In Corea del Nord se perdi una partita vai ai lavori forzati

Corea del Nord - Puntero

La Coppa del Mondo FIFA 2010 non è una di quelle edizioni del Mondiale che, almeno in Italia, sono passate alla storia. Gli Azzurri erano i campioni in carica e il CT era Marcello Lippi, il condottiero della vittoria del Mondiale del 2006. La coppa si disputava al di sotto dell’equatore, nell’affascinante Sudafrica. I più ricordano il tormentone musicale di Shakira Waka Waka (This Time for Africa), la canzone più rappresentativa della competizione. Un altro ricordo, non proprio calcistico, vivo nella memoria di molti è il sottofondo costante e assordante della vuvuzela, la trombetta di plastica utilizzata da tutti i tifosi dei dieci stadi ospitanti. Per la nazionale italiana fu un vero e proprio fallimento calcistico: ultimi nel girone con zero vittorie, due pareggi e una sconfitta.

Non di rado, parlando di calcio e non solo in Italia, gli animi si scaldano velocemente. Una parola di troppo spesso può portare a dibattiti o perfino a veri e propri litigi. Talvolta le delusioni calcistiche possono essere estremamente cocenti, come nel caso di specie. Ma ciò non può giustificare tutto, esiste un confine, una sottile linea rossa che diventa inaccettabile travalicare, che non può essere motivata con gli insuccessi sportivi.

Tra tutte le partite degli otto gironi, quella che passiamo sotto la nostra lente di ingrandimento è quella disputata tra il Portogallo di Cristiano Ronaldo e la Corea del Nord, terminata con il pesante risultato di 7-0. A prima vista può sembrare una sconfitta sì dolorosa e pesante ma non certo una novità assoluta nella storia di questo sport. La peculiarità e drammaticità di questa débâcle va tuttavia letta analizzando la squadra sconfitta, la Corea del Nord. Per comprendere le conseguenze di tale risultato è utile una piccola chiosa sulla travagliata storia del Paese asiatico.

 

Bolla del regime

Uno degli esiti della Seconda guerra mondiale fu la pesante sconfitta del Giappone, che portò alla disgregazione dell’Impero giapponese e alla dissoluzione dei suoi territori, tra cui anche la Corea. Che a sua volta venne divisa in due zone d’occupazione: il nord vedeva il presidio dei sovietici mentre il sud degli americani. Una situazione che non durò per molto: nel 1948, divise dal 38° parallelo, le due zone occupate diventarono due stati distinti. La Corea del Nord, guidata da Kim Il-sung, fu sottoposta a un regime comunista mentre la Corea del Sud vide la nascita di un governo filo-occidentale. In un mondo dominato dall’ideologia e dal potere, la calma tra i due Stati, invero solo apparente, non perdurò a lungo, tanto che già nel 1950 i nordcoreani invasero la Corea del Sud, pretendendo la sovranità su tutta la penisola.

Nel 1994, alla morte di Kim Il-sung divenne capo di Stato nordcoreano il figlio Kim Jong-il. Quest’ultimo, a causa di un grave attacco cardiaco, morì nel 2011, lasciando il suo posto al figlio Kim Jong-un, l’attuale leader supremo. La Corea del Nord ha da sempre una storia travagliata e misteriosa: il Paese è pressoché inaccessibile, non esistono democrazia né libertà di pensiero. Quello che le rare immagini e le fonti raccontano del Paese è una spietata dittatura, uno scenario molto simile a quello descritto da George Orwell in 1984. I cittadini nordcoreani sono poveri, spesso senza corrente in casa, non dispongono delle libertà più essenziali e soprattutto non possono uscire dai confini nazionali, elemento che ha contribuito a creare una bolla intorno al popolo nordcoreano, che non conosce né il mondo occidentale né i suoi costumi.

Formalmente ci troveremmo innanzi ad una repubblica socialista. Gli ideali perpetrati sono però ben lontani dall’uguaglianza, dai diritti estesi a tutte le fasce della popolazione e dalle altre proposte e situazioni egualitarie. Non ci sono partiti d’opposizione né elezioni e il leader supremo esercita il suo potere assoluto fino alla morte. È fortissimo il dislivello tra i ricchi al governo e i poveri, ossia il popolo dei governati, che sopravvive in un mondo diverso da quello che circonda le figure politiche di spicco, che vivono “all’occidentale”, tra abiti firmati e pasti luculliani.

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Kim Jong-un, attuale leader supremo della Corea del Nord

 

La disfatta

Questo ci riporta al Mondiale del 2010 in Sudafrica. Per tutti un’occasione di vedere la propria squadra trionfare mentre per altri un’occasione di scorgere con i propri occhi quello che c’è al di fuori dei propri confini. La partita, come detto, è quella contro il Portogallo, secondo match del girone disputato il 21 giugno 2010. Si trattava della seconda partecipazione iridata della Corea del Nord, dopo l’edizione, per noi famigerata, del 1966, in cui la Nazionale asiatica fu giustiziera dell’Italia. All’esordio del 15 giugno, la Corea del Nord non sfigurò, considerando il blasone dell’avversario, cedendo al Brasile con il sorprendente risultato di 2-1.

