Detroit e i Pistons, due destini intrecciati

Detroit Pistons - Puntero

Le settimane che da fine aprile conducono all’inizio dell’estate sono, per ogni appassionato di pallacanestro (eccetto gli europeisti duri e puri), un momento di particolare fibrillazione. Da quasi 75 anni, infatti, queste latitudini del calendario segnano il momento dei playoff NBA, che decretano la squadra campione al termine di uno spettacolare ballo di cinquanta giorni. Molto è cambiato dalla stagione 1949-50, anno in cui si fusero le due leghe professionistiche BAA (Basketball Association of America) e NBL (National Basketball League). Delle tredici squadre originali – oggi sono trenta – ne sono sopravvissute soltanto otto: Celtics, Knicks, Warriors per la BAA, Lakers, Kings, Hawks, 76ers e Pistons lato NBL. Molte di queste sono passate attraverso cambi di città e nome e tutte hanno vinto almeno un titolo, anche se solo Celtics e Lakers sono rimasti più o meno costantemente nell’élite della competizione.

Del resto la lega è strutturata filosoficamente per garantire un meccanismo di alternanza al vertice e, salvo rari casi, la maggior parte delle squadre fa i conti con periodi di ricostruzione che risultano ben più lunghi dei cicli vincenti. Tra le “magnifiche otto” di cui sopra, i Pistons sono forse quelli che più di tutti hanno vissuto un’altalena sportivamente drammatica, riuscendo più volte ad arrivare all’anello pur vincendo storicamente molto meno del 50% delle partite disputate. Anche quest’anno, per l’ennesima volta, i Pistons vedranno i playoff alla tv sperando che la scelta numero 5 del draft possa tramutarsi in qualcosa di buono per la ricostruzione, circostanza tutt’altro che scontata, vista la qualità della classe 2024 almeno sulla carta.

La storia dei Pistons è dal 1957 anche quella di Detroit, dove la squadra traslocò dopo gli inizi a Fort Wayne, in Indiana: è qui che ci porta questo viaggio, alla scoperta di una città e una squadra decisamente fatti l’una per l’altra.

 

Detroit, dalle origini francesi alla nascita di Motown

La storia antropologica di Detroit affonda le sue radici agli inizi del ‘700, quando i francesi ritennero che la riva nord del fiume omonimo potesse rappresentare il terreno ideale per lo sviluppo di un insediamento: “détroit” in francese significa “stretto” e il fiume costituisce in effetti uno stretto tra i laghi Huron ed Erie, posizione cruciale per lo sviluppo del commercio nella regione dei Grandi Laghi. Ben presto anche gli inglesi misero gli occhi su quest’area strategica, che verso la metà del secolo fu oggetto di aspri scontri tra le due nazioni europee e passò infine di mano nel 1763, non senza numerosi tentativi di riconquista da parte francese. Sul gonfalone cittadino odierno compaiono sia i gigli di Francia che i tre leoni inglesi, a ricordare quanto le radici della città abbiano a che vedere in egual misura con le due eterne rivali.

Con la proclamazione dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America, pochi anni più tardi, gli scontri videro contrapporsi la neonata repubblica – sempre aiutata dalla Francia – e l’Impero britannico, con gli americani finalmente vincitori nel 1813: nel mezzo, un incendio e un sanguinoso assedio rasero per due volte al suolo il forte militare e il villaggio originario. Dopo questi inizi tumultuosi, Detroit si affermò gradualmente come fondamentale polo logistico proprio in funzione della posizione geografica di cui parlavamo, trovandosi oltretutto esattamente sulla linea di confine con il Canada. Lo sviluppo urbanistico proseguì fiorente dopo la guerra civile e la raffinata architettura di Detroit, quantomeno per gli standard statunitensi di allora, le valse addirittura il titolo, decisamente pretenzioso, di Parigi dell’Ovest.

Poi nel 1896 l’ulteriore grande svolta: un giovanotto di nome Henry Ford si decise a costruire la sua prima automobile in città e nel 1904, sempre nella sede originaria di Mack Avenue, vide la luce la leggendaria Ford Model T. Nei primissimi anni del secolo arrivarono in città anche Walter Chrysler e i fratelli Dodge, seguiti da innumerevoli costruttori: è la nascita di Motown, capitale mondiale dell’automobile. Non a caso oggi Detroit è gemellata con le città di Torino e Toyota, tra le altre. La crescita della città fu spettacolare nei primi anni del secolo. Una grande quantità di immigrati giunse dagli Stati del Sud, causando anche l’insorgere delle prime tensioni razziali: di fatto si costituirono una parte nera e una parte bianca della città, delimitate dall’anello di fabbriche automobilistiche che cingeva l’originaria downtown.

