Il miglior calciatore di ogni regione – Parte due

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Eccoci alla seconda fermata del nostro viaggio tra i calciatori più forti di ogni regione italiana. Dopo avervi parlato delle regioni del Nord Italia nel primo episodio, in questa puntata si scende giù dagli Appennini e si viaggia verso il centro.

 

LIGURIA – Valerio Bacigalupo

Non a tutti i calciatori capita, nel corso della carriera, di diventare parte di una filastrocca. A pochissimi poi spetta l’onore di esserne la prima parola, lo scivolo sul quale poi scorrono tutti gli altri nomi. Valerio Bacigalupo, ragazzo di Vado Ligure trapiantato per carriera 140 chilometri più su, nella fredda Torino, è uno di quelli a cui è capitato. Il suo è infatti il primo cognome che si pronuncia quando si snocciola una delle formazioni più forti della storia del pallone italiano, quella del Grande Torino. Uno scioglilingua che vale la pena ripetere per intero: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola.

Scartato dall’Entella da giovanissimo e portato al Toro da Ferruccio Novo, esordisce in Serie A nel 1945, in una partita che in città qualcosa conta: un derby con la Juventus. Verrà trafitto solo su rigore da Silvio Piola, un altro nome inciso a fuoco nella nostra storia del calcio, e da quel giorno diventerà il titolare indiscusso di una formazione semplicemente imbattibile.

Coi suoi leggendari compagni vincerà quattro scudetti di fila, tra il 1946 e il tragico 1949. In Nazionale non troverà altrettanta fortuna, chiuso dall’esperienza dal collega dell’altra sabauda, il bianconero Sentimenti IV. Poche settimane prima della tragica fine sul colle di Superga gioca la sua ultima partita in azzurro ergendosi ad assoluto protagonista della prima vittoria della Nazionale in terra di Spagna. Para infatti un rigore, decisivo nel 3-1 finale. La sua strada verso la conquista dei galloni da titolare in Nazionale sembra spianata e invece, a soli 25 anni, il destino infame lo porterà via insieme a tutti gli altri granata.

Ci sono altri liguri, tuttavia, che vale la pena nominare. Roberto Pruzzo, divenuto un vero e proprio local hero per la fetta giallorossa di Roma, con uno scudetto, quattro Coppa Italia e più di cento gol. Christian Panucci, difensore arcigno ed elegante allo stesso tempo, capace di vincere praticamente tutto ciò che c’era da vincere imponendosi come titolare in due squadre fenomenali come Milan e Real Madrid. Enrico Chiesa, attaccante dai grandi colpi, 138 gol in Serie A, l’ultimo marcatore di una squadra italiana capace di vincere la Coppa Uefa (Parma-Marsiglia 3-0 nel 1999).

Nessuno, però, si porta dietro la leggenda di Bacigalupo, l’uomo della filastrocca.

Il rigore parato da Bacigalupo a Madrid

 

EMILIA ROMAGNA – Filippo Inzaghi

Se è vero che “ha ragione chi fa gol”, come recitava la sigla del vecchio programma di TMC chiamato Goleada, allora l’Emilia Romagna è il posto giusto per trovare calciatori che abbiano validi motivi per stare in questa rassegna.

Con 316 gol in carriera tra club e nazionale azzurra, il nome giusto è Filippo Inzaghi. Quello tra Superpippo e la porta avversaria è stato un feeling morboso fin da giovane, percepibile già nei primi anni di carriera e deflagrato a Bergamo quando a 24 anni ha vinto il titolo da capocannoniere al suo primo anno da titolare in Serie A.

Il suo allenatore dell’epoca, il mitico e compianto Emiliano Mondonico, avrà modo di soffermarsi sul simbiotico rapporto tra Inzaghi e la rete con la celebre frase “Non è Inzaghi ad essere innamorato del gol, è il gol ad essere innamorato di Inzaghi”.

Un’affermazione volta a evidenziare come fosse il pallone a finire sempre da lui, catturato da quella magnetica attrazione che, pur con doti fisiche e tecniche apparentemente nella media, ha permesso a Superpippo di entrare nel gotha del calcio italiano.

Ma non erano doti nella media: il tempismo e l’abnegazione di Inzaghi sono sempre stati un esempio per tutti i compagni, da sempre incuriositi dal tenore di vita salutista e quasi ossessivo che Filippo ha portato avanti nel corso degli anni, con sacrifici terreni ripagati dalle domeniche passate a far saltare dal divano i suoi tifosi.

