Sogno o son terzo: storie di portieri diventati eroi

Si dice spesso che il portiere sia un uomo solo. Sulle sue spalle porta il peso del mondo. Un macigno che talvolta raddoppia di volume quando il protagonista diventa il suo vice, un calciatore impiegato raramente e con l’impellente necessità di dimostrare il suo valore e la sua affidabilità, talvolta per ridare slancio alla carriera e guadagnarsi una futura chance da numero uno.

In questo quadro, tuttavia, si staglia una figura ancora più sfumata, quasi mitologica, in taluni casi considerata una macchietta, un uomo spogliatoio e non un calciatore, un vitalizio che cammina: il terzo portiere.

In origine, questo ruolo era riservato solamente ai portieri delle giovanili ma col tempo è stato aperto a “terzi di professione”, salvagente con esperienza. Sanno di non giocare mai e di fatto accettano di essere uomini da allenamento e pezzi di uno spogliatoio.

Ma il calcio offre spesso storie incredibili, dove anche il terzo portiere può diventare protagonista assoluto, nel bene o nel male. Anche in maniera inaspettata, come per Antonio Mirante che, grazie ad una serie di sfortunati eventi, si è preso una maglia da titolare per un non banale Milan-Juventus.

Mirante durante un prepartita con la maglia del Milan. Contro la Juventus il ritorno in campo dopo oltre due anni

 

Il più grande di tutti

La storia del più grande di tutti è iniziata… da terzo portiere. Siamo a Parma, anno del Signore 1995. I ducali vengono da una grande stagione, conclusa con la vittoria della Coppa UEFA. Il titolare è Luca Bucci, terzo portiere azzurro nella spedizione statunitense conclusa con la maledetta lotteria dei rigori di Pasadena. Ma mister Nevio Scala è uno che dà chance anche ai secondi, una sorta di precursore.

Nella stagione precedente il vice di Bucci era stato l’esperto Giovanni Galli, che aveva giocato dieci partite in campionato e tutta la Coppa Italia da titolare. Nell’ultima stagione della sua carriera, tuttavia, Galli aveva deciso di scendere in Serie B ed avvicinarsi a casa, accettando una maglia da titolare nella Lucchese, sicché il Parma aveva cercato un nuovo vice-Bucci. La scelta era ricaduta su Alessandro Nista. Per lui un po’ di A, molta B e anche una sfortunata esperienza in Inghilterra, al Leeds.

Il 19 novembre 1995 il Parma ospita il Milan, che chiuderà la stagione con lo scudetto. Un match delicato e reso ancora più complesso dall’infortunio di Bucci. Scala, impressionato dalle qualità mostrate in allenamento, fa una scelta diversa dalle attese e lancia da titolare il portiere della Primavera, il diciassettenne Gianluigi Buffon, che risulterà essere uno tra i migliori in campo nello 0-0 finale, scalando le gerarchie e ritagliandosi sempre più spazio. Fino a diventare il titolare nella stagione seguente.

Il resto è una storia fatta di record, di un titolo di campione del mondo e dell’univoco riconoscimento come uno dei più grandi interpreti nella storia del ruolo.

Buffon al rilancio durante il suo esordio in A

 

Le mani sullo scudetto

La lunga avventura tricolore del Milan nel 1999 è fatta di un turbinio di portieri e di una serie di incalcolabili eventi che hanno portato ad un eroe inatteso.

Come già accaduto negli anni precedenti, i rossoneri hanno passato l’estate nell’affannosa ricerca di un portiere che togliesse i gradi da titolare a Sebastiano Rossi. Anche in questo caso vanamente perché, dopo l’esperimento Pagotto non riuscito, in estate era arrivato il tedesco Jens Lehmann. Dopo sole cinque partite l’ex Schalke 04 aveva perso il posto in favore dello storico titolare, colando a picco sotto i colpi di Batistuta a San Siro e di De Patre in una sconfitta di misura al Sant’Elia di Cagliari.

Ma stavolta le cose sarebbero cambiate nella maniera meno pronosticabile. 17 gennaio 1999, ultima giornata di andata con il Milan che sta conducendo in porto senza patemi il proprio match casalingo. Di fronte un Perugia con un inedito completino “spezzato”, maglia blu e pantaloni neri, acquistati alle bancarelle fuori da San Siro per un errore nella scelta dei colori effettuata dal magazziniere prima della partenza dal capoluogo umbro.

