Le due vite di Dennis Rodman

Dennis Rodman è nato due volte. Non solo il 13 maggio del 1961 a Trenton, New Jersey, quando è effettivamente venuto al mondo. Se il grande pubblico ha imparato a conoscere ed amare questo atleta straordinario ed istrionico, lo deve alla sua seconda nascita.

A quell’11 febbraio 1993 in cui, fuori dal The Palace di Auburn Hills, casa dei suoi Detroit Pistons, ha imbracciato un fucile per dare la caccia a se stesso, al Dennis Rodman che fu.

Quello è il giorno in cui il ragazzo problematico e un po’ timido cresciuto a Dallas è uscito di scena e ci ha consegnato The Worm, il Verme.

Un soprannome acquisito durante l’adolescenza, quando si dimenava giocando a flipper, ma che da quel momento avrebbe accompagnato il Dennis uomo, il Bad Boy che sarebbe diventato. E che avrebbe portato ad un livello superiore la mistica e l’epicità del suo personaggio.

 

Crescita problematica

La finestra sull’infanzia e l’adolescenza di Dennis Rodman mostra un panorama frastagliato e non particolarmente limpido.

Il viaggio in quelle turbe che hanno formato un ragazzo dapprima timido e poi esploso in un personaggio mediatico pressoché unico nella storia dello sport inizia nel mese di dicembre del 1969, quando suo padre, l’ex membro dell’aeronautica statunitense Philander Rodman, abbandona la famiglia per trasferirsi nelle Filippine.

Mentre Philander cede alle sue passioni più terrene, raggiungendo il numero impressionante di 29 figli con 16 donne diverse, Dennis Rodman vive un’infanzia difficile ad Oak Cliff, uno dei quartieri più antichi ma anche più poveri della città di Dallas.

Sua madre Shirley si barcamena tra vari lavori, anche tre o quattro assieme, per dare il necessario sostentamento ai suoi tre figli, Dennis e le sorelle Debra e Kim.

Già, le sorelle. Altro rapporto che sarebbe divenuto problematico negli anni, per motivi legati, tra le altre cose, proprio al basket.

Alle superiori, i tre frequentano la South Oak Cliff High School, liceo del loro quartiere, dove approcciano al mondo della pallacanestro sotto la supervisione di Gary Blair, una futura leggenda del basket universitario femminile.

Debra e Kim, tuttavia, hanno un grande talento nel basket, in cui Dennis fatica anche per statura ed atletismo non elevati, cosa che, a dire dello stesso futuro Bulls, determina un maggior interesse della madre nei confronti delle sorelle.

Si tratta dell’inizio di un rapporto complicato con la madre, che sarebbe presto precipitato e al tempo stesso avrebbe causato la crescita esponenziale di Dennis Rodman. In tutti i sensi.

Il parquet della South Oak Cliff High School, primo teatro delle gesta di Rodman

 

Fine del liceo, nel bene o nel male

La fine del liceo rappresenta uno spartiacque determinante nello sviluppo del Rodman uomo ed anche dell’atleta.

Terminati gli studi, per Dennis le prospettive non riflettono le luci della ribalta. L’unico modo per eludere la povertà è quello di rimboccarsi le maniche e lavorare.

Il suo primo impiego è quello di custode all’aeroporto di Dallas Fort Worth. Un lavoro onesto ma che Rodman, a posteriori, avrebbe descritto come “l’inizio della fine”. Perché l’infanzia problematica e la povertà sono un mix potente, che esplode nella microcriminalità giovanile. Rodman viene arrestato per aver rubato degli orologi in un negozio interno all’aeroporto e licenziato.

Il rapporto di fiducia con la madre Shirley è logoro e questa, dopo aver visto Dennis non riuscire a dare una precisa direttiva alla propria vita, decide di cacciarlo di casa.

A neanche 20 anni, Rodman vive da senzatetto, vagando per la città senza una meta e dormendo da amici o nei parchi pubblici. Lui stesso racconterà che all’epoca, da ragazzo introverso qual era, aveva vissuto la cosa con rassegnazione, cedendo alla prospettiva di tutta una vita da clochard.

