La Coppa delle Fiere ha cambiato l’Europa del calcio

La Coppa delle Fiere è stata fondamentale per far raggiungere al calcio la dimensione internazionale che ha oggi.

Le coppe europee sono cambiate più volte, mutando forma e perfino nome. Su iniziativa di federazioni nazionali e continentali o di singoli dirigenti, sono stati effettuati molti tentativi più o meno riusciti che permettessero ai vari club nazionali di confrontarsi con avversarie straniere. Tra le coppe ormai relegate negli archivi, la Coppa delle Fiere è una delle più affascinanti, sia per l’idea originaria, sia per la propria capacità evolutiva, sfociata nell’attuale Europa League. Ripercorriamo alcune tappe di questa competizione, tra volti celebri e stagioni dilatate nel tempo, fino ad arrivare alla finalissima che ne ha sancito la chiusura.

La rivoluzione sovranazionale del calcio anni ’50

Gli anni ’50 possono essere considerati il decennio della rivoluzione internazionale del calcio. Molte sono state le iniziative finalizzate a consegnare allo sport più popolare al mondo una dimensione sovranazionale. A partire dai Mondiali, che dopo la forzata interruzione bellica sono tornati a essere disputati proprio nel 1950 a dodici anni dall’ultima volta, con tanto di tragedia sportiva del Maracanazo le cui implicazioni andarono oltre il campo, cui ha fatto seguito il harakiri della Grande Ungheria nel 1954. Due epiloghi clamorosi, carichi di suspense ed emozioni, che non hanno fatto che accelerare un processo in realtà già in essere da tempo: la volontà di creare anche per i club un contesto al di fuori del proprio campionato, in cui potersi confrontare con squadre dello stesso blasone.

D’altro canto alcuni esperimenti erano già stati avviati, pur con esiti non sempre lineari. Si pensi alla Mitropa Cup, nata nel lontano 1927 come Coppa dell’Europa Centrale – Mitropa è, appunto, una contrazione della parola “mitteleuropea” – e capace di unire le squadre provenienti dai campionati di Austria, Ungheria, Cecoslovacchia e Jugoslavia, quest’ultima poi rimpiazzata dall’Italia. Fu proprio grazie alla Mitropa che l’Italia ottenne le prime vittorie in ambito internazionale grazie al Bologna. Dapprima nel 1932, quando i felsinei vinsero a tavolino a causa della squalifica contemporanea delle altre due semifinaliste (la Juventus perché i tifosi avevano colpito il portiere avversario con un sasso e lo Slavia Praga per essersi ritirato dalla sfida a fronte di tale intemperanza), quindi nel 1934, stavolta sul campo: in una doppia sfida piena di colpi di scena e ribaltoni, i rossoblù rimontarono la sconfitta per 3-2 dell’andata in casa dell’Admira Wien – a sua volta capace di imporsi nonostante l’iniziale 0-2 in favore degli ospiti – vincendo con un perentorio 5-1 il match di ritorno allo Stadio del Littoriale, oggi noto come Stadio Renato Dall’Ara.

Purtroppo l’avvento della Seconda guerra mondiale aveva portato alla sospensione della competizione, successivamente ripresa ma fortemente ridimensionata dalla nascita di altri trofei concorrenti. Inizialmente circoscritta a un torneo a inviti, nel tempo è diventata una sorta di Coppa dei Campioni per squadre di seconda serie, sopravvivendo in questa nuova formulazione dal 1979 al 1992. L’ultima edizione è stata vinta dal Borac Banja Luka dopo numerose affermazioni da parte di squadre italiane, quali Udinese (1980), Milan (1982), Pisa (1986 e 1988), Ascoli (1987), Bari (1990) e Torino (1991).

Altra competizione regionale è stata la Coppa Latina, considerata una sorta di antenata della Coppa dei Campioni – vinta due volte dal Milan – e destinata ai campioni nazionali di Italia, Francia, Spagna e Portogallo, mentre solo in epoca successiva fu la volta della Coppa Anglo-Italiana. Perfino fuori dal Vecchio Continente il bisogno di un confronto tra squadre di club si fece più acceso, tanto che nel 1952 è stata creata la Pequeña Copa del Mundo, un torneo a inviti ideato dalla federazione calcistica del Venezuela – che infatti, dopo una sospensione di sei anni, fu riesumato con il nome di Trofeo Ciudad de Caracas – per unire club europei e sudamericani.

Nel frattempo anche i club fuori dalle zone geografiche coinvolte da queste competizioni a carattere regionale avevano iniziato a viaggiare in tournée, con il risultato di rendere ancora più evidente la grande voglia generalizzata di mettere a confronto le varie eccellenze nazionali. Basti pensare ai match organizzati in notturna dallo Wolverhampton, prima squadra a installare dei riflettori nel proprio stadio: su tutti, la partita che ha cambiato le sorti del calcio continentale è quella disputata contro il leggendario Honvéd. Un 3-2 in favore degli inglesi, autoproclamatisi “campioni del mondo per club” a seguito del trionfo. Un guanto di sfida che ha avuto il risultato di spingere definitivamente L’Équipe e i vertici del calcio nella direzione di tornei continentali globali e non limitati solo ad alcune zone dell’Europa. E così nel 1955 nacquero la Coppa dei Campioni e la Coppa delle Fiere, mosse da intenti e modalità diverse ma destinate a catalizzare l’interesse del popolo calciofilo.