Dopo l’Atalanta è arrivata la Juventus e con lei i primi successi, quindi il passaggio al Milan. E in rossonero è stato capace di farsi perdonare quel passato tra i rivali nell’unica lingua conosciuta, quella che lo vedeva sfrecciare urlante e indemoniato non appena la palla avesse varcato la linea della porta avversaria, in qualunque modo fosse arrivato il gol, sia stato questo bello, brutto, da acrobata o totalmente casuale.

Il 25 maggio 2005, il suo allenatore Carlo Ancelotti (un altro che a queste latitudini meriterebbe menzione) lo ha escluso sorprendentemente dalla distinta della maledetta finale di Istanbul: le divinità pagane del calcio avevano premiato il Liverpool, facendo pagare caro quell’affronto. Quello consistente nel lasciare un loro figlio, baciato da quel dono magnetico, lontano dal terreno di gioco.

Inzaghi si è ripreso tutto due anni dopo: ancora con il Liverpool, stavolta ad Atene, con una doppietta in finale capace di rimarginare parzialmente una ferita che ancora oggi fa male.

È il recordman italiano di marcature nelle coppe europee, con 70 centri, ha vinto 3 Scudetti, 3 Supercoppe italiane, una Coppa Italia, 2 Champions League, 2 Supercoppe europee, un mondiale per club, un Intertoto e, soprattutto, il Mondiale del 2006.

Proprio i gol nelle coppe consentono a Inzaghi di staccare un altro nome pregevolissimo a proposito di vittorie mondiali e gol realizzati, il propheta in patria Angelo Schiavio. Nato a Bologna e bandiera felsinea, in carriera vanta 257 gol realizzati, tra cui quello decisivo ai supplementari contro la Cecoslovacchia nella finale del mondiale del 1934.

Meritano una menzione anche un’altra bandiera del Bologna, Giacomo Bulgarelli, e la prima scarpa d’oro italiana di sempre, Luca Toni, entrambi affermatisi anche con successi in azzurro.

Alcuni dei gol migliori, fossero stati tutti avreste dovuto prendervi le ferie

 

TOSCANA – Gianluigi Buffon

Si potrebbe pensare di chiedere a qualsiasi persona che segue il calcio dagli anni ’90 in avanti chi sia stato il portiere più forte di tutti i tempi. Un sondaggio da estendere ad ogni latitudine mondiale, in ogni sperduto angolo della Terra dove un televisore trasmetta una partita di calcio. Se si va in Spagna, forse, qualcuno potrà dire Iker Casillas. Altri potrebbero dire Manuel Neuer, anche per l’importanza che ha avuto nell’evoluzione del ruolo del portiere e che stiamo apprezzando oggigiorno. Tutti gli altri, ma proprio tutti, potrebbero dire un nome e un nome soltanto: Gigi Buffon.

Un nome che si racconta da solo. Dieci scudetti, sei Coppa Italia, una Coppa Uefa da giovanissimo col Parma. L’uomo con più presenze della storia in Serie A. E in Nazionale? Cinque partecipazioni ai Mondiali – di cui uno vinto – , quattro agli Europei, recordman di gettoni in azzurro, un Euro Under21 aggiunto in bacheca quando da promessa stava per diventare realtà.

Un’istituzione, un vero game changer per il ruolo, capace di ispirare una marea di futuri portieri: non esiste un singolo numero 1 che vedete in campo oggi che non sia cresciuto sognando di diventare anche solo la metà di Gigi Buffon.

La Toscana potrebbe schierare, in questa particolare competizione, anche il compianto Paolo Rossi o l’iconico Marco Tardelli. Nessuno dei due però, per peso specifico, regge il confronto con una vera e propria leggenda del calcio mondiale.

Chi ha scritto le leggi della fisica non ha mai visto parare Gigi Buffon

 

UMBRIA – Giancarlo Antognoni

Una terra speciale, unica regione sotto la Pianura Padana a non farsi lambire dal mare lasciandosi invece sedurre da bellezze naturalistiche ed architettoniche, dagli uliveti alle piantagioni, dai paesaggi lacustri ai meravigliosi borghi.

E a rappresentarla non poteva che essere un calciatore speciale come Giancarlo Antognoni, romantico come il genio che governava il suo talento e come l’amore e la dedizione per la causa della Fiorentina, squadra cui ha legato la quasi totalità della sua carriera calcistica, in campo e fuori.

Il 10 per eccellenza, non solo per qualità ma anche e soprattutto per eleganza: se pensi all’uomo di classe lo immagini esattamente così, piedi di puro cachemire nel trattamento del pallone e anche nel seducente incedere sul manto verde, accarezzato più che calpestato, il tutto con la testa sempre alta.