Ma il riscatto arriva presto, grazie a quel fisico che Rodman aveva disprezzato negli anni del liceo: tra i 19 ed i 21 anni, Dennis cresce di ben 23 centimetri.

Durante le sue giornate per le strade della città, gli capita di prendere un pallone in mano e tentare qualche tiro nei playground ed è là che viene notato: per la precisione, il suo nome arriva al Cooke County College di Gainesville, che gli offre una borsa di studio.

Rodman ci prova ma dura solo un semestre prima di essere bocciato. Eppure il treno è partito: 17,6 punti e 13,3 rimbalzi di media a partita sono un bottino notevole.

 

Carriera universitaria

Nel 1983, a 22 anni, per Rodman ecco una chance universitaria apparentemente tardiva grazie alla Southeastern Oklahoma State University, associata alla NAIA (National Association of Intercollegiate Athletics).

L’occasione arriva non prima di altre magagne di vita quotidiana: nell’estate del 1983, infatti, fa discutere la sua amicizia con Byrne Rich, un ragazzo bianco di appena 13 anni con grosse difficoltà relazionali determinate da un drammatico incidente di caccia a causa del quale il ragazzo, per errore, uccise il suo migliore amico.

Dapprima accolto con scetticismo per motivi anagrafici e razziali, Rodman mostra la sua bontà d’animo e, visto che la sua presenza risulta di grande aiuto per permettere all’amico Byrne di tornare ad una vita normale, viene praticamente adottato dalla famiglia Rich.

Benché oggi la cosa possa stupire, all’università Rodman si rivela uno scorer continuo ed affidabile, oltre che un grande atleta.

Nonostante un leggero calo a livello realizzativo nel suo terzo ed ultimo anno, la sua media recita 25,7 punti e 15,7 rimbalzi a partita nell’intero triennio universitario, con il 63,7% al tiro ed un career-high di 46 punti alle semifinali nazionali, massimo risultato mai raggiunto dalla SE Oklahoma, al pari del terzo posto del ranking NAIA.

Tali risultati, uniti alle ottime prestazioni individuali (tre volte NAIA All-American, miglior rimbalzista NAIA sia nel 1985 che nel 1986), gli valgono un pass per il Portsmouth Invitational Tournament, una grande vetrina pre-draft.

Che viene sfruttata divinamente: è il 1986, Rodman è l’MVP del torneo e, a 25 anni, si affaccia alla NBA.

Dennis Rodman con la maglia dei Savages, la squadra di Southeastern Oklahoma State University

 

Intelligenza superiore

La presenza di un 25enne nella draft class rappresenta una grossa anomalia. Vuoi per l’età o per il background universitario di un livello inferiore a quello NCAA, Dennis Rodman viene selezionato dai Detroit Pistons solo alla terza scelta del secondo giro, la numero 27 in assoluto.

I Pistons sono una franchigia in costante crescita, allenata da coach Chuck Daly che, grazie anche all’approdo del Verme e di John Salley, altro rookie della classe 1986, avrebbe plasmato un gruppo storico, i cosiddetti Bad Boys, così chiamati per il gioco estremamente fisico e duro, talvolta anche ben oltre i limiti regolamentari.

Un rapporto, quello con Chuck Daly, che sarebbe stato il motore di entrambe le vite di Rodman.

La prima trasformazione di Rodman è data dalla sua genialità: vero, a livello NAIA si era rivelato un buono scorer ma la NBA era un’altra cosa. Così Rodman decide di concentrarsi sull’aspetto migliore e di maggior impatto del suo gioco all’università, i rimbalzi.

Un giorno, durante un allenamento, tutti i Pistons si apprestano a tirare e tentare dei lay-up mentre Rodman, in disparte, guarda i suoi compagni.