A ideare la Coppa delle Fiere furono tre personaggi particolarmente influenti all’interno della FIFA: il vice-presidente Ernst Thommen, il membro del comitato esecutivo Ottorino Barassi – all’epoca anche presidente della FIGC – e il segretario generale della FA Stanley Rous, nominalmente unico tra i partecipanti a non far parte della federazione internazionale ma di fatto uomo di grande influenza: dopo anni di grande stabilità, frutto della presidenza trentennale di Jules Rimet, nel 1954 la federazione aveva voltato pagina con la nomina a presidente del belga Rodolphe Seeldrayers, tuttavia morto dopo appena un anno mentre era in carica. La transizione aveva portato, quindi, alla scelta di un inglese, Arthur Drewry, che stava caldeggiando particolarmente l’inclusione dei club suoi connazionali in un contesto competitivo internazionale, avvalendosi quindi dell’operato del presidente della propria federazione nazionale. Anche Drewry, peraltro, morirà in carica nel 1961, sostituito prima da Thommen e poi proprio da Stanley Rous, il cui mandato durerà per tredici anni.

L’idea iniziale fu quella di unire il calcio con altri scopi sociali, in particolare la promozione delle fiere cittadine, un tema già presente nelle prime edizioni dei Giochi Olimpici. Così si stabilì che, di fianco alla Coppa dei Campioni, con cadenza stagionale, le città fieristiche più importanti avrebbero partecipato a una rassegna internazionale estesa su più anni grazie a formazioni che rappresentassero più una selezione cittadina che una squadra realmente esistente. La prima edizione prese il via nel 1955 e, stante la sua particolare conformazione, durò addirittura tre anni.

Le edizioni pluriennali, nel nome del Barcellona

Alla prima Coppa della Fiere dovrebbero prendere parte dodici squadre. Il condizionale è d’obbligo, perché Vienna XI e Stoccolma XI si tirano indietro, costringendo l’organizzazione a ripiegare su due gironi da tre squadre e due gironi da due. Tra le dieci partecipanti, tuttavia, emergono tre squadre di club “vere” e non rappresentative cittadine: Birmingham City, Losanna e Inter. Forti della loro amalgama, le squadre già preesistenti spiccano nei gironi. La più sfortunata è l’Inter, inserita nel girone proprio del Birmingham City: dopo aver pareggiato lo scontro diretto a Milano nella prima giornata, le due squadre seguono un cammino simile, in cui i nerazzurri arrivano a giocarsi l’ultimo turno avanti al Birmingham grazie a una miglior differenza reti e consapevoli che potrebbero arrivare primi anche con un pareggio. Tuttavia allo Stadio St. Andrew’s una doppietta di Alex Govan indirizza la qualificazione verso la squadra inglese, rendendo vano il gol della bandiera di Benito Lorenzi nei minuti conclusivi.

Ancora più rocambolesca è la qualificazione del Losanna, inserito in uno dei due gruppi a sole due squadre: dopo aver perso 6-3 in casa del Lipsia XI, a distanza di sette mesi ribalta clamorosamente l’incontro. Sotto di un gol dopo meno di un quarto d’ora, gli svizzeri reagiscono con veemenza e chiudono sul 7-3 grazie alla tripletta di Norbert Eschmann. Le prime classificate dei quattro gironi si incontrano, quindi, in semifinale. Gli accoppiamenti si rivelano estremamente equilibrati: nella prima sfida, dopo aver perso 2-1 in Svizzera, la selezione londinese – che vanta alcuni tra i migliori calciatori delle molte squadre della capitale, tra cui l’oriundo Eddie Firmani, nazionale azzurro e futuro interista – riesce a imporsi 2-0 a Stamford Bridge.

Il percorso verso la finale è invece tutt’altro che lineare per il Barcellona XI: sconfitto per 4-3 a Birmingham, solo nei minuti conclusivi del ritorno al Camp Nou il mitico László Kubala sigla, all’82’, il gol necessario a portare la contesa allo spareggio in campo neutro. A Basilea, appena due settimane dopo, anche il match decisivo è all’insegna dell’equilibrio. A scrivere la sentenza è ancora Kubala, stavolta all’83’, che con il gol del definitivo 2-1 manda in finale gli spagnoli.

L’atto conclusivo tra London XI e Barcellona XI si rivela, invece, meno equilibrato del previsto: se nello stadio del Chelsea i padroni di casa riescono a riprendere due volte gli avversari, chiudendo l’incontro sul 2-2, al Camp Nou l’ira funesta del futuro interista Luisito Suárez porta l’incontro su binari comodi. Doppietta nei primi otto minuti di gioco e 6-0, per il primo trionfo blaugrana al di fuori del territorio spagnolo.

Un’edizione fortunata ma ritenuta troppo dispersiva: il primo match, disputato il 5 giugno 1955 tra Basilea XI e London XI, e la finale di ritorno del 1 maggio 1958 sono separati da un intervallo troppo lungo. Anche perché il calciomercato portava i giocatori a cambiare squadra e magari perdere i criteri per far parte delle selezioni locali, che per loro conformazione già faticavano a trovare il necessario affiatamento. Vengono quindi apportati dei cambiamenti finalizzati a snellire la formula: biennale e non più triennale, con sedici partecipanti e una formula senza fase a gironi. La competizione presenta una struttura a eliminazione diretta, che rimarrà intatta fino al termine del suo viaggio. Solo sei sono, inoltre, le rappresentanze cittadine: le città che si erano contese il titolo nell’edizione precedente scelgono di puntare su uno dei loro club – Chelsea e Barcellona – mentre arrivano nuove richieste di adesione da tutta Europa.