Sul risultato di 2-0 con gol di Guly e Bierhoff, all’inizio del recupero del secondo tempo, l’arbitro Bettin fischia un calcio di rigore in favore degli ospiti: se ne incarica Nakata che realizza, portando il Perugia a un gol di distanza. Ma eccolo, l’imponderabile. L’attaccante umbro Bucchi corre a raccogliere il pallone nella porta rossonera e, senza spiegazione alcuna, Seba Rossi gli rifila una “clothesline from hell” degna del miglior JBL.

Cartellino rosso e squalifica per cinque turni. La porta rimane vuota, perché nel frattempo Lehmann si è accasato al Borussia Dortmund. Braida e Galliani si affrettano a riportare in A il portiere Giorgio Frezzolini, di proprietà dell’Inter ma in prestito al Cosenza, anche se il titolare diventa Christian Abbiati, portiere della Primavera rossonera che, da terzo, diventa primo.

E ci resta a suon di prestazioni convincenti anche al rientro di Rossi, andando a chiudere il cerchio il 23 maggio 1999, all’ultima giornata. Il Milan ha superato la Lazio la settimana precedente e sulla strada per lo scudetto ha solo un ultimo ostacolo, proprio il Perugia.

Il tabellino ricalca incredibilmente quello del match di andata: rossoneri avanti 2-0 con gol di Guly e Bierhoff, quindi il rigore segnato da Nakata a riportare il Perugia in partita. Per decidere tutto c’è il duello che all’andata non ti saresti aspettato: Abbiati da una parte, proprio Bucchi dall’altra, l’uomo che involontariamente ha steso il tappeto rosso al nuovo numero uno milanista. Quel giorno, il portiere diventa anche nuovo eroe del popolo rossonero quando, al minuto 81, il tentativo di Bucchi sfiora la rievocazione di Van Basten ed il suo destro al volo dal vertice dall’area di rigore viene disinnescato dal volo di Abbiati sul palo lontano. È la parata che vale il 2-1 ed il sedicesimo scudetto.

Sul manto erboso del Curi, Abbiati festeggia il sedicesimo scudetto del Milan

 

Il re dei terzi

Rimaniamo dalle parti di Milanello: se c’è un uomo che ha avviato la pratica moderna di affidarsi ad un terzo portiere esperto, quello è Valerio Fiori.

E dire che non era neanche un portiere anziano o uscito dai radar. Aveva giocato titolare nella Lazio, nel Cagliari e, dopo un anno di B al Cesena e un anno da secondo alla Fiorentina, nel Piacenza, collezionando 228 presenze in Serie A.

Nel 1999, da svincolato, accetta le lusinghe dei neocampioni d’Italia per fare il terzo portiere alle spalle del neo-titolare Abbiati e Rossi. Il suo legame con il Milan è diventato indissolubile: nove anni da calciatore fino a fine carriera e, dopo il ritiro, altrettanti da preparatore dei portieri, in due momenti diversi.

In nove anni Fiori è sceso in campo solo due volte. Una in campionato (a difendere i pali di una formazione sperimentale contro il Piacenza nell’ultimo match prima della finale di Champions del 2002-03 all’Old Trafford) e una da subentrato in Coppa Italia. Due presenze e otto trofei, vincendo letteralmente tutto. Il re del posto fisso.

Fiori durante una delle rare apparizioni in maglia rossonera

 

Sogno e son terzo

Quanti sono, nella storia, i calciatori che possono vantarsi di aver vinto lo scudetto con la squadra del cuore ed il mondiale rappresentando la loro patria? Pochi e tra questi spicca il nome di uno che è riuscito a farlo giocando zero minuti.

Parliamo di Marco Amelia, un portiere di livello che ha impreziosito una buona carriera con due perle: lo scudetto del 2001 a 19 anni con la Roma, alle spalle del non impeccabile duo Antonioli-Lupatelli, ed il mondiale del 2006 dietro al già citato Buffon e ad Angelo Peruzzi.

La carriera del ragazzo di Frascati resta comunque molto buona: è riuscito a togliersi anche altre soddisfazioni, come lo scudetto da dodicesimo (giocando quattro partite) al Milan nel 2011, l’Europeo Under 21 da titolare nel 2004 e, soprattutto, un traguardo che nessuno potrà togliergli. Amelia è stato il primo portiere italiano a segnare un gol in un incontro valido per le coppe europee, durante il match Partizan-Livorno di Coppa UEFA 2006-07.

Sotto il cielo di Berlino, Amelia bacia la Coppa del Mondo

 

Una finestra sul mondo

A volte può bastare una sola partita a svoltare una carriera. Magari non a livello di club, come nel caso di Antonio Santurro.

