Gabriel Batistuta, l’ultimo attaccante medievale

Gabriel Batistuta è stato uno degli attaccanti più forti e decisivi della Serie A a cavallo tra gli anni '90 e '00.

Oggi Gabriel Batistuta cammina quasi senza dolore. È stato operato, ha una protesi alla caviglia sinistra. Può persino giocare a golf, a padel e partecipare a partite di calcio tra vecchie glorie. Ma ci sono stati anni in cui si svegliava e malediceva il pallone. “Ho chiesto ai medici di amputarmi le gambe”, aveva dichiarato disperato nel 2019. E non era una frase detta per impressionare: Batistuta non riusciva più a stare in piedi per più di mezz’ora, il dolore lo paralizzava. Ogni appoggio era un colpo di martello sulle ossa. All’apice della sua sofferenza, era costretto a urinare a letto.

E pensare che a vederlo in campo, a cavallo tra gli anni ‘90 e i primi 2000, sembrava una macchina da guerra, una di quelle costruite per un solo scopo: segnare. Ma anche il ferro si piega e lui si è consumato come un’arma medievale usata per troppe battaglie.

Le origini del Re Leone

Prima che il suo nome diventasse una minaccia pronunciata con rispetto nei bar italiani, Gabriel Batistuta era un ragazzo alto e goffo di Reconquista, una cittadina sonnolenta del nord dell’Argentina dove la vita scorre lentamente e il calcio non è necessariamente un destino. Nato nel 1969, cresce lontano dalle grandi accademie calcistiche di Buenos Aires o Rosario.

I primi sport a cui si appassiona sono il basket e il volley. Il pallone arriva quasi per caso, e quando arriva, Batistuta non è nemmeno un attaccante puro. Gioca da centrocampista, da ala, viene usato come coltellino svizzero della fase offensiva, senza essere il fulcro delle operazioni né tantomeno il terminale della manovra. Lui corre e lotta disperatamente per il campo ma non ha ancora capito cosa vuole davvero dal gioco.

È il Mondiale del 1978, quello vinto dall’Argentina di Kempes e Passarella, a stregarlo per davvero. Gabriel ha nove anni quando sente per la prima volta una connessione profonda tra calcio e identità: vuole essere come quelli lì, che sembrano uomini capaci di riscrivere la realtà con un tiro.

La sua formazione calcistica avviene al Club Atlético Platense, a Reconquista, pura periferia dell’impero. A 19 anni, la svolta: viene notato in un torneo regionale da Marcelo Bielsa, all’epoca responsabile del settore giovanile del Newell’s Old Boys, dove però Gabriel riesce a racimolare appena 4 presenze. Troppo lento, troppo scolastico, dicono. Gli osservatori non vedono un predestinato: è eccessivamente pensante per essere un esterno, ma troppo grezzo per essere un fantasista. A quel ragazzo manca la scintilla.

Il River Plate gli dà un’altra opportunità: dal punto di vista atletico e della dedizione, Batistuta è un profilo ancora interessante. La sua esperienza con i Millonarios parte discretamente, poi arriva Passarella in panchina e Batistuta trova sempre meno spazio, concludendo la stagione con 23 presenze e 4 gol.

Il salto lo fa al Boca Juniors nel 1990: sotto la guida di Óscar Tabárez, che lo imposta come centravanti. Eccola, la scintilla. Il ragazzo sbocca improvvisamente, scopre di avere una forza nei piedi che nessuno gli aveva insegnato e inizia a segnare con una continuità disarmante. E in tutti i modi, da dentro e da fuori area, di piede e di testa. Con gli Xeneizes le presenze sono 47, i gol 19. L’ex esterno destro si laurea capocannoniere del torneo di Clausura 1991 con 13 reti ed è il secondo miglior marcatore della Copa Libertadores (6 centri).

Nel 1991 vince la Copa América con l’Argentina ed è capocannoniere. Pochi mesi dopo, approda alla Fiorentina: ha 22 anni, un ciuffo biondo e la faccia da attaccante degli anni ’70. Nessuno sa ancora quanto sia feroce.

L’ultimo attaccante medievale

Batistuta era un attaccante poco elegante. Madre natura non gli aveva donato la grazia di Van Basten la tecnica supersonica di Ronaldo. Era qualcos’altro: un guerriero da assedio, un uomo che scagliava il pallone in porta con la forza di chi sta sfondando un cancello. Nei suoi anni migliori, segnava in tutti i modi, ma c’era sempre un filo conduttore nei suoi gol: la violenza. Il destro su punizione a due in area che abbatte Lehmann in un Fiorentina–Milan del ‘98, il siluro sotto la traversa all’Old Trafford in Champions League nel 2000: gol che sembravano esecuzioni. Mai carezze al pallone, sempre botte.