Le due italiane partecipanti vengono eliminate ai quarti: la Roma, eliminata dall’Union Saint-Gilloise, e nuovamente l’Inter. Pur perdendo in maniera netta contro un Barcellona troppo forte, l’accoppiamento dei quarti rappresenta l’occasione per Angelo Moratti di incontrare direttamente due dei protagonisti del ciclo nerazzurro degli anni ’60, ossia il già citato Suárez e il tecnico Helenio Herrera, alla guida dei blaugrana. Proprio la squadra del Mago, all’epoca anche ct della Spagna, si impone nella doppia finale del 1960, una sorta di revival della combattuta semifinale dell’anno precedente contro il Birmingham City. Un canovaccio, in realtà, molto più simile a quello visto l’anno precedente contro i London XI: pareggio in terra albionica favorito dal campo molto pesante – stavolta per 0-0 – quindi un match di ritorno indirizzato sin dalle prime battute, con due gol nei sei minuti iniziali. 4-1 il risultato e secondo trofeo per il Barcellona. A spezzare l’egemonia catalana sarebbe arrivato il primo e unico successo italiano nella competizione.

Immagini d’epoca della prima, storica finale di Coppa delle Fiere

L’anno dell’Italia: il trionfo della Roma

La terza edizione è la prima a svolgersi nell’arco di una singola stagione calcistica, la 1960-61. Un aspetto interessante riguarda la posizione del Barcellona campione in carica. Avendo vinto la Liga nel 1960, i blaugrana si sono garantiti il diritto di partecipare alla Coppa dei Campioni ma, in qualità di campioni uscenti, devono anche difendere il titolo in Coppa delle Fiere, risultando il primo caso di squadra a disputare due diverse competizioni continentali nel corso della medesima stagione calcistica. Non l’unica, dato che tra le partecipanti ci sono altre tre squadre che devono affrontare un destino simile: l’Újpest e la Stella Rossa, in lizza per la Coppa dei Campioni e la Dinamo Zagabria, tra le contendenti della neonata Coppa delle Coppe. Le due squadre jugoslave decidono di partecipare alle due rassegne con nomenclature diverse, iscrivendosi come Zagabria XI e Belgrado XI per mantenere il senso dell’idea originaria della competizione.

Un impegno che si rivela forse troppo gravoso anche per un gigante come il club catalano, che stavolta interrompe la sua corsa ai quarti di finale in un clima tutt’altro che piacevole, sia letteralmente che figurativamente. Dopo aver eliminato in rimonta gli Zagabria XI agli ottavi, i Culés incrociano i guantoni – termine non casuale, come vedremo – contro l’Hibernian. Un match a cui le due squadre si presentano in maniera radicalmente diversa: gli spagnoli sono provati dal doppio impegno e stanno concentrando le proprie energie sulla Coppa dei Campioni, durante la quale sono riusciti a eliminare i rivali del Real Madrid, sin lì dominatori assoluti con cinque vittorie in cinque anni. Dall’altro lato, gli scozzesi non hanno neanche il carico del turno precedente, superato senza giocare a discapito del Losanna.

L’andata, giocata al Camp Nou due giorni dopo Natale, è una battaglia epica, conclusa 4-4 grazie alla rimonta guidata dal leggendario Sándor Kocsis, autore di una tripletta. È il preludio a un ritorno destinato a rimanere negli annali: all’Easter Road di Edimburgo si gioca sotto una pioggia torrenziale favorevole agli scozzesi, sia per l’abitudine a giocare in condizioni simili, sia per la minor cifra tecnica. Nel corso dell’incontro si assiste anche a un temporale che porta a una momentanea sospensione, perché i fulmini mettono a rischio l’incolumità del pubblico presente. L’incontro è vibrante e pieno di capovolgimenti di fronte, gli scozzesi vanno in vantaggio al 10’ ma all’intervallo il Barcellona ha già ribaltato il risultato. Nella ripresa accade l’incredibile, prima col pareggio di Thomas Preston al 74’, quindi con un contestatissimo rigore trasformato da Bobby Kinloch all’85’. Una decisione presa in maniera tutt’altro che sportiva dagli ospiti, che accerchiano l’arbitro – il tedesco Johannes Malka – per cercare di intimidirlo una volta fischiato il penalty. Il match si conclude 3-2 tra le polemiche e gli atteggiamenti minacciosi dei blaugrana, a cui il giudice di gara risponderà in maniera perentoria:

Se mi richiameranno ad arbitrare il Barcellona mi presenterò in campo con una lancia e una pistola.

In questo scenario si presenta quindi l’occasione di variare rispetto al passato. Le italiane partono molto bene: l’Inter, guidata da Helenio Herrera, supera agevolmente gli ottavi – rifilando quattordici reti complessive all’Hannover tra andata e ritorno – e i quarti, nei quali il 5-0 dell’andata è sufficiente a domare i Belgrado XI e controllare il ritorno senza particolari patemi. Più faticoso il percorso della Roma che, dopo essersi presa la rivincita a discapito dell’Union Saint-Gilloise, nei quarti di finale incrocia il Colonia. Una qualificazione che dopo il 2-0 per i giallorossi in trasferta pare già in archivio. Non sarà così: a Roma i tedeschi disputano una gara attenta e si impongono con il medesimo risultato grazie anche alla rete siglata nei minuti conclusivi dal futuro giallorosso Karl-Heinz Schnellinger, particolarmente avvezzo ai gol pesanti nel finale, come testimonia il pareggio al 90’ che ha reso possibile il mito della Partita del Secolo dell’Azteca nel 1970.