Nato a Parma nel 1992, la sua carriera è partita lenta: Bagnolese in Serie D, Renate in Seconda Divisione, Savoia, Juve Stabia, Melfi e Siracusa in Lega Pro.

La svolta arriva quando decide di riavvicinarsi a casa, accettando la corte del Bologna per fare il terzo portiere, stagione 2017-18. Resta due anni tra le fila dei felsinei, giocando appena una partita, il suo esordio in Serie A: è il 31 marzo 2018 e a Bologna arriva una Roma distratta dall’imminente quarto di finale di Champions League al Camp Nou.

Mirante e Da Costa sono infortunati, così a sorpresa tocca a lui, che risponde presente salvando la porta dei rossoblù in diverse occasioni e cedendo soltanto al gol di Dzeko nel finale per il definitivo 1-1.

Sarà la sua unica presenza in Serie A. La sua carriera, infatti, non spicca il volo, anzi. Non sarà più titolare, neanche in C, dove vestirà le maglie di Sambenedettese e Catania, prima di tornare a fare il terzo all’Udinese e al Parma, senza mai scendere in campo.

Ma c’è chi lo ha notato, dopo quella partita e dopo la stagione da terzo a Udine. Grazie alla nazionalità della madre, la Repubblica Dominicana sceglie di convocarlo per la CONCACAF Nations League nell’estate del 2022. E contro la Guyana arriva, da subentrato dopo il rosso al portiere titolare, la sua prima occasione.

Oggi, da svincolato, è fuori dai convocati ma fino a marzo è stato titolare con la sua nazionale, con cui ha collezionato cinque gettoni, l’ultimo raccolto nella vittoria contro il Belize.

Santurro in azione con la maglia della Repubblica Dominicana

 

Il miglior terzo del mondo

La definizione, che potrebbe sembrare un po’ pretenziosa, non è nostra ma del suo ex allenatore, l’attuale ct azzurro Luciano Spalletti. Perché nel 2006, quando allenava la Roma, il mister di Certaldo ha ottenuto il ventottenne brasiliano Julio Sergio Bertagnoli come terzo portiere giallorosso, dopo una lunga gavetta e il punto più alto, la titolarità nel Santos, dove la sua riserva fu proprio il titolare della Roma, Doni.

Julio Sergio è stato sempre descritto come un serissimo lavoratore e, pur onorato dall’appellativo datogli dal suo allenatore, si è sempre detto in attesa di un’occasione. Occasione che, ironia della sorte, è arrivata in un match significativo perché l’ultimo di Spalletti sulla panchina della Roma.

Il 30 agosto 2009 la Roma sfida la Juventus allo Stadio Olimpico al termine di un’estate non semplice, caratterizzate di richieste da parte di Spalletti (cadute nel vuoto) per ringiovanire il reparto offensivo. Fin lì sono arrivati solo il prestito secco di Burdisso, mendicato all’Inter quando l’argentino era pronto a rescindere il suo contratto, e Guberti a parametro zero.

Julio Sergio chiude un trittico tutto brasiliano, con Doni che ha un serio problema alla cartilagine del ginocchio e il suo vice Artur che ha decisamente convinto poco quando chiamato in causa, ivi compresa la trasferta di Genova della prima giornata. Così contro la Juve, per la prima volta, tocca a Julio Sergio. La Roma cade per 3-1 ma la prestazione del portiere è buona.

L’indomani il mercato si chiude con due acquisti per la Roma: un altro portiere, Lobont, arrivato già infortunato, ed il giovane attaccante Zamblera in prestito dal Newcastle. Per Spalletti è troppo e il tecnico si dimette, sostituito da Ranieri. Il testaccino, come prima cosa, anche approfittando dell’emergenza portieri, insiste proprio su Julio Sergio.

 

Momenti da supereroe

E “il miglior terzo portiere al mondo” lo ripaga, con grandissime prestazioni che aiutano la Roma in una risalita clamorosa che porta i giallorossi a lottare a sorpresa per lo scudetto contro l’Inter che concluderà la stagione con il Triplete.

Anche se già a San Siro contro i nerazzurri il portiere si era reso protagonista di una parata importantissima su Milito, i due highlights più significativi sono in corrispondenza di due match non banali per Roma, i derby della Capitale. All’andata, un colpo di reni surreale sullo 0-0 toglie da sotto la traversa un’occasionissima targata Mauri, consentendo alla Roma non solo di vincere 1-0 ma anche di chiudere il match senza subire gol, prima volta in stagione.

