Sono i vincitori a scrivere la storia, e Steven Bradbury l’ha fatto in maniera indelebile. Non solo per la sua vittoria storica, ma per le modalità quasi tragicomiche con cui è arrivata. Il suo nome è diventato sinonimo di fortuna, reso celebre, almeno in Italia, più da un programma comico che dai suoi successi sportivi. Eppure, dietro quell’immagine c’è molto di più: una storia di sacrifici, rinunce e cadute che vanno ben oltre il colpo di scena finale. Una storia che, nonostante tutto, si è chiusa con un lieto fine.
Chi è Steven Bradbury: gli esordi di una promessa
Per chi non associasse il suo nome a un volto, è doveroso specificare che Steven Bradbury era un pattinatore di short track. Nato il 14 ottobre 1973 a Camden, in Australia, un posto dove l’unico ghiaccio visibile è quello nei bicchieri d’estate, ha scelto un destino decisamente inusuale. In un paese di surfisti e rugbisti, lui ha deciso di scivolare sul ghiaccio. Una scelta che, all’epoca, sembrava quasi un vezzo esotico: l’Australia negli sport invernali non esisteva. O almeno, non fino agli anni ‘90.
Il primo segnale di vita arriva nel 1991, quando Sydney ospita i Mondiali di short track. Bradbury non ha ancora diciotto anni, ma è già considerato una delle grandi promesse del movimento. Fa parte di un team competitivo nella staffetta 5000 metri: assieme a Keiran Hansen, John Kah, Andrew Murtha e Richard Nizielski, porta l’Australia a una clamorosa vittoria, conquistando il primo oro nella storia del paese. Un exploit che non resta isolato: seguono un bronzo ai Mondiali di Pechino 1993 e un argento a Guilford 1994.
Ma è proprio il 1994 l’anno della svolta. Lillehammer, in Norvegia, ospita un’edizione storica dei Giochi Olimpici Invernali, la prima a svolgersi a due anni di distanza da quella estiva, rompendo la tradizione che fino a Albertville 1992 voleva entrambe le competizioni nello stesso anno. Ma soprattutto, Lillehammer 1994 è la prima Olimpiade in cui lo short track entra ufficialmente nel programma olimpico, dopo il test positivo di Calgary 1988.
L’Australia si affida alla staffetta per un risultato storico: mai, prima di allora, aveva vinto una medaglia ai Giochi Invernali. Bradbury, però, è solo una riserva e guarda da fuori l’eliminazione in semifinale per una caduta di Nizielski. Due anni dopo, a Nagano 1998, la storia cambia. L’oro va all’Italia, con il quartetto composto da Maurizio Carnino, Diego Cattani, Orazio Fagone, Hugo Herrnhof e Mirko Vuillermin. Ma, alle loro spalle, gli Stati Uniti e, incredibilmente, l’Australia, che conquista il primo bronzo olimpico della sua storia.
Il merito è ancora di Nizielski, che stavolta decide di non rischiare. Anziché forzare un sorpasso sull’ultimo frazionista statunitense, sceglie di conservare il podio e regalare al suo paese un momento storico. Per Bradbury, che a vent’anni è già una medaglia olimpica, sembra solo l’inizio di una carriera brillante. Ma la malasorte ha altri piani per lui.
Lo storico oro della staffetta australiana ai Mondiali del 1991
Gli infortuni e la caccia al riscatto
Il 1994, l’anno che sembrava dovesse consegnarlo alla leggenda, si trasforma invece in un incubo. Siamo a Montréal, gara di short track sui 1500 metri. Bradbury ha l’adrenalina a mille, parte con l’idea di vincere, ma lo attende una di quelle sliding doors che cambiano tutto. Nella bagarre furiosa che caratterizza la sua disciplina, il pattino di Frédéric Blackburn lo colpisce alla coscia. Un contatto che sembra banale, uno dei tanti in gara. Ma quando tocca il ghiaccio, Bradbury capisce subito che qualcosa non va. Il sangue inizia a scorrere a fiotti. La lama del pattino è entrata a fondo, recidendo il quadricipite e arrivando fino all’arteria femorale.