La Roma allenata da Alfredo Foni, tuttavia, è fortunata con la sorte: non esistendo ancora i supplementari, è previsto un sorteggio che, a differenza di quanto accaduto nella prima edizione, non si può disputare in campo neutro. O si viene sorteggiati in casa o in trasferta. E il sorteggio dice Roma: all’Olimpico, il 1° marzo 1961, i giallorossi liquidano il Colonia con il punteggio di 4-1 (lo stesso con cui hanno sconfitto l’Union Saint-Gilloise), accedendo alla semifinale. Grazie alla sopracitata battaglia di Easter Road, la Roma evita il Barcellona e pesca l’Hibernian, mentre l’Inter trova innanzi a sé quella che nei fatti è diventata la grande favorita, ossia il Birmingham City che negli anni precedenti si è arreso solo al Barcellona.

I nerazzurri vengono eliminati in maniera piuttosto perentoria: sconfitta per 2-1 sia a San Siro che al St. Andrew’s, peraltro sempre con un doppio svantaggio da ribaltare. Per la Roma, invece, è un’altra battaglia che contrappone da un lato il temperamento testaccino dei giallorossi, dall’altro la tenacia degli scozzesi. E dire che in Scozia il risultato sembra dare sufficienti garanzie: la Roma va due volte in vantaggio con i gol di Francisco Lojacono, salvo venire in entrambi i casi ripresa. Un 2-2 che sembra gestibile ma che in realtà preoccupa molto mister Foni. Il ritorno si gioca il 26 aprile 1961, all’indomani di un’amichevole disputata dalla nazionale azzurra a Bologna contro l’Irlanda del Nord. Tra i giocatori convocati e utilizzati dal ct Giovanni Ferrari figura anche Giacomo Losi, capitano e guida spirituale della Roma. Le condizioni normali imporrebbero un po’ di riposo per il difensore di Soncino ma, appena questi arriva nell’albergo in cui la squadra è in ritiro, Foni gli chiede:

Non sono tranquillo, te la senti di giocare?

Un giocatore con il cuore di Losi non può certo tirarsi indietro. Il capitano è titolare all’Olimpico in un match che conferma i timori della vigilia: dopo il vantaggio firmato da Pedro Manfredini, detto Piedone a causa di una prospettiva ingannevole nella foto scattata mentre scendeva dall’aereo che lo aveva portato nella capitale dall’Argentina e nella quale pareva avere un piede enorme, gli scozzesi si portano avanti per 3-1 grazie al gol di Kinloch e alla doppietta del futuro torinista Joe Baker. I padroni di casa reagiscono e trovano il 3-3 grazie ai centri dei soliti Manfredini e Lojacono, prima che nel finale Losi compia il suo destino. Ancora Joe Baker va a caccia della tripletta: supera Cudicini, ma trova il salvataggio sulla linea del capitano.

La regola dei gol in trasferta non esiste, sarà ancora spareggio. Ed è ancora fortunata la Roma a poterlo giocare all’Olimpico. Anche stavolta il risultato è perentorio, addirittura un tennistico 6-0 che garantisce l’accesso alla finale contro il Birmingham City. Che tuttavia si disputa tra settembre e ottobre 1961, formalmente sconfinando nella successiva stagione calcistica, quando sulla panchina siede ormai Luis Carniglia al posto di Alfredo Foni e un campione come Juan Alberto Schiaffino ha fatto spazio ad Antonio Angelillo, già impegnato nei turni precedenti con la maglia dell’Inter.

Come già accaduto, all’andata in terra inglese la Roma si dimostra fragile nella gestione del vantaggio: avanti per 2-0 con la doppietta di Manfredini – capocannoniere con 12 reti – si fa raggiungere dagli inglesi nell’ultimo quarto d’ora, impattando per 2-2. Ma l’11 ottobre 1961, all’Olimpico, un autogol di Brian Farmer e il centro di Paolo Pestrin completano una stagione d’oro per il calcio italiano, che già si era fregiato della prima Coppa delle Coppe grazie alla Fiorentina. 2-0 e trionfo giallorosso, con il capitano Losi premiato personalmente dal presidente della FIFA, quello Stanley Rous che sei anni prima aveva contribuito a creare una competizione che sta avendo un grande successo.

Waldo Machado e l’era spagnola

Conclusa la parentesi giallorossa, la competizione torna a vele spiegate a prendere la direzione della penisola iberica. Un dominio agevolato dall’allargamento della stagione 1961-62: la grande popolarità maturata negli anni precedenti ha spinto il comitato organizzatore a un allargamento a 28 squadre, di cui quattro già qualificate agli ottavi e le altre chiamate a disputare il primo turno. Mentre tra le italiane fa il suo esordio – piuttosto mesto, con eliminazione al primo turno per mano del Novi Sad – il Milan, l’allargamento comporta l’iscrizione di tre squadre spagnole. Oltre al Barcellona e ai rivali cittadini dell’Espanyol, ai nastri di partenza c’è il Valencia.

E sono proprio i Murciélagos, trascinati dalla stella Waldo Machado, la nuova sensazione del torneo. Attaccante brasiliano, Waldo ha la sfortuna di vivere nell’epoca aurea della Seleçao, con la quale ha collezionato solo 5 presenze e 2 reti in nazionale ai tempi del Fluminense, venendo totalmente ignorato al momento dell’approdo in Europa. Che arriva proprio nel 1961, anno di esordio del Valencia in Coppa delle Fiere. L’impatto del brasiliano è fragoroso: nel primo turno segna due doppiette al Nottingham Forest, quindi realizza il decisivo 4-3 degli ottavi, disputati in maniera anomala in gara secca, contro il Losanna. Ai quarti la strada del Valencia si incrocia con quella dell’ultima italiana superstite, l’Inter: proprio il brasiliano segna il 2-0 all’andata, che garantisce alla sua squadra di disporre del vantaggio giusto per affrontare al meglio e senza particolari preoccupazioni la sfida del ritorno, piegando le resistenze dei nerazzurri guidati dal neoacquisto Suárez. La semifinale contro l’MTK Budapest è una mattanza: dieci gol complessivi per il Valencia, tre per Waldo e la garanzia di poter giocare il primo, storico derby in finale contro il Barcellona.