Il più forte, Isiah Thomas, gli chiede come mai non andasse anche lui a tirare, ottenendo una risposta inattesa: sto guardando le rotazioni della palla. Alla richiesta di spiegazioni, Rodman replica con dovizia di dettagli: i tiri di Thomas fanno tre rotazioni dopo aver colpito il ferro, quelli di Salley tre e mezzo o quattro rotazioni.

È il modo che Rodman ha per attivare un cervello con le sembianze di un super computer, che gli avrebbe permesso di capire in anticipo dove il pallone sarebbe caduto una volta colpito il ferro.

Così Rodman sarebbe diventato il più grande rimbalzista di sempre.

Rodman a rimbalzo con la canotta dei Pistons

 

Come un padre

Grazie a Chuck Daly, Rodman surroga la figura di quel padre che non ha avuto durante gli anni della crescita.

Il legame tra The Worm e il suo allenatore va oltre il basket: Daly è l’uomo che ha creduto in lui, che gli ha dato una chance quando lui stesso si sentiva perso ed inghiottito troppo presto dalla vita.

Detroit è il suo spazio nel mondo, vi trova l’amore e la stabilità: come lo stesso Rodman avrebbe rivelato, Chuck Daly gli ha permesso di essere un uomo e, da par suo, l’unico modo di sdebitarsi è dare il 100% ad ogni allenamento ed in tutte le partite giocate con i suoi Pistons.

I Bad Boys hanno portato ad un altro livello la loro competitività: nel 1987, prima stagione di Rodman in NBA, si arrendono nelle Eastern Conference Finals ai Boston Celtics.

Un anno dopo piegano i Celtics per 4-2, sancendo la fine del loro ciclo, prima di cadere alle Finals per mano dei Lakers: è un 4-3 che innesca una grande sete di vendetta.

Vendetta che arriva un anno dopo, nel 1989. I Pistons, coi loro metodi rudi e la fame di vittoria, hanno dato il la ad una accesa rivalità nella loro Conference con i Chicago Bulls di Michael Jordan, ancora a caccia del primo alloro NBA. I ragazzi di Daly sono in missione e, dopo aver rifilato un 4-2 ai Bulls nelle ECF, vincono il primo titolo della loro storia con uno sweep, un 4-0 ai danni dei Lakers di Magic Johnson.

Passa un anno e arriva il bis: 4-3 ai Bulls in ECF, back-to-back alle Finals e 4-1 ai Portland Trail Blazers, con Rodman nominato Defensive Player of the Year.

Ma nel basket, come nella vita, tutto ha una fine.

Chuck Daly, fondamentale nella crescita di Rodman

 

Abbandono e demoni

Il grande difetto del Rodman introverso e timido della prima parte della sua vita è l’incapacità di scindere l’idillio sportivo da quello umano.

Quello sportivo cade per mano dei Bulls di Michael Jordan che nel 1991 si prendono la scena con un 4-0 alle ECF. Nessun problema nella testa di un atleta eccellente come Rodman, peraltro insignito del secondo titolo consecutivo di difensore dell’anno: basta ripartire e riprovarci.

Ma un anno dopo il mondo del Verme crolla. La stagione 1991-92 è orrenda per i Pistons, che escono al primo turno dei playoff per mano dei New York Knicks, dimostrando di non essere più competitivi.

Nell’estate del 1992, Daly è il coach del Dream Team alle Olimpiadi di Barcellona, un altro alloro nella sua carriera: è arrivato all’apice, quindi decide che è il momento giusto per lasciare i Pistons. Al tempo stesso, la dirigenza capisce che è l’ora di ripartire, cedendo Salley e iniziando la ricostruzione.

Rodman si sente tradito: il suo “padre acquisito”, proprio come il suo padre naturale, lo ha abbandonato. Il ragazzo timido inizia a lasciare spazio ad un uomo ribelle ed anche la vita privata ne risente.

È sposato da appena 82 giorni con Annie, madre della sua primogenita Alexis Caitlyn, quando arriva il divorzio. Un mix di sentimenti contrastanti che, ad ottobre, lo portano a disertare il training camp.