Si scatena il panico. Il ghiaccio si tinge di rosso, Bradbury perde quattro litri di sangue in pochi attimi. Il cuore gli martella nel petto, sfiora i duecento battiti al minuto. La sua vita è appesa a un filo, fino a quando i medici non riescono a stabilizzarlo. Serviranno 111 punti di sutura per ricucirlo, un mese senza muovere la gamba e un anno e mezzo di riabilitazione. Ma Bradbury non è tipo da arrendersi. La fisioterapia è un’agonia, ogni passo un tormento, ma l’unico obiettivo è tornare a pattinare. E a vincere.
Quando finalmente ci riesce, il mondo è già andato avanti. Ma lui no. L’australiano torna competitivo e quattro anni dopo l’infortunio è di nuovo al cancelletto di partenza, stavolta alle Olimpiadi di Nagano 1998. In Giappone si gioca tutto. Corre sia nelle gare individuali che nella staffetta, con i vecchi compagni Hansen e Nizielski e una new entry, Richard Goerlitz. Gli allenamenti dicono che possono sognare. Dopo Lillehammer, l’Australia vuole ancora una medaglia, magari qualcosa di più di un bronzo.
Nagano 1998 può essere la sua rivincita. E in effetti in semifinale l’Australia abbassa il riscontro cronometrico di quattro anni prima di quasi due secondi. Ma stavolta non basta. Il tempo che nel ’92 sarebbe valso un argento olimpico stavolta non è sufficiente neanche per qualificarsi alla finale. Una delusione atroce, resa ancora più amara dalle precoci eliminazioni nelle prove individuali. Bradbury però sa di avere ancora un’Olimpiade davanti. Salt Lake City 2002 è l’obiettivo, l’ultima occasione per lasciare il segno. Il destino, però, ha altri piani.
Anno 2000, un allenamento come tanti per arrivare al top a Salt Lake City 2002. Un pattinatore cade davanti a lui. Memore dell’incidente di sei anni prima, Bradbury fa di tutto per evitare di ferirlo con le lame. Istintivamente prova a saltarlo: una manovra che si rivela incauta, perché con il piede colpisce il ragazzo a terra, perde l’equilibrio e viene catapultato contro le barriere. L’impatto è devastante: silenzio, poi il dolore. La diagnosi è ancora una volta di quelle che tolgono il fiato: due vertebre cervicali fratturate. Si è spezzato il collo.
Un mese e mezzo di collare, operazioni su operazioni. Quattro perni nel cranio, viti nel torace, un dolore che non dà tregua. E parole che pesano come macigni. “Devi smettere. Non tornerai più sul ghiaccio”.
Bradbury dovrebbe arrendersi. Nessuno potrebbe biasimarlo. Ma dentro di lui si accende qualcosa, una fiamma che brucia più forte della paura. Non può accettare che tutto finisca così. Non dopo otto anni di sacrifici, non dopo tutto quello che ha passato. Vuole tornare. Deve tornare. E ce la fa, con la sua consueta forza di volontà tenterà la quarta avventura a cinque cerchi. La pagina finale della sua carriera, perché poco prima di partire annuncia che quelle a Salt Lake City 2002 saranno le sue ultime gare. Un’ultima battaglia contro il destino, per dimostrare a se stesso che il dolore non avrà mai l’ultima parola.
La Last Dance di Steven Bradbury
L’ultima Olimpiade della carriera si riduce a due sole gare individuali: 1500 metri e 1000 metri. La prima saranno i 1000, con batterie fissate il 13 febbraio e fasi finali il 16 febbraio 2002. Sarà un finale leggendario.
L’ennesimo infortunio lo ha rallentato e Bradbury arriva negli Stati Uniti senza grandi ambizioni. Il piano di gara concordato con la sua allenatrice, la cinese Ann Zhang, è essenziale: stare dietro, lasciar sfogare i più veloci e sperare in qualche caduta per strappare il passaggio del turno. Una strategia più prudente che vincente, ma comunque efficace. Almeno sulla carta.
Dopo aver superato la batteria iniziale, nei quarti di finale il suo cammino sembra già finito. Bradbury arriva terzo, e solo i primi due passano in semifinale. Ma quando tutto sembra perduto, ecco il colpo di scena: il campione del mondo Marc Gagnon viene squalificato per un’irregolarità. Bradbury scala in seconda posizione, dietro al grande favorito, il beniamino di casa Apolo Anton Ohno. In semifinale, è già oltre ogni aspettativa. Ma l’appetito vien mangiando.