Già, dopo i disguidi dell’anno precedente il club blaugrana, ancorché privo di Suárez e Kubala (ceduto proprio ai “cugini” dell’Espanyol) è la squadra da battere, ancora trascinata da Kocsis, agli ultimi anni di una grande carriera. Proprio l’ungherese prova a prendere per mano i suoi nell’andata della finale al Mestalla, segnando due reti in venti minuti. Nel Valencia il capocannoniere si è inceppato ma non Vicente Guillot: è lui, con una tripletta, a guidare la riscossa e determinare il 6-2 con cui la squadra di casa indirizza la doppia sfida e sovverte il pronostico. Al Camp Nou basta un 1-1 senza grossi patemi per iscrivere il Valencia nell’albo d’oro.

E nella stagione 1962-63 arriva il bis. Le partecipanti diventano 32, viene introdotto – anche se solo parzialmente e limitatamente ad alcune leghe – il criterio di qualificazione sulla base del piazzamento in campionato e, di conseguenza, la platea delle squadre cambia: Inter e Milan lasciano il posto alla Sampdoria, mentre il Zaragoza rimpiazza l’Espanyol. Se la Sampdoria, dopo aver piegato i lussemburghesi dell’Aris Bonnevoie, viene spazzata via senza troppe cerimonie dal Ferencváros, diverso è il cammino della Roma, che sembra poter sperare in un ritorno sul trono dopo il giro a vuoto dell’anno precedente. Al primo turno i giallorossi superano agevolmente i turchi dell’Altay, facendo registrare il risultato più ampio di un’italiana in una partita ufficiale disputata al di fuori dei nostri confini, il 10-1 del ritorno all’Olimpico. Tra le loro vittime figurano anche due squadre quotate, ossia proprio il Zaragoza e la Stella Rossa, grazie a prove convincenti nei match di andata.

L’ostacolo invalicabile sarà tuttavia proprio il Valencia, incrociato in semifinale: dopo aver eliminato a fatica gli scozzesi del Celtic, del Dunfermline – piegato solo nella partita spareggio in casa dopo una sfida dall’andamento bislacco, con un 4-0 all’andata e una sconfitta per 6-2 al ritorno – e dell’Hibernian, gli spagnoli hanno la meglio della Roma al Mestalla con un perentorio 3-0, vanificando il successo giallorosso al ritorno. In finale contro la Dinamo Zagabria, la Taronja si trova in svantaggio ma, trascinata da un gol del solito bomber carioca, capovolge il risultato: 2-1 in trasferta e 2-0 in casa al ritorno, laureandosi nuovamente campione della Coppa delle Fiere. Con il centro in finale, Waldo Machado raggiunge quota 6, diventando il primo calciatore, assieme a Pedro Manfredini a vincere per due volte la classifica cannonieri.

Lo supera nell’edizione seguente, la 1963-64, nella quale con altri sei gol il brasiliano si assicura il terzo titolo di capocannoniere in tre anni. Quello del Valencia è un cammino netto fino alla finale, quando tuttavia le cose cambiano radicalmente. All’atto conclusivo c’è ancora un derby spagnolo, in questo caso contro il Zaragoza, tanto che l’organizzazione organizza la finale in gara secca a Barcellona, come banco di prova per gli imminenti Europei in terra iberica. A spuntarla, stavolta, sono gli aragonesi, guidati da Los Cincos Magnificos, un sensazionale quintetto d’attacco formato da Canário, Carlos Lapetra, Marcelino, Eleuterio Santos e Juan Manuel Villa. Proprio Villa e Marcelino sono gli autori dei gol decisivi.

A spezzare, solo momentaneamente, l’egemonia spagnola contribuisce il torneo 1964-65, problematico a livello gestionale a causa dell’aumento delle partecipanti a 48. Un numero che genera molto caos nell’individuazione della formula corretta al punto che, dopo il terzo turno, l’organizzazione è costretta a un sorteggio per mandare due delle sei squadre qualificate direttamente alla semifinale. A spuntarla nel sorteggio sono dei “volti nuovi” della competizione, Atlético Madrid e Juventus, poi una di fronte all’altra nel penultimo atto del torneo. Dall’altro lato del tabellone, il Manchester United si trova a dover fronteggiare un Ferencváros apparentemente meno forte delle altre contendenti e reduce da un cammino molto faticoso. Dopo un primo turno superato tra i rischi contro lo Spartak Brno, infatti, la squadra di Budapest fa molta fatica a emergere, eliminando al secondo turno il Wiener Club solo grazie allo spareggio. La stessa cosa accade con il netto 3-0 nella “bella” dei quarti di finale contro l’Athletic Bilbao, cui i biancoverdi sono giunti eliminando la Roma senza particolari patemi. Nonostante questo percorso incerto, a sorpresa sono proprio i magiari a trionfare, trascinati da un campione come Flórián Albert ma anche da una sorpresa come Mate Fenyvesi, di professione chirurgo veterinario e grande protagonista del torneo. L’esterno sinistro ungherese, infatti, è determinante dagli ottavi in poi, prima con il secondo gol dei suoi all’Olimpico nel match terminato 2-1 per gli ospiti, quindi grazie a una doppietta nel match decisivo con l’Athletic, salendo ulteriormente in cattedra dalle semifinali in poi.