Rodman dichiara di aver perso la voglia di giocare a basket, minacciando il ritiro. Ci ripensa ma non è più quello di un tempo: a novembre rifiuta di partecipare ad una trasferta e viene sospeso per tre partite.

La fine della sua avventura a Detroit arriva, anche se non formalmente, poco dopo, fuori dall’arena di Auburn Hills nella notte dell’11 febbraio 1993.

 

Uccidere Rodman, tra metafora e realtà

Rodman è un uomo confuso, in guerra con il mondo.

E, come accade in guerra, decide di fronteggiare i suoi demoni con un’arma, un fucile. Esce da casa di un amico la notte dell’11 febbraio 1993 imbracciando quell’arma e sale sul suo pick-up.

I racconti si fanno più sfumati e nessuno conoscerà mai totalmente la verità. L’amico, preoccupato, chiama la polizia e segnala che Rodman, non totalmente lucido, si è allontanato armato senza dichiarare la propria meta.

La polizia lo cerca per tutta la notte e lo trova nel parcheggio del The Palace di Auburn Hills, l’arena dei Pistons. Il luogo dove finalmente si è sentito un uomo realizzato e, al tempo stesso, il simbolo di ciò che l’aveva fatto sentire di nuovo un reietto.

Non è totalmente chiaro quale fosse l’intenzione e la lucidità con cui questa sarebbe stata partorita. Sta di fatto che nel pick-up Rodman sta dormendo con il fucile appoggiato alla bocca.

I più riterranno trattarsi di un tentato suicidio, fortunatamente sventato per cause a tutt’oggi non chiare. La versione di Rodman sarà più metaforica: con quel fucile è andato ad uccidere il vecchio Rodman per presentare al mondo una nuova versione di sé.

E, al di là delle reali intenzioni, questa si rivelerà la verità: quella notte il ragazzo di Dallas è nato per la seconda volta.

Il mondo avrebbe conosciuto un Dennis diverso. Non più il solido giocatore dei Pistons ma un campione nel corpo di un personaggio eclettico. Un mito generazionale.

Ritorno sul luogo del delitto: Rodman celebrato al The Palace con Isiah Thomas

 

Colori nell’Alamo

La stagione è finita e per i Pistons, nonostante il secondo titolo consecutivo di miglior rimbalzista NBA, Rodman è diventato un problema di cui sbarazzarsi.

Ad ottobre, quindi, una trade con Sean Elliott riporta Dennis Rodman in Texas, ai San Antonio Spurs.

Franchigia non esattamente competitiva ai massimi livelli, gli Spurs sono noti per essere uno degli ambienti più austeri e seri del basket NBA. E se il recente passato di Rodman pare andare in controtendenza con la storia della sua nuova squadra, la realtà si rivelerà ancora più dissonante.

Rodman reinventa la propria immagine: un look da ribelle, pantaloni e giacche in pelle ispirate al mondo BDSM, canotte e body attillati, innumerevoli tatuaggi e, soprattutto, i capelli colorati.

Un look che cambia in ogni singola partita, capelli di colori sempre diversi per farsi notare: in un’epoca in cui la NBA si attiene a rigidissimi dress code, quello di Rodman è un urlo in una cattedrale.

Guardatemi, sono unico” sembra dire ad ogni apparizione pubblica, sia essa legata al basket o ad eventi mondani. Ed è esattamente così: Rodman è la rivoluzione, è un personaggio unico che sposa temi moderni ma con trent’anni di anticipo. Con l’uscita di scena di Larry Bird e Magic Johnson, non è azzardato dire che Rodman sia diventato il cestista più influente per l’opinione pubblica dopo Michael Jordan.

Durante la sua avventura nell’Alamo finisce su tutti i giornali per una relazione con Madonna, breve ma intensa e chiacchierata, con la star della musica disposta a pagarlo 20 milioni di dollari se l’avesse messa incinta.

Nel 1994 e 1995, Rodman si conferma miglior rimbalzista NBA ma ormai si parla di lui più per il gossip che per le prestazioni in campo.

