con le difese nettamente padrone del gioco, in cui non si andò nemmeno vicini a toccare i 100 punti in nessuna partita della serie.

I Knicks sono avanti 3-2 nella serie e Starks, in gara 6, ha in mano il tiro per la vittoria con 7 secondi e 6 decimi da giocare. Ewing porta il blocco, Olajuwon cambia, perde l’equilibrio ma in qualche modo riesce a recuperare sulla guardia dei Knicks e a deviare il tiro che, se fosse entrato, avrebbe significato anello per New York.

 

Quella stoppata è ancora oggi ricordata come The Block, la stoppata per antonomasia, la stoppata col peso specifico maggiore della storia della NBA. Si, più di quella di LeBron nel 2016.

Houston riuscì poi ad avere ragione di New York nell’ultima sudatissima partita e a vincere il primo titolo della sua storia. Hakeem fu ovviamente eletto MVP delle finali. Aveva segnato 26,9 punti col 50% dal campo, umiliando Ewing nello scontro diretto e costringendolo a percentuali dal campo ben al di sotto del 40%. Sembrava la coronazione del sogno perfetto, eppure il meglio per lui doveva ancora venire.

 

Ripetersi è ancora più difficile

Siamo alla stagione 1994-95. Olajuwon per quanto fosse possibile, giocò ancora meglio che in quella passata, ma non vinse il titolo di MVP, premio che rimase in Texas ma in direzione San Antonio, a beneficio di David Robinson.

La squadra nel complesso girava abbastanza bene ma Tomjanovich aveva l’idea che mancasse ancora qualcosa per competere ai massimi livelli e riconfermarsi, visto il maggior numero di avversari di alto livello rispetto all’anno precedente. Venne così imbastito lo scambio storico che portò Clyde Drexler, compagno e amico di Hakeem dai tempi del college, a Houston in cambio di Otis Thorpe. Una trade che inizialmente non venne accettata di buon grado dallo spogliatoio: gli equilibri di squadra vennero parecchio sconvolti e in effetti il rendimento generale peggiorò a vista d’occhio, tanto che Houston si presentò ai playoff con solo il sesto record a ovest, il decimo assoluto.

Eppure, qualcosa scattò all’inizio dei playoff. I Rockets si scontrarono al primo turno contro una Utah forte delle sue 60 vittorie: andarono sotto 2-1 ma vinsero le successive due partite e passarono il turno. In semifinale gli avversari erano nuovamente i Suns di Barkley. Stavolta la corsa sembrava davvero giunta al capolinea, perché Houston perse le prime due partite in fila rispettivamente di 22 e 24 punti e dopo 4 gare era sotto 3-1. I  Rockets trovarono però la forza di reagire, si portarono sul 3-3 per poi vincere per un solo punto di scarto un’epica gara 7.

Alle finali di Conference i Rockets avrebbero fronteggiato gli Spurs del MVP in carica, e Hakeem – evidentemente con qualche sassolino da togliersi dalle scarpe – dominò. Il nigeriano ridicolizzò Robinson, segnò 35 punti di media contro i 25 dell’avversario e costrinse l’Ammiraglio a chiedere aiuto anche a Rodman per provare a contenerlo. Giocata simbolo della serie e della carriera di Hakeem quel fantastico movimento sulla linea di fondo con doppia finta che mandò al bar Robinson, diventando esemplificazione stessa del concetto di Dream Shake.

 

Le Finals contro i Magic di Shaq e Penny ebbero ancor meno storia. Houston rischiò di perdere gara 1 ma Nick Anderson regalò la vittoria ai Rockets sbagliando quattro liberi in fila nel finale. Houston vinse le tre partite successive, sweeppando Orlando. Un giovane Shaq resse l’urto meglio di Robinson ma dovette comunque piegarsi allo strapotere del nigeriano.

I texani divennero così la prima squadra della storia a vincere il titolo avendo il fattore campo a sfavore in ogni singola serie. Le statistiche di Olajuwon in post-season parlano da sole e descrivono benissimo il livello di dominio: 33 punti, 10,3 rimbalzi, 4,5 assist, 1,2 recuperi, 2,8 stoppate, il 53% dal campo. Le parole, divenute storia, di Rudy Tomjanovich alla fine della decisiva gara 4 racchiudono tutti i Rockets, ma soprattutto tutto l’Olajuwon di quella serie di playoff: “Do not ever underestimate the heart of a champion”.

Nella NBA dominata in lungo e in largo dal nigeriano c’era una grande elefante nella stanza da affrontare. Michael Jordan infatti si era ritirato nel ‘93 ma aveva ripreso a giocare e il grande sogno della lega età avere i due dominatori degli anni ’90 l’uno contro l’altro in finale. Purtroppo quello scontro non sarebbe mai arrivato perché i Rockets non avrebbero più ricreato la magia dei playoff del ’94 e ’95, anche se Olajuwon giocò ad altissimi livelli almeno altre due stagioni.

Ai playoff del 1996, i Rockets vennero sweeppati brutalmente dai Seattle Supersonics, nella loro versione migliore di sempre. Nel 1997 aggiunsero Charles Barkley al loro roster e condussero un’ottima regular season, vincendo 57 partite con Olajuwon nuovamente eletto nel primo quintetto all-NBA. Sembrava l’annata giusta per lo scontro Olajuwon-Jordan ma Houston perse in 6 partite contro Utah in finale di Conference.

E proprio contro Stockton e Malone, il ciclo ad alto livello dei Rockets e di Olajuwon effettivamente finì. Houston ormai era invecchiata e Olajuwon, così come Barkley, soffriva di problemi di infortuni cronici. L’ultimo tentativo arrivò nel ’99, quando fu ingaggiato Scottie Pippen per sostituire Drexler appena ritirato, tuttavia schiantandosi al primo turno contro i Lakers.

Hakeem passò altre due stagioni a Houston, per poi lasciare il basket all’età di trentanove anni, dopo aver giocato la sua ultima stagione con i Toronto Raptors. Al momento del suo ritiro nel 2002, Olajuwon era primo di ogni epoca nella classifica delle stoppate con 3830, con il secondo – Mutombo – indietro di oltre 500 ed in top 10 per punti (attualmente è quindicesimo), rimbalzi (ora quindicesimo) e palle rubate (ora undicesimo). Per trovare un altro centro puro in quest’ultimo campo statistico dobbiamo scendere addirittura fino alla posizione numero 67, con David Robinson.

Insomma, una carriera eccezionale, con pochissimi eguali, durante la quale ha lottato e regolarmente sconfitto avversari ben più quotati e che gli è valsa il soprannome di The Dream. L’unica dettaglio che effettivamente manca, il tassello che lo avrebbe elevato nell’empireo più sommo, è uno scontro diretto con il GOAT, al quale, però, se chiedete di scegliere un centro da inserire nel suo quintetto ideale, risponde così:

Se dovessi scegliere un centro per la squadra più forte di tutti i tempi, prenderei Olajuwon. Lascerei fuori Shaq e Patrick Ewing. Probabilmente lascerei fuori perfino Wilt Chamberlain. Lascerei fuori un sacco di gente fortissima. E il motivo per il quale vorrei prendere Olajuwon è molto semplice: lui è il più completo in quel ruolo.

Michael Jordan

 


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