Occhi e cervello al servizio della squadra grazie ad una visione di gioco praticamente senza pari nella sua epoca ma anche al carattere e alla leadership: campione onesto e rispettoso, ha saputo entrare nel gotha del calcio italiano anche a dispetto della sfortuna.

Ha rischiato di saltare il Mundial del 1982 a causa di un gravissimo scontro con il portiere del Genoa Martina, una ginocchiata che gli causò una frattura del cranio e l’interruzione del battito cardiaco.

Rientrato, ha visto sfumare lo scudetto per la sua Viola tra le polemiche, quindi è partito per la Spagna ma ha saltato la finale per un fallaccio subito in semifinale. E, nonostante abbia alzato la coppa al cielo, quella finale è rimasta il suo grande rammarico, assieme proprio al match contro il Cagliari che aveva deciso, nello stesso anno, il titolo in favore della Juventus.

Antognoni è stato il campione del rimpianto, per il confronto impietoso tra ciò che è stato, un fuoriclasse e una leggenda della Fiorentina, squadra di cui è il giocatore più presente di sempre e di cui è stato anche allenatore e dirigente, e ciò che ha vinto. Troppo poco per rendergli giustizia: una Coppa Italia e il Mondiale del 1982, oltre ad un Trofeo Anglo-Italiano.

A proposito di Fiorentina, il miglior cannoniere nato in Italia della storia gigliata è anch’egli umbro: si tratta di Alberto Galassi, 63 gol tra il ’47 ed il ’52, mentre gli umbri più vincenti hanno legato il proprio nome alla Juventus: si tratta di Stefano Tacconi e Fabrizio Ravanelli, unici umbri ad aver vinto una Coppa dei Campioni.

Pura bellezza dai piedi di Antognoni

 

MARCHE – Roberto Mancini

Anche a fronte di un rapporto controverso con la nazionale sia da calciatore che da CT, il più grande calciatore marchigiano di sempre non può che essere Roberto Mancini.

Giocatore dalla bellezza abbacinante e dalla tecnica sopraffina, ha faticato a trovare spazio in nazionale in un’epoca in cui la concorrenza era agguerrita ed il talento è stato talvolta ingabbiato da alcune scelte tecniche discutibili.

Epitome del numero 10 classico, alla Sampdoria è stato poesia in movimento, regalando al popolo blucerchiato il primo e unico trionfo su suolo nazionale, affermandosi in ambito europeo fino a sfiorare una Coppa dei Campioni e formando una coppia immortale con il compianto Gianluca Vialli.

Carattere spigoloso e spesso poco apprezzato da alcuni allenatori, ha lasciato la Sampdoria dopo 15 anni, riuscendo a trovare un suo spazio in una Lazio fortissima, con tanto di nuove affermazioni in Italia ed in Europa e intramontabili colpi di genio anche a dispetto di un’età non più verdissima, come quel colpo di tacco al volo da corner a Parma, forse uno dei gol più belli mai visti sui nostri campi.

Il suo palmarès a livello di club, pur non avendo mai giocato in una delle canoniche “grandi del Nord” è stato di primissimo ordine: due Scudetti, sei Coppe Italia (record condiviso con Gigi Buffon), 2 Supercoppe italiane, 2 Coppe delle Coppe ed una Supercoppa europea.

La sua visione di gioco e capacità tecnico-tattica erano di livello superiore, tanto da intraprendere quasi subito una proficua carriera da allenatore che lo ha portato anche a diventare CT azzurro, riportando a casa l’Europeo a distanza di 53 anni dall’ultima volta, prima che la mancata qualificazione ai mondiali del 2022 e le sirene arabe lo spingessero ad accettare il medesimo incarico in Arabia Saudita.

Il carattere difficile, fatto di polemiche con gli arbitri, i giornalisti ed anche l’ex CT Vicini, nonché la difficile compatibilità con il nuovo CT Sacchi lo hanno limitato a sole 36 presenze e 4 gol in azzurro, con due semifinali, una agli Europei del 1988 e una ai Mondiali del 1990.

Eppure, paradossalmente, non è il marchigiano ad aver ottenuto il miglior piazzamento con la nostra nazionale, alla luce del secondo posto raccolto nel 1994 dal correggionale Luca Marchegiani, numero 12 nella spedizione azzurra negli USA.

Che coppia con l’amico di sempre Vialli, due divinità dell’Olimpo blucerchiato

 

LAZIO – Francesco Totti

È la regione con il legame più solido con le proprie squadre locali, molti campioni sono nati nel Lazio e quasi tutti hanno indossato le casacche delle due squadre della Capitale.