Le semifinali sono segnate da un equilibrio insolito: entrambi gli accoppiamenti vengono infatti risolti al match di spareggio. Dopo aver perso in rimonta 3-1 all’Estadio Metropolitano di Madrid contro l’Atlético grazie alla tripletta del futuro ct iberico Luis Aragonés, i bianconeri si portano avanti per 3-0 al Comunale, subendo il 3-1 ancora da Aragonés all’83’. Nella ripetizione, disputata una settimana dopo ancora a Torino, un altro 3-1 permette alla Vecchia Signora di raggiungere la finale, ma con un mistero: l’inspiegabile assenza di Omar Sívori, rimasto in panchina. Nell’altra sfida non basta il talento smisurato dei Red Devils di George Best e dei capocannonieri Bobby Charlton e Denis Law, entrambi a quota 8 a fine torneo: dopo il 3-2 a Old Trafford, in Ungheria un rigore molto dubbio realizzato da Dezső Novák regala una vittoria di misura utile a trascinare il duello alla “bella”. A sorpresa, ancora in terra magiara, è il Ferencváros a spuntarla per 2-1, con il secondo gol siglato dal solito Fenyves.

Per il secondo anno di fila, la finalissima si svolge in partita secca ma non in campo neutro. Il teatro scelto è il Comunale di Torino ma anche stavolta Heriberto Herrera, tecnico dei bianconeri, persevera nella scelta impopolare già effettuata nello spareggio della semifinale ed esclude nuovamente Sívori dalla contesa. Una decisione incomprensibile, a maggior ragione alla luce di una prestazione nettamente sottotono dei bianconeri. Il Ferencváros, d’altro canto, forte delle pessime condizioni dei rivali, controlla senza forzare, limitandosi ad amministrare l’incontro sin quando, al 74’, trova il sigillo che vale la coppa. A risolvere il match è, come al solito, Fenyvesi, che si prende una gloria inattesa e porta il primo alloro continentale all’Ungheria. Resterà solo una parentesi isolata, prima che la tendenza si ribalti completamente.

La zuccata vincente di Fenyvesi, un’occasione persa per la Juventus

L’ultimo sigillo spagnolo e l’era inglese

Come detto, la Coppa delle Fiere riprende quello che sin lì è sembrato il proprio corso ordinario a partire dalla stagione 1965-66: in una competizione finalmente normalizzata nella struttura – le 48 partecipanti trovano una sistemazione con accessi tramite bye già al primo turno, evitando la controversa struttura dell’anno precedente – e con l’esordio dei tempi supplementari, sono di nuovo le spagnole a farla da padrone, grazie al terzo derby iberico all’ultimo atto, stavolta tra Barcellona e Zaragoza.

E dire che i blaugrana hanno vissuto il più accidentato dei percorsi verso la finale, soprattutto in virtù di quanto accaduto agli ottavi, uno dei turni più equilibrati di sempre: sconfitti 2-1 in Germania dall’Hannover, i Culés si guadagnano lo spareggio grazie all’1-0 al Camp Nou. Sorteggiati in trasferta, stavolta riescono a tenere botta e portare il match fino al 120’ sull’1-1. Non essendo ancora previsti i calci di rigore, a decretare la qualificazione è la monetina: a spuntarla è proprio la squadra spagnola, proprio nello stesso turno in cui un’analoga situazione è fatale al Milan contro il Chelsea.

L’edizione 1965-66 segnerà tuttavia la fine del dominio. Una transizione il cui esito si nota in particolar modo durante le equilibratissime semifinali, che in ambedue i casi oppongono una spagnola e una inglese. Tra Barcellona e Chelsea termina 2-0 sia al Camp Nou che a Stamford Bridge (con due autogol) ma la ripetizione, disputata in Catalogna, è nettamente in favore dei padroni di casa, che si impongono con uno schiacciante 5-0. Più rimpianti per il Leeds che, dopo aver recuperato a Elland Road la sconfitta dell’andata, si gioca la qualificazione nuovamente tra le mura amiche, dovendo tuttavia soccombere alla potenza di fuoco degli aragonesi, che vincono 3-1 a domicilio e si guadagnano la sfida contro il blaugrana.

Colpaccio in trasferta che viene bissato anche nel match di andata al Camp Nou, quando Canário sigla il gol che pare spingere il trofeo verso la squadra de Los Cincos Magnificos. Sarà necessaria una rimonta furiosa nella gara di ritorno per rimettere tutto in discussione, una raffica di emozioni: il Barça la sblocca subito con Lluís Pujol, quindi il pari di Marcelino prima che i catalani rimettano il muso avanti negli ultimi venti minuti con i gol di Pedro Zaballa e ancora di Pujol, che all’85’ sembra chiudere la contesa. Sembra, perché due minuti dopo è ancora Marcelino a firmare il pari e mandare il match ai supplementari. Che terminano con un altro colpo di scena: quando tutto sembra pronto per andare alla “bella”, al 120’ è il gol della tripletta di Pujol a vanificare il risultato dell’andata e beffare il pubblico della Romareda. Il Barcellona festeggia così il terzo titolo, primo dei quali ottenuto nell’arco di una sola stagione. Ma sarà anche l’ultimo sigillo spagnolo.