Outfit non usuale alla presentazione della biografia “Bad as I Wanna Be”

 

Cattive amicizie per un cattivo ragazzo

Nei suoi due anni con la franchigia texana, Rodman è diventato più un animale da palcoscenico che un cestista.

Ogni sera è una festa o un evento mondano, nel profondo dell’animo del Bad Boy esiste ancora quel ragazzo timido e introverso che ha bisogno di sentirsi amato e accettato, sebbene sia abbastanza intelligente da capire che la gente che ha attorno ami, in realtà, solo la sua ricchezza e non il vero Dennis.

Il tempo dedicato alle attività extra campo inizia ad influire negativamente sul suo rendimento: con gli Spurs accumula oltre 50.000 dollari di multe e 18 partite di sospensione per comportamenti non appropriati nei confronti del suo allenatore Bob Hill o degli avversari, oltre a perdere altre 14 partite per la lussazione di una spalla a causa di una caduta in moto.

Il rapporto con il coach, indispettito dalla vita condotta da Rodman, è praticamente nullo. Anche gli Spurs ne hanno abbastanza di lui e, nell’estate del 1995, iniziano ad esplorare il mercato per una sua cessione.

Il valore di mercato di Rodman è sceso ai minimi termini e, proprio per questa ragione. Paradossalmente è proprio questo crollo ad aver determinato il rilancio del Verme a livello tecnico.

Serviva qualcuno che osasse e non c’erano mani migliori nelle quali finire.

Rodman agli Spurs, esperienza memorabile solo per i parrucchieri texani

 

Da un problema nasca un’opportunità

Nell’estate del 1995 i Chicago Bulls stanno tentando di riorganizzarsi. Michael Jordan è tornato dopo la sua parentesi nel baseball ma si è sentita troppo la mancanza sotto canestro di Horace Grant, finito ad Orlando l’estate precedente.

Il problema nasce da una limitazione salariale: il contratto di Jordan pesa troppo sul cap, operare sul mercato con profitto appare piuttosto complesso, serve una manovra creativa.

Il coach Phil Jackson ha un’idea: rilanciare Dennis Rodman. Il suo storico assistente Tex Winter, inventore del Triangle Offense, avalla l’idea di Jackson.

I due chiedono un parere a Michael Jordan che, inizialmente, non sembra entusiasta. Ma dal colloquio con lo staff tecnico, Air capisce che Jackson e Winter hanno già pensato a tutto. Gli viene spiegato come lo terranno a bada e l’apporto che potrebbe dare a livello tecnico.

Anche Jordan si è convinto e, ad un prezzo bassissimo (il centro di riserva Will Perdue), i Bulls si portano a casa uno dei migliori difensori della storia della NBA.

L’idea di Jackson sembra folle ma si rivela vincente: per tenere a bada Rodman decidono di non tenerlo al guinzaglio, confidando nelle sue capacità di autoregolamentazione e nella voglia di rivalsa, senza porlo di fronte alla scelta tra il basket e la vita mondana.

E Rodman si sente di nuovo amato, sposa totalmente la causa, si sacrifica e lavora durissimo quando è al campo di allenamento o in partita. Il tutto senza abbandonare le bizzarre avventure extra campo, un compromesso non infallibile ma che pare il migliore per non minarne la tenuta mentale.

Anzi, l’idea di essere un soldato di quel Michael Jordan che, inconsapevolmente, ha portato alla fine dei Pistons e del vecchio Rodman diventa uno stimolo.

The Worm a rimbalzo durante le Finals 1996

 

Poco bastone, molta carota

Al cospetto di Phil Jackson e Tex Winter, due geni della NBA, Dennis Rodman si rivela un discente modello.

Nonostante l’età non più verdissima e la carriera alle spalle, The Worm si presenta senza pregiudizi tattici, pronto ad apprendere per rilanciarsi e dare una mano alla squadra.

Il suo cervello è una tela bianca sulla quale il coaching staff dei Bulls disegna con grande perizia tecnica gli schemi che avrebbero potuto e dovuto dare nuova linfa agli ultimi anni della Jordan Era.