Negli anni del proibizionismo Detroit divenne un crocevia fondamentale per l’importazione illegale di alcolici canadesi, mentre l’ipertrofico sviluppo dell’industria dell’auto determinava un fortissimo attivismo operaio, con l’affermazione di personalità chiave nel panorama sindacale nazionale, tra cui quella di Jimmy Hoffa, celebre per i controversi rapporti con la mafia e per la fine misteriosa. Sempre a Detroit negli anni ’40 fu aperta la Davison Highway, prima autostrada al mondo, ulteriore simbolo di una straordinaria vivacità sociale rispecchiata da un panorama culturale e musicale altrettanto energico.

Nella vicina Kalamazoo venivano prodotte le leggendarie chitarre Gibson, affermatesi nel mondo come strumenti di eccellenza per ogni genere musicale acustico ed elettrico e ancora oggi un riferimento nell’immaginario di ogni chitarrista, insieme alle californiane Fender. Sulla scena blues cittadina, accompagnato dalle fidate Gibson Les Paul Goldtop e ES-335, si affermava la figura straordinaria di John Lee Hooker. Tra gli anni ’40 e ’50 arriva così l’apice della crescita di Detroit, cuore pulsante dell’America industriale e perfetto esempio del vorticoso sviluppo economico statunitense – incluse pesanti problematiche sociali che covano dietro una facciata di benessere e prosperità.

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Un’immagine di Detroit dall’alto negli anni ’50

 

Arrivano i Pistons. E anche le difficoltà

È in questo momento d’oro che Detroit ritrova il palcoscenico NBA. La squadra cittadina dei Gems aveva infatti partecipato al campionato NBL solo nella sua stagione inaugurale (1946-47) prima di essere sciolta, a seguito di scarsi riscontri di pubblico. Va detto che si trattava degli inizi della Lega e che fu proprio negli anni ’50 che il gioco iniziò ad acquisire grandi livelli di popolarità, determinando lo spostamento di alcune franchigie da città periferiche a grandi aree metropolitane. In quest’ottica rientravano numerosi traslochi, tra i quali quello dei Lakers da Minneapolis a Los Angeles o degli Hawks da St. Louis ad Atlanta. Quello dei Pistons fu ancora più rappresentativo di questa tendenza, visto che dalla piccola Fort Wayne i rossoblù sbarcavano nella rampante Detroit alla ricerca di maggiori guadagni e visibilità.

Vale poi la pena di ricordare che il nickname dei Pistons è dovuto al fatto che il fondatore e presidente originario, Fred Zollner, era proprietario di un’azienda omonima che produceva appunto pistoni per la General Motors: quale città poteva essere più adatta di Motown per un trasferimento? I Pistons arrivano da ottimi risultati, avendo centrato due finali nel 1955 e nel 1956, seppur entrambe perse a vantaggio dei Syracuse Nationals, poi trasferiti a Philadelphia e divenuti gli odierni 76ers, e degli Warriors che, ironia della sorte, all’epoca erano di stanza proprio nella città dell’amore fraterno prima del trasferimento a San Francisco, che li ospita anche oggi con il nome di Golden State.

Sembra solo questione di tempo prima di poter salire sul tetto del mondo del basket, eppure sopraggiungono difficoltà a quel punto inaspettate: la squadra intraprende rapidamente un declino tecnico che la porta a stagioni con record perdente, in cui i playoff vengono disputati solo grazie all’esiguo numero di partecipanti. Con il progressivo allargamento della NBA, i Pistons smettono di partecipare alla posteason addirittura fino alla stagione 1973-74, dove vengono eliminati da Chicago al primo turno: la Cobo Arena, situata nel cuore di downtown Detroit, è per distacco il palazzetto meno frequentato della NBA, nonostante la presenza in squadra di grandi giocatori come Dave Bing, Jimmy Walker, Bob Lanier e Dave DeBusschere – poi ceduto a New York, dove riuscirà a vincere il titolo. I Pistons di quegli anni sono appunto un gruppo ricco di talento individuale, purtroppo scarsamente coeso e che per questo non riesce raccogliere risultati degni di nota.

I problemi dei Pistons fanno il paio con quelli, ben più gravi, della città: nel 1967 scoppia infatti un violento tumulto, originato da un raid della polizia in uno speakeasy, ossia un bar notturno privo di licenza. Mentre gli agenti portano via gestori e avventori del Blind Pig, il figlio di uno dei poliziotti impegnati nell’operazione, Walter Scott III, scaglia una bottiglia all’indirizzo delle forze dell’ordine: è l’inizio di una rivolta incredibilmente sanguinosa, che come un morbo si sposta dalla 12th street fino alle estreme propaggini di Detroit. La devastazione dura per quattro giorni, dal 23 al 27 luglio, fino all’arrivo dell’esercito inviato dal Presidente Lyndon Johnson, per un bilancio finale di 43 morti, 1.200 feriti, 7.200 arresti e oltre 2.000 edifici distrutti – un vero inferno, ben raccontato dal film Detroit nel 2017.