Da quel momento salgono in cattedra le inglesi, sebbene per la prima festa ci sia da attendere un altro anno. A guastare i piani albionici è la Dinamo Zagabria, vincitrice nel 1966-67 – la prima con l’inserimento della regola dei gol in trasferta – al termine di un cammino a dir poco accidentato. Dopo aver superato lo Spartak Brno grazie alla monetina nel primo turno e il Dunfermline per la regola dei gol in trasferta nel secondo, la squadra jugoslava riesce a piegare la Dinamo Pitești con un gol di Slaven Zambata agli ottavi, prima di spiccare il volo e iniziare a stupire l’Europa. Nei quarti la vittima è la Juventus, che dopo il 2-2 di Torino viene liquidata con un netto 3-0 al Maksimir.

Ancora più clamorosa l’affermazione in semifinale, a discapito dell’Eintracht Francoforte: il 3-0 incassato in Germania pare chiudere la contesa ma, di nuovo al Maksimir, la Dinamo si prende la qualificazione in maniera diabolica: due gol in due minuti, firmati da Zambata e Marijan Novak tra il 14’ e il 15’, quindi il 3-0 all’87’ di Josip Gumcirtl che porta l’incontro all’overtime, dove è Rudi Belin a siglare il decisivo 4-0. Una supremazia casalinga che viene fatta rispettare anche in finale: stavolta è l’andata a giocarsi a Zagabria e l’avversaria è il Leeds United, sempre più avvezzo ai rimpianti in questa fase della sua storia. Infatti gli inglesi, arrivati quarti in campionato a quattro punti dal Manchester United campione d’Inghilterra, avevano vissuto un periodo d’oro durante la primavera, durante il quale avevano inanellato una lunga striscia di vittorie che, in quel periodo, li avrebbe resi difficili da gestire per la Dinamo. Tuttavia il trofeo viene assegnato in estate, a campionato terminato e quando la verve che aveva animato il Leeds si è già affievolita. A Zagabria basta, quindi, un gol per tempo – a firma di Marijan Čerček e Krasnodar Rora – per indirizzare la doppia sfida in modo da potersi difendere a Elland Road, che si rivela terreno sterile per le speranze del Leeds, costretto a inchinarsi innanzi all’ostinazione jugoslava. Lo 0-0 vale la prima affermazione della Dinamo in campo internazionale.

È solo il preludio al riscatto dei Peacocks, che arriva nella stagione seguente, con il capocannoniere del torneo Peter Lorimer in stato di grazia. Il Leeds parte forte, infliggendo sedici reti allo Spora Luxembourg, prima di iniziare un percorso che lo porta a superare ogni turno di misura: tocca al Partizan, quindi alle scozzesi Hibernian, Rangers e Dundee fino alla finale, nella quale il club inglese si gioca tutto contro il Ferencváros, a caccia del bis dopo aver eliminato in semifinale il Bologna al termine di una sfida segnata da continui scossoni e sorpassi nel punteggio: sotto di 2-0 in casa, i magiari riescono a vincere l’andata per 3-2 per poi riprendere i rossoblù anche al Dall’Ara sul 2-2. Contro il Leeds lo spettacolo sarà molto meno godibile: a decidere la contesa è il gol di Mick Jones sul finire del primo tempo dell’andata. Al ritorno l’allenatore degli Whites Don Revie prepara il più classico dei catenacci all’italiana, irretendo totalmente gli avversari, accompagnati al triplice fischio da uno 0-0 senza scosse.

È l’inizio del ciclo inglese, che sta vivendo un’epoca aurea anche alla luce del successo della nazionale ai Mondiali del 1966, ma soprattutto è l’inizio della fine della competizione, che si disputerà per altre tre stagioni con una grande varietà di partecipanti. A spuntarla saranno sempre club albionici, anche grazie all’uscita di scena di alcune storiche protagoniste, quali Barcellona e Valencia. A portare a casa il trofeo nel 1969 è il Newcastle, che dopo aver preso lo scalpo di squadre quotate come lo Sporting Lisbona e il Zaragoza – rispettivamente vincitori della Coppa delle Coppe e della Coppa delle Fiere nel 1964 – e del meno probante Vitória Setúbal, vive il suo momento più emozionante in semifinale contro i Rangers. Vogliosi di vendetta per la nota avversità all’Inghilterra e per l’eliminazione patita nella stagione precedente contro il Leeds, i ragazzi di Glasgow scendono in campo con intenzioni bellicose, anche sul piano fisico. Se ad Ibrox Park le energiche offensive dei padroni di casa non producono effetti, con il match che si chiude a reti bianche, al ritorno a St. James’ Park la contesa si sposta sugli spalti e poi di nuovo in campo, con un nugolo di tifosi dei Rangers che sul 2-0 – risultato poi definitivo – invadono il campo e provano a invalidare un match che invece riesce ad arrivare alla fine.

La finale è un monologo dei Magpies: l’Újpest, dopo aver liquidato in maniera netta il Göztepe nel turno precedente, si rivela un rivale non all’altezza del valore degli inglesi, che si impongono 3-0 all’andata in casa e 3-2 al ritorno in terra magiara, nonostante l’iniziale vantaggio ungherese per 2-0. La sensazione che il livello stia scendendo si fa ancora più netta l’anno seguente, dove l’Arsenal ottiene il primo alloro a diciassette anni dall’ultimo campionato vinto al termine di un cammino complessivamente molto comodo. L’atto conclusivo, a differenza dei precedenti, si rivela invece complicato e spettacolare, degno degli anni migliori: stavolta l’avversaria è l’Anderlecht, capace di eliminare l’Inter in semifinale nonostante la sconfitta in casa all’andata.