Sia Winter che Jackson dichiarano che allenare Rodman è estremamente facile, diversamente da quanto dica l’opinione pubblica: semplicemente si limitano a non dirgli come deve giocare né cosa deve o non deve fare nella vita privata: è un giocatore di istinti ed è in grado di capire come meglio adeguarsi alla coralità dei Bulls.

D’altronde la sua intelligenza cestistica non è mai stata in discussione: al di là delle stranezze extra campo, è riuscito a presentarsi in NBA rinunciando quasi totalmente all’aspetto offensivo del suo gioco e a diventare un giocatore ugualmente determinante. L’ulteriore esperienza acquisita non può che giovargli.

Il piano disciplinare di Jackson, inoltre, ha funzionato: Rodman è un purosangue ma al tempo stesso un cavallo che si imbizzarrisce con poco, pertanto usare molta carota e poco bastone è sembrata fin da subito la scelta migliore.

Certo, episodi curiosi ci sono stati ma sempre gestiti in punta di piedi. Come quando, a dire di Jordan, si presenta agli allenamenti da ubriaco: Jackson, per “punirlo”, ordina ai suoi di fare dei giri di campo ma, nonostante le condizioni, Rodman è davanti a tutti, imprendibile per i compagni.

Fisico straordinario e voglia di fare: Rodman avrebbe contribuito a scrivere la storia della sua squadra.

Altra posa plastica a rimbalzo per il 91 dei Bulls

 

Difensore e uomo in missione

Anche se ha già 35 anni, fisicamente Rodman è al top. Il mix tra la maturità anagrafica e la voglia di rivalsa gli hanno donato una dimensione ancora maggiore, in cui la cattiveria agonistica si mischia con le abilità tecniche e tattiche.

Una delle grandi doti di Rodman a Chicago è la totale capacità di entrare sotto la pelle dei propri avversari grazie alla provocazione, quasi come un mentalista.

Talvolta si leggono paragoni con Draymond Green ma, pur non volendo sminuire l’importanza tattica del giocatore degli Warriors, Rodman è ad un livello superiore: non ha bisogno di cercare il confronto violento.

Pur non disdegnando la fisicità nel proprio gioco, come ai tempi dei Bad Boys, Rodman riesce ad ottenere il proprio scopo semplicemente portando all’esaurimento i suoi avversari e, talvolta, causandone falli o espulsioni.

Rodman contro Brickowski, una delle più leggendarie provocazioni di The Worm

 

Tale nuova consapevolezza tattica e mentale ha aiutato Rodman a dominare difensivamente anche nel momento in cui, per ragioni di età, la sua esplosività a rimbalzo è venuta un po’ a calare, soprattutto durante i playoff, senza che, ciò gli impedisse di divenire il miglior rimbalzista NBA anche nei suoi tre anni ai Bulls, per un totale di sette volte consecutive tra il 1992 e il 1998.

Assieme a Michael Jordan e Scottie Pippen, inoltre, ha creato dei Big 3 sensazionali, riportando il titolo a Chicago nel 1996 dopo una serie finale estremamente fisica contro gli Seattle SuperSonics.

Altri duelli fisici tra Rodman e Brickowski, suo nemico dichiarato tra i Sonics

 

Battaglia epica: Rodman vs. Malone

Nelle stagioni 1996-97 e 1997-98, tuttavia, il panorama NBA mostra una sfida nella sfida: Chicago Bulls vs. Utah Jazz e, soprattutto, Dennis Rodman vs. Karl Malone.

Soprannominato The Mailman per la sua costanza di presenze e rendimento (perché, come il postino, è “sempre in servizio”), Malone è nella Top 3 dei migliori realizzatori NBA di sempre. Ala grande come Rodman, unisce alla propria fisicità una grande abilità in post basso, che lo rende difficilmente marcabile sotto canestro.

Una sfida, per Rodman, anche alla luce del fatto che, nel 1997, la NBA lo premia con MVP al posto del suo amico e compagno Jordan.