Gli anni ’60 sono comunque anche il momento nel quale si afferma l’etichetta cittadina Motown Records, senz’altro la più influente nella storia della discografia soul americana insieme alla newyorkese Atlantic: il cosiddetto Motown Sound si afferma negli USA e nel mondo grazie a grandi artisti come Marvin Gaye, Stevie Wonder, Martha & The Vandellas, The Temptations e i Four Tops, che saranno successivamente affiancati da Jackson 5, Diana Ross e Lionel Richie solo per citare i nomi più rappresentativi. Il biennio 1973-74 costituisce un primo spartiacque nei destini di Detroit e dei Pistons: da un lato viene eletto Coleman Young, primo sindaco afroamericano della città, mentre dall’altro Zollner, ormai esasperato, cede il timone della franchigia a Bill Davidson. Young resterà in sella per ben cinque mandati, fino al 1994, mentre l’epoca Davidson si prolungherà fino alla morte del proprietario nel marzo 2009.

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Il grande Bob Lanier, dominante centro nella NBA degli anni ’70

 

Avvio dell’era Davidson ed epopea Bad Boys

A metà anni ’70 dunque la musica cambia e non solo in senso figurato: dopo essere stata crocevia fondamentale per jazz, blues e soul, Detroit diventa una delle capitali del rock. Sulla scena cittadina si affermano l’hard rock di Ted Nugent e Alice Cooper, insieme al proto-punk degli Stooges, di Iggy Pop e degli MC5 e all’energico cantautorato di Bob Seger: i Kiss catturano nel pezzo Detroit Rock City la passione della città per questo genere musicale.

Nel frattempo i Pistons diventano una squadra da playoff, godendo degli ultimi scampoli di carriera di Bob Lanier, quindi il declino fisico del centro porta a un nuovo periodo di stagioni perdenti. La città e la sua industria automobilistica, così come tutto il Paese, sono piagati dalla crisi petrolifera e dal vorticoso aumento dei costi energetici e produttivi: per la prima volta le strade degli Stati Uniti vengono invase da automobili di fabbricazione giapponese, più economiche e molto meglio costruite. Renaissance è la parola d’ordine per l’America colpita dalla recessione e Detroit, ancora una volta, si erge a simbolo della ripartenza: GM nel 1977 fa costruire – per l’appunto – l’imponente Renaissance Center, un complesso di sette grattacieli che da quel momento in avanti costituirà la sede mondiale del gruppo, mentre un paio d’anni più tardi proprio da Detroit partirà la campagna elettorale del futuro presidente Ronald Reagan.

I Pistons arrancano ancora e chiudono le stagioni 1979-80 e 1980-81 con pochissime vittorie, che sono però il viatico per la chiamata numero 2 al Draft 1981: Detroit sceglie Isiah Thomas, fenomenale playmaker che ha appena guidato, da MVP del torneo, Indiana alla conquista del titolo NCAA. Isiah è il pezzo attorno al quale, finalmente, far partire la ricostruzione e nel corso della stagione 1981-82 arrivano, via trade, due pezzi fondamentali: il centro Bill Laimbeer da Cleveland e la guardia Vinnie Microwave Johnson da Seattle. Thomas è fin dalla prima stagione convocato all’All Star Game ma per il primo viaggio ai playoff bisogna aspettare fino al 1984, con l’eliminazione al primo turno per mano dei New York Knicks. L’anno successivo, dopo un 3-0 secco inflitto ai New Jersey Nets, arriva la semifinale di Conference in cui i Pistons danno battaglia, perdendo 4-2 contro i Boston Celtics campioni in carica.

Durante l’offseason 1985 arrivano la guardia Joe Dumars via draft – pescato alla 18, sarà il perfetto compagno di reparto per Thomas – e l’ala grande Rick Mahorn da Washington, ma la squadra fa un passo indietro con l’eliminazione al primo turno contro gli Atlanta Hawks di Dominique Wilkins. La sconfitta è cocente e l’analisi che ne segue porta coach Chuck Daly e il lìder maximo Isiah Thomas a riflettere sulla necessità di una squadra più fisica. A dispetto dei soli 185 cm di altezza, Thomas è un giocatore energico e aggressivo, che unisce spiccate doti difensive alle straordinarie capacità di passatore e realizzatore di cui dispone: la guida ideale per una squadra che non vuole avere paura di niente e nessuno. Il progetto tecnico è completato da Adrian Dantley, ala piccola proveniente dagli Utah Jazz, e da John Salley e Dennis Rodman, lunghi pescati al Draft 1986.