Ma è nel match di ritorno il momento simbolo della stagione miracolosa di Julio Sergio. Il derby del 18 aprile 2010 è a dir poco drammatico: la settimana precedente la Roma si è issata al comando della classifica mentre i biancocelesti si ritrovano a lottare per la salvezza. Due giorni prima, l’Inter ha vinto l’anticipo contro la Juventus, quindi alla Roma servono i tre punti per tornare avanti alla banda di Mou con quattro partite da giocare. L’inizio è traumatico, prima del quarto d’ora la Lazio è avanti 1-0, mantenendo il risultato fino all’intervallo, quando Ranieri sorprende tutti lasciando fuori Totti e De Rossi.

Dopo due minuti dall’inizio del secondo tempo arriva un calcio di rigore per la Lazio, che può chiudere i giochi definitivamente. Ma Julio Sergio è in completo delirio di onnipotenza e le telecamere lo inquadrano mentre si avvicina a Floccari, che sta sistemando il pallone sul dischetto, pronunciando una frase in perfetto italiano, come si evince dal labiale: “Ora paro il rigore a stamm**da!”.

Il brasiliano passa dalle parole ai fatti, respingendo il rigore a Floccari e lasciando in partita la Roma, che alla fine ribalta l’incontro, vincendolo 2-1 e tornando in vetta, salvo suicidarsi la settimana successiva in casa contro la Sampdoria.

L’esperienza romanista di Julio Sergio si concluderà, di fatto, a metà della stagione successiva, con l’esonero di Ranieri, l’arrivo di Montella come allenatore e il ritorno di Doni tra i titolari, ma sempre con un ricordo estremamente positivo per i tifosi giallorossi.

Julio Sergio ipnotizza Floccari dal dischetto e dà lo sprint alla rimonta della Roma

 

Chi di terzo ferisce…

Ma non tutte le storie di terzi portieri riescono con il buco e, anzi, appena tre anni dopo il derby romano si arricchisce di un capitolo significativo.

Stagione 2012-13. La Roma è diventata americana e, dopo un anno fallimentare, si affida alla seconda venuta di Zeman. Ma è un flop. Esonerato il boemo, in panchina viene chiamato Andreazzoli, alla prima esperienza da allenatore in Serie A.

Il sesto posto finale è arriva con sorpasso all’ultima giornata sui cugini della Lazio, anch’essi reduci da una stagione non esattamente positiva. Due posizioni in classifica di per sé non sufficienti a garantire un piazzamento europeo ma con un’ultima appendice storica, ossia il derby in finale di Coppa Italia.

Chi avesse vinto quel match avrebbe conosciuto la gloria del successo, dell’umiliazione dei rivali cittadini ed anche della qualificazione all’Europa League.

Per l’occasione la Roma rispolvera il terzo portiere, che nel frattempo è divenuto quel Bogdan Lobont di cui abbiamo parlato poco sopra. Il titolare sarebbe l’olandese Stekelenburg, decisamente deludente e che, nel corso dell’anno, è stato rimpiazzato da Goicoechea, drammatico estremo difensore uruguaiano. Scelto da Zeman per la sua abilità nel giocare coi piedi, trascurando, tuttavia, la sua incapacità di usare in maniera accettabile le mani.

Andreazzoli sceglie, quindi, Lobont come titolare della finale. La partita non è bellissima, nel complesso la Roma tiene meglio il campo ma la Lazio crea le occasioni migliori, salendo di intensità nell’ultimo terzo di gara, con un Lobont comunque attento. Fino al minuto 71.

Candreva entra in area dal lato destro del versante offensivo biancoceleste per cercare un cross teso. Il cross è a ridosso del portiere che, tuttavia, smanaccia in maniera incerta, lasciando il pallone nella disponibilità di Lulic, che da due passi regala il vantaggio alla Lazio.

Neanche due minuti dopo la Roma colpisce una traversa su una mischia nata da punizione di Totti e lì si esauriscono le chance dei giallorossi, stavolta affossati dal loro terzo portiere: è il 26 maggio 2013 e la Lazio vince il primo (e fin qui unico) derby-finale della storia.

Lulic ribadisce in gol a porta vuota e si regala un posto nella storia della Lazio

 

La coppa delle occasioni mancate

La Coppa Italia è un’occasione prelibata per alcuni terzi portieri. In questo senso l’edizione 1992-93 ha fatto storia, quantomeno nella fase finale. Andiamo, per gradi. Le semifinali mettono di fronte da una parte le due torinesi e, dall’altra, il Milan degli “Invincibili”, imbattuto in ogni competizione da undici mesi e la Roma.