Il piano resta invariato: pattinare in difesa, sperare. Anzi, si potrebbe quasi dire gufare. Davanti a lui, quattro avversari pericolosi: il campione olimpico in carica Kim Dong-sung, Li Jiajiun, Satoru Terao e Mathieu Turcotte. L’ultima tornata è un campo minato: Dong-sung perde il grip, Jiajiun e Turcotte si scontrano. Bradbury, che osservava tutto da dietro, trova un’autostrada libera e chiude secondo. Poi arriva la squalifica di Terao. Contro ogni logica, è in finale olimpica.
Stesso copione, nuovi attori. Davanti a lui, quattro avversari: Ohno, Jiajiun, Turcotte e un volto nuovo, il coreano Ahn Hyun-soo. Quattro atleti più veloci, più esplosivi. Bradbury non può tenere il loro passo.
La battaglia per l’oro è feroce fino all’ultima curva. Ohno è in testa, Jiajiun tenta un attacco disperato, allunga il braccio per afferrarlo e rallentarlo. Una manovra irregolare che innesca il caos. Ahn Hyun-soo prova a infilarsi all’interno, i tre si affiancano e accade l’impensabile: Jiajiun cade, Ohno sterza per evitarlo ma finisce per agganciare il coreano, trascinandolo giù. Turcotte, poco più indietro, non ha scampo e si schianta con loro. Bradbury è un passo più indietro. E quel passo fa tutta la differenza del mondo. Gli avversari scivolano via, lui li evita e taglia il traguardo. Oro. Clamoroso, insperato, quasi surreale. Il primo nella storia delle Olimpiadi invernali non solo per l’Australia, ma per tutto l’emisfero australe.
Non chiamatela fortuna: il lascito di Steven Bradbury
L’impresa fa il giro del mondo, amplificata in Italia dalla narrazione ironica e iconica della Gialappa’s Band, che la trasforma in un racconto generazionale, tramandato ancora oggi grazie ai social. Un successo così inatteso da diventare proverbiale: dopo anni di utilizzo nel gergo popolare, il termine “doing a Bradbury” entra nel 2016 nell’Australian National Dictionary, sinonimo di successo inatteso e apparentemente immeritato.
Negli Stati Uniti, la vittoria viene accolta con disprezzo. “Tartaruga che batte quattro lepri”, titolano i giornali. Qualcuno scrive che “ha vinto la persona sbagliata”. In patria, invece, Bradbury diventa un’icona. Il suo volto finisce sui francobolli dedicati ai campioni olimpici, e il governo gli riconosce una somma di ventimila dollari per i diritti d’immagine. Soldi che usa per comprarsi un’auto, dopo anni di sacrifici e spese mediche.
Se c’è chi lo celebra come un eroe di tenacia e resilienza, molti lo considerano solo un uomo fortunato. Ma Steven Bradbury ha sempre rivendicato quel successo.
Ero il più anziano in gara e mi sono gestito sapendo di non avere benzina per spingere al massimo per tre gare nello stesso giorno. Alcuni dicono che ho vinto solo per fortuna, ma la cosa non mi disturba: sono una medaglia d’oro olimpica e sono soddisfatto al 100% di un successo che ritengo di aver meritato. La vittoria non è il frutto di quel minuto e mezzo di gara, ma della sofferenza e della fatica fatti nei dieci anni precedenti. Fino a quel giorno a Salt Lake City non credevo nel karma, ora so che ne avevo accumulato molto con i gravi incidenti che avevo avuto.
E il suo riscatto non si è fermato a quei ventimila dollari. Dopo il ritiro, Bradbury trova finalmente un modo per guadagnare grazie allo sport che, in carriera, non gli aveva mai dato certezze economiche. Sponsorizzazioni, mental coaching, il ruolo di allenatore della staffetta australiana fino alla qualificazione a Torino 2006, a cui però partecipa solo in veste di commentatore.
Poi, una nuova sfida: il motorsport, in Formula Vee. Inserito nella Sport Australia Hall of Fame e insignito della Medaglia dell’Ordine d’Australia nel 2007, torna eroe nazionale nel 2022. Mentre fa surf con il figlio Flyn, nel Queensland, salva quattro ragazze dall’annegamento, guadagnandosi il Commendation for Brave Conduct da parte del governo.
Un altro epico finale, un altro giorno in cui il destino gli ha riservato il momento perfetto.
Steven Bradbury e Gialappa’s Band, binomio storico della tv italiana