In maniera un po’ diversa: se i migliori campioni passati dalla Lazio (Alessandro Nesta, Bruno Giordano, Paolo Di Canio, Mauro Tassotti) hanno raccolto onori e successi anche al di fuori della regione, quelli della Roma si sono legati principalmente alla maglia giallorossa, divenendone bandiere e capitani (Bruno Conti, Daniele De Rossi, Agostino Di Bartolomei, Giuseppe Giannini).

Tra tutti, non ce ne vogliano i vari grandi campioni di questa regione, il nome di maggior spicco non può che essere quello di Francesco Totti.

Nessun calciatore ha saputo coniugare il proprio nome a quello della città e della squadra che ha rappresentato come Il Capitano.

Calciatore di una completezza pressoché antologica, ha unito potenza e precisione per l’intera carriera: dal fioretto dell’uomo assist di inizio carriera è passato alla sciabola del goleador con il passare degli anni, divenendo un centravanti da Scarpa d’Oro nel 2007 e risultando spesso imprendibile palla al piede.

I suoi highlights hanno ispirato generazioni di ragazzini, innamorati dei suoi lanci millimetrici come se avesse un joypad al posto dei piedi, degli assist illuminanti senza neanche guardare il compagno, di gol iconici che hanno saputo unire precisione e potenza, dai famosi cucchiai, su tutti quelli a San Siro contro l’Inter o nel famoso 5-1 nel derby, ai sigilli al volo contro Sampdoria e Udinese.

Ma il viscerale amore che il popolo romanista ha saputo tributare a Totti va oltre le qualità tecniche: 786 presenze (di cui 571 con la fascia da capitano) e 307 gol ne fanno il giocatore con più presenze e più reti con la maglia giallorossa, difesa e onorata per ben 25 stagioni. Il tutto rinunciando alle sirene provenienti da squadre più quotate, con presidenti italiani e stranieri disposti a fargli ponti d’oro per averlo alla loro corte. E dove non è arrivato il palmarès (uno Scudetto, due Coppe Italia, due Supercoppe Italiane e un Mondiale con la maglia azzurra) ci ha pensato l’amore totale della sua gente.

“The greatest of his generation”

 

SARDEGNA – Gianfranco Zola

Come tanti figli di una terra selvaggia, Gianfranco Zola è dovuto emigrare per scrivere il proprio nome nel grande libro del calcio. Un talento straordinario racchiuso in pochi centimetri d’altezza, un destro telecomandato, la fantasia al potere.

Un ragazzo partito da Oliena, paesino incassato tra i monti che circondano Nuoro, e che ha fatto innamorare Londra, una delle città più grandi ed importanti del mondo. Insieme a Gianluca Vialli, il comandante della pattuglia italiana al Chelsea. Ha rubato per anni gli occhi di chi frequentava le tribune di Stamford Bridge e con i suoi colpi si è cucito addosso un soprannome tra i più perfetti mai coniati per un calciatore: Magic Box.

Prima di Londra ha condiviso la maglia del Napoli per un paio d’anni con Diego Armando Maradona, poi è stato uno degli artefici dell’epoca dorata del Parma, arrivando a un passo dalla top 5 del Pallone d’Oro prima di sentirsi ingabbiato dalle scelte di Carletto Ancelotti e prendere il primo volo per Albione.

Zola è stato anche profeta in patria, dove per patria si intende la Sardegna. Osannato al suo arrivo a Cagliari dopo l’esperienza britannica, è riuscito a trascinare di peso il Casteddu in Serie A e poi a salvarlo l’anno successivo, prima di ritirarsi dal calcio giocato.

Il suo rapporto con la nazionale italiana, invece, è stato singhiozzante. È suo infatti il gol storico che nel 1997 ha consentito all’Italia di battere l’Inghilterra a Wembley per la seconda volta assoluta, ma è anche sua l’espulsione – inventata – rimediata al Mondiale 1994 dopo appena 12 minuti dal suo ingresso in campo contro la Nigeria.

Un rosso che, così come il rigore fallito contro la Germania a Euro ’96, non gli impedisce di essere il sardo più forte di sempre.

Non sappiamo se è stato il Maradona d’Italia, ma di sicuro è stato quello di Sardegna

 

 


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Di Manuel Fanciulli

Laureato in giurisprudenza e padre di due bambini, scrivo di sport, di coppe e racconto storie hipster. Cerco le risposte alle grandi domande della vita nei viaggi e nei giovedì di Conference League.