Nella gara di andata dell’Olimpico, il Milan si presenta senza i suoi primi due portieri, Rossi e Antonioli, la cui stagione si è conclusa anticipatamente. A difesa della porta rossonera va il giovane Carlo Cudicini, figlio d’arte alla prima da titolare in carriera dopo aver fatto solo uno spezzone in Champions League.

La Roma vince la partita a sorpresa per 2-0, con i gol di Muzzi e Caniggia, che si fa beffe proprio del giovane Cudicini punendolo con un cucchiaio in uscita dopo un contropiede di settanta metri.

Nel match di ritorno, però, i rossoneri tentano di ribaltarla, si portano sull’1-0 con il gol di Eranio, attaccano e approfittano di un’espulsione molto discussa di Garzya fin quando, all’ultimo minuto, l’arbitro Pezzella fischia un rigore per il Milan, tra le proteste degli ospiti.

Calcia Papin, Cervone si distende sulla sua destra e para, portando la Roma in finale. E non è finita. Cervone è un portiere decisamente sanguigno e quei minuti finali non li digerisce proprio. Va dall’arbitro Pezzella a protestare e si becca espulsione e due turni di squalifica, che gli costano la doppia finale contro il Torino.

Non è il solo: a fargli compagnia c’è l’esperto Giuseppe Zinetti, pure lui professione portiere. Anche per lui espulsione a partita finita e due turni di squalifica. In finale tocca quindi a Patrizio Fimiani, estremo difensore della Primavera.

La sua prestazione è un disastro totale. 3-0 per i granata con grandi responsabilità del portiere, titolare anche nella finale di ritorno che i giallorossi vincono 5-2 colpendo un palo seguito dal leggendario urlo strozzato del “Principe” Giannini e, soprattutto, dall’ultimo trofeo vinto dal Torino nella sua storia.

Un esito che, a detta dello stesso Fimiani, ha inciso negativamente sulla sua carriera che ha avuto come location principale la Serie C.

Fimiani in finale di Coppa Italia contro il Torino

 

Eroe nazionale in meno di un minuto

Chiudiamo con una storia mondiale, nello specifico relativa alla Coppa del Mondo 2014 disputata in Brasile. Già è difficile vedere un terzo portiere in campo in un mondiale che dura, al massimo, sette partite, figuriamoci aspettarsi che sia il man of the match.

Tim Krul si è preso la ribalta il 5 luglio 2014, durante i quarti di finale contro la Costa Rica. Con appena cinque presenze in nazionale, l’allora tesserato del Newcastle ha partecipato alla rassegna iridata partendo dietro al titolare Cillessen e a Vorm.

Il quarto di finale aveva stancamente resistito ai 90’ regolamentari e anche nei supplementari lo 0-0 stava reggendo. Sarà stata l’esperienza o la conoscenza di un’avversaria, la Costa Rica, che aveva eliminato l’Italia e superato gli ottavi di finale proprio ai rigori senza neanche un errore, fatto sta che il CT olandese Van Gaal tira fuori il coniglio dal cilindro. Ultima azione della partita, minuto 120, ancora un cambio a disposizione: fuori Cillessen, dentro Krul.

Il motivo è presto detto, Krul è ritenuto il miglior portiere dal dischetto tra quelli in rosa, sebbene non pari un calcio di rigore da due anni e mezzo e lo score sia di soli due penalty parati sui 32 calciati contro di lui. Eppure, quel giorno cambia tutto: due rigori parati sui cinque e festa grande, con gli oranjes che volano in semifinale. Van Gaal stavolta non punta su Krul. Risultato: Argentina perfetta dal dischetto e Olanda eliminata.

Quella con protagonista Krul è una mossa storica ad un mondiale, ma che era già stata vista in Italia: nel 1996, durante la finale dei playoff di Serie C1, il Castel di Sangro di Iaconi tentò la stessa strategia, togliendo il titolare De Iuliis per inserire il suo vice Spinosa, neanche un minuto in stagione. Intuizione corretta dal momento che il rigore parato a Milana valse la prima, storica promozione in B del club abruzzese.

Krul festeggiato dai compagni dopo la qualificazione contro la Costa Rica

 


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Di Manuel Fanciulli

Laureato in giurisprudenza e padre di due bambini, scrivo di sport, di coppe e racconto storie hipster. Cerco le risposte alle grandi domande della vita nei viaggi e nei giovedì di Conference League.