Lui stesso raccontava che non si fidava del suo dribbling. “Io se potevo tirare, tiravo. Non sono mai stato uno che faceva troppi giochetti. Per me il calcio era segnare”. Ed era vero. Batistuta viveva per il gol, ma non come Inzaghi, che lo cercava ossessivamente nell’area piccola. Batistuta lo voleva con la brutalità di un cavaliere che entra nel castello nemico: con la forza e con il fuoco, con il minimo indispensabile.

Oggi il calcio ha quasi cancellato giocatori così: gli attaccanti sono diventati anche rifinitori, uomini da scambi stretti e pressing alto. Haaland, per certi versi, è il suo discendente più simile, un corpo che va dritto verso la porta senza troppi passaggi intermedi. Ma nel calcio contemporaneo si fatica a trovare una figura simile a Batistuta. Lewandowski è più tecnico, Kane più associativo, Mbappé semplicemente un’altra cosa.

Se guardiamo ai numeri, si capisce ancora meglio quanto fosse unico. Batistuta ha segnato 207 gol in 332 partite con la Fiorentina. Solo Hamrin ne ha fatti di più con la maglia viola. In Serie A 184 gol in 318 partite, con una media di 0.58 reti a gara, superiore a quella di gente come Del Piero, Vieri o Inzaghi. Ma quello che impressiona è la costanza: è andato in doppia cifra per 11 stagioni consecutive in Italia, un record per un attaccante che ha giocato così a lungo in squadre che spesso non lottavano per vincere il campionato.

Eppure, nonostante i suoi numeri, Batistuta non è mai stato un uomo da Pallone d’Oro soprattutto perché, banalmente, ha giocato in un’era piena zeppa di fuoriclasse.

L’eroe tragico della Serie A anni ‘90

Se si dovesse scrivere un film sulla carriera di Batistuta, non sarebbe un racconto di trionfi scintillanti e successi in serie. Più probabilmente sarebbe un dramma sportivo con una trama basata sull’attesa e il culmine narrativo di una vittoria arrivata quasi troppo tardi. Batistuta per molti anni è stato l’eroe tragico della Serie A anni ‘90, il più grande attaccante a non vincere ciò che avrebbe meritato.

Quando arriva in Italia, nel 1991, il calcio italiano è il centro del mondo. La Serie A ha Van Basten, Baggio, Gullit, Matthäus, Maradona. Batistuta sceglie la Fiorentina o, più che altro, viceversa. Nessuno si aspettava che sarebbe rimasto lì così a lungo. Il primo anno segna 13 gol, il secondo 19. È un centravanti letale, giovane, già pronto per una grande squadra. Eppure resta a Firenze.

Nel 1993, la Fiorentina retrocede. È l’evento che avrebbe dovuto cambiare la sua storia perché un attaccante del suo livello, capocannoniere della squadra, con offerte da club più ambiziosi, avrebbe dovuto andarsene. Invece resta, di nuovo. Gioca in Serie B e segna 16 volte, riportando i viola immediatamente in A. La città lo ama, il legame si fa indissolubile: in realtà Batistuta sta inconsapevolmente firmando la sua condanna, almeno secondo chi crede che nelle carriere pesino soltanto coppe e medaglie.

Dal 1994 al 2000, diventa il miglior attaccante del campionato. Nel ‘95 vince la classifica marcatori con 26 gol, segnando per 11 giornate consecutive, un record che resisterà fino al 2019, quando sarà battuto da Quagliarella. Nel ‘96 vince la Coppa Italia e la Supercoppa.

Soltanto nel 1999, a 30 anni, decide di cambiare. Se ne va alla Roma, con un solo pensiero in mente: diventare campione d’Italia. Nella sua prima stagione, con Capello in panchina, segna 20 gol in 28 partite. È il trascinatore di una squadra di altissimo livello, con Totti e Montella a supporto. Il 6 maggio 2001, in Roma-Fiorentina, sigla il gol decisivo contro la sua ex squadra e scoppia in lacrime. È la fotografia della sua carriera: un uomo che ha dato tutto per un club che non gli ha permesso il trionfo, costretto a batterlo per conquistare quello che meritava.