Il 22 aprile 1970, al Constant Vanden Stock Stadium, il trofeo sembra già incamminarsi verso Bruxelles, dato che i biancomalva riescono a portarsi in vantaggio per 3-0, salvo subire il gol della bandiera di Ray Kennedy all’82’. Gol che si rivelerà determinante. Ad Highbury, dopo il vantaggio di Eddie Kelly a metà primo tempo, arriva il clamoroso epilogo grazie a due gol in due minuti, tra il 75’ e il 76’: prima John Radford, poi Jon Sammels permettono ai Gunners di ottenere un successo che nessuno, solo sei giorni prima, avrebbe osato pronosticare.

Il successo in rimonta dell’Arsenal sull’Anderlecht

L’addio alla Coppa delle Fiere: l’ultima edizione e la finalissima

Il grande seguito della competizione, ma soprattutto l’univocità dei criteri di accesso alla Coppa dei Campioni e alla Coppa delle Coppe spingono la UEFA a ideare un terzo torneo che affondi totalmente le proprie radici nel merito sportivo, dato dal piazzamento in campionato. Si tratta della Coppa UEFA, che prenderà il via nel 1971 su quelle che saranno, di fatto, le ceneri della Coppa delle Fiere, ormai messa da parte e avviata al suo canto del cigno. Un ultimo giro ancora più vincolato al merito sportivo di quanto accaduto in passato, proprio in preparazione dell’esordio di quella che oggi è nota come Europa League.

Anche l’ultimo sigillo è inglese: dopo aver eliminato Sarpsborg, Dinamo Dresda (qualificandosi grazie alla regola del gol in trasferta), Sparta Praga e Vitória Setúbal, il Leeds United trova i maggiori ostacoli al proprio cammino negli ultimi due turni. In semifinale, contro il Liverpool, serve il colpaccio esterno al ritorno firmato Billy Bremner per eliminare i Reds e affrontare la Juventus. Vogliosi di riscatto dopo l’amaro epilogo di qualche anno prima contro il Ferencváros, i bianconeri arrivano fino all’ultimo atto trascinati da quello che sarà l’ultimo capocannoniere, Pietro Anastasi, a segno in ogni turno dagli ottavi in poi.

La doppia finale risulterà, tuttavia, particolarmente controversa, quantomeno alla luce delle regole attuali: il 26 maggio 1971, al Comunale di Torino, la pioggia torrenziale porterà alla sospensione del match al 51’ sullo 0-0. Le regole – mutate solo in tempi recenti – prevedono che il match non riprenda dal momento della sospensione ma ricominci dal primo minuto, così due giorni dopo si rigioca l’andata, che finisce 2-2: la Juventus va avanti due volte, ma viene raggiunta in entrambe le occasioni anche grazie alla prestazione quantomeno rivedibile del portiere Massimo Piloni. Il 3 giugno 1971, a Elland Road, tutto si decide nei primi 20’: prima segna Allan Clarke, quindi pareggia il solito Anastasi. I bianconeri provano il tutto e per tutto senza trovare la zampata decisiva e vengono puniti dalla regola dei gol in trasferta, chiudendo il proprio cammino senza mai perdere ma al tempo stesso con l’amarezza di non essere riusciti ad alzare la coppa.

È la fine dell’ultima edizione, ma non della Coppa della Fiere. Resta un’ultima questione da risolvere: come accaduto per la Coppa Rimet un anno prima, il comitato organizzatore stabilisce che il trofeo debba essere assegnato definitivamente. Ma a chi? Teoricamente il Barcellona avrebbe vinto tre volte, ma nel 1958 lo ha fatto grazie a una selezione cittadina e non alla squadra blaugrana. Quindi, a quota due, rimangono tre squadre: proprio il Barça, il Valencia e il Leeds. Viene deciso in maniera unilaterale – e invero piuttosto discutibile – che a giocarsi la finalissima debbano essere due delle tre squadre più vincenti, per la precisione la prima e l’ultima a figurare nell’albo d’oro, ossia Barcellona e Leeds.

Altrettanto discutibile è la scelta del campo: viene disputata una sfida secca al Camp Nou, situazione che favorisce i blaugrana. Che infatti non deludono le attese: il 22 settembre 1971 Una doppietta di Teófilo Dueñas, intervallata dal gol del futuro milanista Joe Jordan, decide la sfida e fa sì che la coppa rimanga definitivamente al Camp Nou, dove è ancora oggi esposta nel museo del club blaugrana. Finisce 2-1. E con quest’ultima partita, si chiude per sempre il cammino della Coppa delle Fiere.

Un percorso segnato da nove diversi vincitori in tredici edizioni, fatto di due grandi cicli, di sorprese e di campioni. Il miglior marcatore della storia della competizione è Waldo, con 31 reti complessive, con grande distacco da Peter Lorimer, fermo a 20 e dal terzetto composto da Flórián Albert, Ferenc Bene e José Antonio Zaldúa, a quota 19. Subito dietro c’è Pedro Manfredini, primo rappresentante di una squadra nostrana, mentre il primo italiano nella classifica cannonieri eterna della è Giampaolo Menichelli, 13 gol vestendo le maglie di Roma e Juventus.

Una competizione nata da un’idea eccentrica ha saputo trasformarsi con il tempo e appassionare i tifosi di tutta Europa. Se ancora oggi i giovedì sera ci regalano emozioni europee, lo dobbiamo alla Coppa delle Fiere.

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