Ne nasceranno due anni di duelli incredibili, due serie di Finals senza esclusione di colpi, in cui Rodman limiterà come meglio può l’apporto di Malone.

Rodman riscrive il concetto di marcatura stretta impedendo a Malone di supportare l’azione offensiva durante G6 delle Finals 1998

 

Alle Finals del 1997, Malone arriva con una media di 27 punti a partita in Regular Season e 26,93 ai playoff: Rodman lo limita, tenendolo in cinque partite su sei sotto la media stagionale, terminando la serie con meno di 24 punti a serata.

Anche nel 1998, nonostante qualche controversia nella Sin City abbia messo a repentaglio la serie e il buon nome di Rodman, nelle prime quattro gare Malone viene molto limitato.

Sarà la chiave per il secondo three-peat dei Bulls: in tre anni a Chicago, Rodman contribuisce a tre titoli, la scommessa sul suo rilancio è vinta.

Quattro minuti e mezzo di sportellate tra Rodman e Malone in G5 alle Finals 1998

 

Vegas Nights

Abbiamo parlato di controversie nella Sin City durante le Finals del 1998: è il 3 giugno, Chicago ha il fattore campo ed ospita i Jazz per Gara 1.

Il match, a sorpresa, viene vinto da Malone e compagni. Ci si attende un lavoro solido per la preparazione di Gara 2 ma Rodman non la pensa così: finisce il match e prende un volo per Las Vegas, dove gioca al casinò tutta la notte, disertando l’allenamento del giorno seguente, alla vigilia di gara 2.

I Bulls non la prendono bene. E non è finita qua: il Verme è accusato di aver tenuto comportamenti inappropriati all’interno del casinò The Mirage, tanto da ricevere una denuncia per essersi strofinato le parti intime con i dadi da gioco.

Si respira un’aria pesante a Chicago. Eppure Rodman torna a essere il solito animale da parquet e la serie torna rapidamente dalle parti della Città del Vento, che ribalta tutto riprendendosi il fattore campo con la vittoria interna in gara 2 ed a Salt Lake City in gara 3.

Finita qua? Macché. Il giorno dopo Gara 3 la NBA multa Rodman, reo di aver saltato un allenamento e, soprattutto, una media session obbligatoria. Il motivo? Apparentemente sparito, viene ripreso dalle telecamere al The Palace di Auburn Hills (sì, proprio lì) ad assistere ad un match di wrestling con l’amico Hulk Hogan.

Alla fine, le sue impronte digitali sulle Finals 1998 saranno ovunque ma non senza la paura di ritrovarsi tra le mani il Rodman di San Antonio.

La comparsata a WCW Nitro durante le Finals 1998

 

Wrestling e cinema

Il wrestling è una delle grandi passioni di Rodman, come dimostra l’aver messo a repentaglio le Finals 1998 per partecipare ad un evento live.

Un’occasione da cavalcare per lui e per la WCW, la federazione di wrestling che annovera tra le sue fila tra gli altri il leggendario Hulk Hogan.

Se è vero che nell’estate del 1997 era già salito su un ring della WCW, la rivalità con Karl Malone e l’episodio del 1998 spingono i dirigenti della compagnia ad un incontro speciale: durante il pay-per-view Bash at the Beach viene organizzato un tag team match.

Rodman, entrato a far parte della stable nWo, fa coppia con l’amico Hulk Hogan contro Karl Malone e Diamond Dallas Page.

A trionfare è Rodman che, tuttavia, avrebbe minato un potenziale futuro nella federazione presentandosi all’evento in uno stato confusionale, probabilmente ubriaco.

Rodman ha anche recitato in alcuni film, ricoprendo una parte di rilievo soprattutto in Double Team, assieme a Jean-Claude Van Damme e Mickey Rourke, ed in Simon Sez.