Sulla scia della buona prestazione contro la Seleção, il leader coreano Kim Jong-il decise – evento del tutto straordinario in Corea del Nord – di trasmettere in diretta nazionale la partita contro il Portogallo. Il primo tempo terminò con uno solo gol di vantaggio dei portoghesi. La Corea del Nord, che sembrava reggere contro una delle papabili vincitrici del Mondiale, si lasciò andare nel ripresa subendo sei reti. Cristiano Ronaldo siglò il 6-0 in maniera rocambolesca: dopo aver saltato il portiere, la palla si impennò, fermandosi fortuitamente sul collo di CR7, che la riprese con un accidentale “colpo della foca” per poi appoggiarla in rete.

Insomma, una vera e propria disfatta calcistica. Come detto nulla di nuovo, se non considerassimo le conseguenze per la squadra allenata da Kim Jong-Hun. Le strade nordcoreane quella sera erano deserte. Tutti volevano assistere alla partita della propria Nazionale, evento raro considerando la bolla in cui viveva e vive il popolo. I sette gol gelarono il sangue dei nordcoreani. Dopo quella disastrosa sconfitta, la Corea del Nord affrontò la Costa d’Avorio e perse con tre gol di scarto. Ma il dramma sportivo è nulla al cospetto della piega che questa storia avrebbe preso al ritorno in patria.

Gli highlights del rotondo successo del Portogallo

 

Lavori forzati

Fatta eccezione per i due giocatori di origine giapponese, che rincasarono immediatamente a Tokyo, l’intera squadra tornò in Corea del Nord e non ottenne l’accoglienza delle migliori occasioni. Tutti i calciatori vennero vessati e umiliati per sei lunghe ore dal ministro dello Sport Pak Myong-chol. La gogna pubblica avvenne davanti al Palazzo della Cultura del Popolo nella capitale Pyongyang. Oltre al ministro dello Sport, erano presenti centinaia di studenti, funzionari del governo e giornalisti locali. Il governo accusò pesantemente la squadra di tradimento e di aver contribuito all’umiliazione del proprio Paese, nonché di aver perso anche la battaglia ideologica portata avanti dalla Corea del Nord.

L’umiliazione non finì con una semplice gogna pubblica, già di per sé mortificante. Il regime ritenne il CT Kim Jong-Hun quale maggior responsabile, costringendolo a lasciare il Partito dei Lavoratori, trattandolo come un vero e proprio criminale e addirittura condannandolo ai lavori forzati. Insomma, una punizione durissima e disumana a fronte di una semplice sconfitta sportiva.

Una condanna esemplare che, tuttavia, non risulterà un caso isolato. Nel 2016 una condanna a quindici anni di lavori forzati investì il turista statunitense Otto Warmbier, reo di aver sottratto un manifesto di propaganda nell’hotel in cui risiedeva. Un verdetto già severissimo e che divenne presto drammatico quando, poco tempo dopo, morì a seguito delle torture e delle percosse. Un aspetto, quello dei lavori forzati, che ricorda sinistramente i campi di prigionia, drammaticamente protagonisti della storia contemporanea. Pur non potendo avere prove dirette in virtù della bolla di cui abbiamo già parlato, numerose immagini satellitari paiono confermare le ipotesi: i campi di concentramento nordcoreani esistono. In tal senso è particolarmente interessante la testimonianza, riportata nel libro intitolato Fuga dal Campo 14, di Shin Dong-hyk, l’unico uomo nato in un campo di prigionia della Corea del Nord ad essere riuscito a fuggirne.

La storia non finisce qui. Numerose fonti e giornalisti che hanno avuto contatti con il Paese asiatico successivamente al 2010 riferiscono un fatto a dir poco bislacco: secondo il popolo nordcoreano il Portogallo ha vinto il Mondiale 2010. Il regime ha replicato quanto fatto da Winston Smith, il protagonista di 1984 che lavora al Ministero della Verità e che si occupa di modificare il corso della storia. La pesante sconfitta sul campo andava giustificata in qualche modo, quindi cosa c’era di meglio che dire al popolo nordcoreano che il Portogallo aveva vinto i Mondiali? In tal modo, la débâcle sarebbe stata parzialmente mitigata e avrebbe avuto un sapore meno amaro.

Non stupisce, quindi, il fatto che Cristiano Ronaldo sia una vera e propria leggenda per la Corea del Nord, essendosi diffusa la notizia che lo vorrebbe non solo campione del mondo ma addirittura capocannoniere della competizione. Una notizia, quest’ultima, che ad una prima lettura potrebbe far sorridere ma che in realtà cela una questione molto complessa e delicata. Quella di un intero popolo schiacciato da una feroce dittatura, che ebbe l’occasione di confrontarsi con ciò che avveniva al di fuori dai confini nazionali, con esiti drammatici e senza che questa finestra sul mondo abbia portato miglioramenti a distanza di quattordici anni.

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Il CT Kim Jong-Hun, il più colpito dalle nefandezze del regime

 


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