Il 17 giugno 2001, la Roma si cuce addosso lo scudetto: è il momento più alto della carriera di Batistuta oltre che il riscatto di un’intera generazione di tifosi romanisti. Ma è anche l’inizio della fine. Batistuta ha giocato quella stagione con dolori alle caviglie devastanti, forzando ogni allenamento. Dopo lo scudetto, il declino è rapidissimo: nel 2001-02 segna solo 6 gol in giallorosso, nel 2002-03 viene ceduto all’Inter dove diventa chiaro che la Serie A corre a una velocità che lui non può più permettersi. Vola in Qatar per l’ultima scorpacciata di gol.

La brutalità di Gabriel Batistuta

Gabriel Batistuta segnava spesso da fuori area. In Serie A ha realizzato 41 gol dalla distanza, più di molti centrocampisti o trequartisti specializzati nel tiro da fuori. Per fare un confronto, Francesco Totti ne ha segnati 47, ma in oltre 600 partite di campionato, mentre l’argentino ha giocato “solo” 318 volte in A.

Anche nei calci piazzati il suo approccio era lo stesso. Le punizioni di Batistuta non erano parabole dolci e allo stesso tempo avvelenate o arrotate come quelle di Pirlo o Mihajlović, erano cannonate.

In carriera ha mantenuto una media di 0.54 gol a partita, un dato impressionante considerando che ha giocato quasi sempre in squadre che non dominavano il campionato. Per fare un confronto: Vieri viaggiava a 0.51, Crespo a 0.46, Inzaghi a 0.43.

L’amore non corrisposto tra Gabriel Batistuta e la Nazionale

In Argentina, dire Batistuta significa evocare un sentimento ambiguo perché il Re Leone non è mai stato un simbolo intoccabile come Maradona, né un idolo globale come Messi. Eppure, tra i due ha fatto da ponte, mentre intorno a lui spesso c’era il caos.

Gabriel ha vestito la maglia dell’Albiceleste 78 volte segnando 56 gol: nessun attaccante argentino ha tenuto la sua media realizzativa, nemmeno Messi nei suoi primi cento match con la Selección. Eppure, il suo rapporto con la Nazionale è stato tutto tranne che lineare.

Il primo lampo arriva nel 1991, a Santiago del Cile. Batistuta ha solo 22 anni e gioca ancora in Argentina, ma è già il capocannoniere della Copa América. L’anno dopo, si ripete in Ecuador. L’Argentina vince due tornei consecutivi, lui segna 6 gol in 6 partite in ciascuna edizione. Sono i suoi primi trofei internazionali, e per molti anni resteranno anche gli unici.

Al Mondiale di USA ’94, è al centro dell’attacco più sregolato e affascinante del torneo. A supportarlo c’è Maradona. Ma la magia dura poco. Dopo due partite Diego viene trovato positivo all’efedrina e mandato a casa. L’Argentina crolla, Batistuta segna comunque 4 gol in 4 partite (una tripletta alla Grecia).

Quattro anni dopo, a Francia ’98, la scena si ripete. L’Argentina arriva ai quarti, gioca un calcio brillante, ma cade contro l’Olanda. Batistuta segna 5 gol, tra cui un’altra tripletta, stavolta alla Giamaica. È l’unico calciatore nella storia ad aver segnato tre gol in due Mondiali diversi. Il suo cammino, però, si interrompe sempre prima del traguardo.

Nel 2002, al terzo Mondiale, qualcosa si è già spezzato. Ha 33 anni, i piedi pieni di cicatrici e le caviglie compromesse. Si gioca il posto da titolare con Crespo, ma alla fine Bielsa sceglie Batigol. L’Argentina è irriconoscibile, segna appena due gol in tre partite e viene eliminata al girone. Batistuta esce dal campo in lacrime, consapevole che è finita. È la sua ultima partita in Nazionale.

Quella tra Batigol e l’Argentina è una storia d’amore mai del tutto corrisposta. Ha segnato quando nessun altro segnava, ha portato peso e responsabilità in squadre spesso senza una struttura tecnica credibile. È stato un attaccante puro in un Paese che ama i numeri dieci. Eppure, nei momenti peggiori, lui ha sempre risposto presente, segnando. Non è un caso che Lionel Messi, dopo aver battuto il suo record di gol in Nazionale, abbia detto: “Superare Batistuta è qualcosa che non avrei mai immaginato. Lui era il mio idolo”.

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