Altro duello tra Rodman e Malone, stavolta sul ring WCW di Bash at the Beach

 

Ultimi anni di carriera

Chiuse le Finals 1998, i Bulls hanno deciso di ricostruire, rinunciando ai loro campioni. Rodman è ripartito quindi dai Lakers senza lasciare il segno, con appena 23 apparizioni, per chiudere a Dallas, anche qui con scarso successo viste le appena 12 presenze.

In NBA ha chiuso con cifre curiose: sommando assist e punti, questi risultano meno dei rimbalzi presi, con il record di sette partite in carriera da 0 punti e almeno 20 rimbalzi.

Dal momento che era diventato qualcuno grazie al basket, cosa gli sarebbe accaduto una volta ritiratosi?

Un’eventualità che The Worm ha tentato di scongiurare fino all’ultimo, rimandando il più possibile il ritiro e trascinando stancamente la sua carriera in giro per il mondo, nonostante ormai il fisico non lo assistesse più, contando sul fatto che ci fosse gente disposta ad ingaggiarlo per offrire ai propri tifosi un ex campione da guardare da vicino.

Quasi un fenomeno da circo, più che un cestista, ancorché mosso da un’incrollabile passione.

Prima di ritirarsi, Rodman si regala apparizioni in NBA Development League con i Long Beach Jam, in Finlandia con i Torpan Pojat Helsinki, in Messico con i Tijuana Dragons ed in Gran Bretagna con i Brighton Bears, sempre senza lasciare il segno.

A differenza di quanto, invece, fatto in NBA: ritenuto da Phil Jackson il miglior atleta con cui abbia mai lavorato, Rodman è stato inserito nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame nel 2011.

Commosso, il ragazzo di Dallas ha dichiarato che avrebbe voluto rimettere in sesto la propria vita per essere un buon padre, quello che lui non ha avuto. Ma che avrebbe ritrovato grazie al basket.

Nel 2012, infatti, durante un’esibizione nelle Filippine, Dennis ha incontrato dopo 43 anni il padre Philander, dichiarandosi intenzionato a lasciarsi il passato alle spalle.

L’incontro tra Rodman e il padre

 

Fuori dal parquet

La vita di Rodman ha continuato ad essere controversa ed emozionante.

Nel 1998 si è sposato con l’attrice Carmen Electra, divorziando dopo circa tre mesi, mentre nel 2003 è convolato a nozze per la terza volta con Michelle Moyer, da cui ha avuto altri due figli, un maschio ed una femmina.

DJ, classe 2001, attualmente milita negli USC Trojans, mentre la figlia Trinity, classe 2002, è una calciatrice, attaccante degli Washington Spirit e della nazionale statunitense.

Come detto, l’addio al basket non è stato semplice per Rodman: ha tentato di affogare i problemi nell’alcol e combattuto con la depressione prima di rimettere in ordine la propria vita.

Lo ha fatto aiutando gli altri, perché, al di là del personaggio che si è costruito, Rodman è un buono. Tanto che, ad un certo punto, il suo nome ha iniziato a circolare per un premio di tutt’altro genere rispetto a quelli vinti in carriera: il Premio Nobel per la Pace.

Principalmente una boutade, benché frutto delle asserite intenzioni di mediazione di Rodman tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord. Nel corso del tempo, infatti, The Worm ha avuto modo di frequentare il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, pregando l’allora presidente Obama affinché venissero aperti negoziati. Il suo appello è caduto nel vuoto.

Oggi Rodman, alle porte dei 63 anni, è un personaggio attivo sui social ed ha superato i fantasmi del passato, ripulendo la propria vita.

Il suo lascito al mondo è l’immagine di un uomo buono che ha liberato la NBA da alcuni eccessivi formalismi. Un campione, determinante sul campo anche senza dover rispettare le regole e, anzi, riscrivendone alcune.

Rodman scherza con Kim Jong-un

 


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The Homies

Di Manuel Fanciulli

Laureato in giurisprudenza e padre di due bambini, scrivo di sport, di coppe e racconto storie hipster. Cerco le risposte alle grandi domande della vita nei viaggi e nei giovedì di Conference League.