Sono nati i Bad Boys e il mondo se ne accorge soprattutto durante i playoff 1986-87. Dopo aver eliminato d’autorità Washington e Atlanta, Detroit ritrova Boston in finale di Conference: ancora una volta la spuntano i biancoverdi, vincendo la serie 4-3 dopo un confronto più che serrato, ma i Pistons sono ormai pronti per il massimo palcoscenico. Nel 1988 arrivano le prime Finals, contro i Lakers dello Showtime che avevano incantato il mondo nella stagione precedente e Detroit va vicinissima al colpaccio, portandosi sul 3-2 nella serie e trovando nella successiva Gara 6 una prestazione eroica di Thomas, autore di 25 punti nel solo terzo quarto pur con una caviglia in disordine. L’esperienza dei Lakers e un fischio particolarmente discutibile (phantom foul di Laimbeer su Kareem nel finale) consentono ai campioni di spuntarla 103-102, con la decisiva Gara 7 risolta ancora sul filo dai gialloviola (108-105 il punteggio finale).

Durante la stagione seguente i Pistons si trasferiscono fuori città, nel lussuoso Palace of Auburn Hills, prima arena NBA interamente edificata con fondi privati. I Bad Boys dominano la regular season, quando a febbraio arriva uno scambio del tutto inatteso: Adrian Dantley viene ceduto a Dallas, insieme a una scelta al draft, in cambio di Mark Aguirre. Stesso ruolo, simili attitudini realizzative ma il più giovane Aguirre è accompagnato da una pessima reputazione, data soprattutto dai continui scontri con coach MacLeod, mentre Dantley è una ex superstar – più volte top scorer NBA negli anni di Utah – che i tifosi dei Pistons associano positivamente all’ascesa della squadra. Uno dei retroscena della questione è l’amicizia che lega Thomas e Aguirre, entrambi cresciuti nei pericolosi sobborghi di Chicago, l’altro è che Dantley in realtà è un corpo estraneo nello spogliatoio per via della sua ridotta propensione al sacrificio.

Il GM McCloskey viene addirittura minacciato di morte dopo la trade, ma i risultati parlano sul campo: dall’arrivo di Aguirre i Pistons vincono 30 partite su 34 in regular season e nei playoff asfaltano chiunque, inclusi gli emergenti Bulls di Jordan e Pippen, distruggendo i Lakers in finale per 4-0. Una cavalcata trionfale replicata anche l’anno seguente, dove la battaglia vera è in finale di Conference contro Chicago: le Jordan Rules, un piano difensivo estremamente intimidatorio nei confronti del 23, funzionano ancora e, dopo aver chiuso la serie 4-3 stravincendo Gara 7, le Finals terminano sul 4-1 contro Portland per un fantastico repeat.

I Bulls si rifaranno l’anno seguente, dominando per 4-0 le Conference Finals del 1991 anche a causa delle condizioni fisiche non perfette di Thomas, operato al polso poco prima dei playoff. L’ascesa inarrestabile di MJ, il declino fisico di alcuni protagonisti – Thomas si ritirerà nel 1993-94, Laimbeer un anno dopo – e la cessione di altri giocatori chiave come Johnson, Rodman, Edwards e Salley porteranno alla fine dell’epopea di una squadra magnifica, entrata negli annali per la sua durezza agonistica e mentale.

Cattivi e odiati: i Bad Boys hanno segnato un’era in NBA

 

Abisso e rinascita – La “Goin’ to Work” era

I primi anni ‘90 rappresentano un’occasione di passaggio generazionale a più livelli. Il panorama musicale di Detroit è dominato ora dalla techno, con la vicina Chicago che vede esplodere la house music, mentre nel resto degli USA e nel mondo spopola il grunge proveniente dalla scena di Seattle. L’hip-hop vive un momento di enorme popolarità globale, con Detroit che non fa eccezione a questa regola e vede in questi anni formarsi personalità del calibro di Big Sean, Mr. Porter e soprattutto Eminem – che reciterà nel 2002 in 8-Mile, film che racconta con efficacia la realtà cittadina di quel periodo.

Sul campo i Pistons avrebbero l’occasione di far ripartire un ciclo vincente: nella stagione seguente al ritiro di Thomas infatti arriva la chiamata di Grant Hill al Draft 1994. Hill vive una stagione d’esordio spettacolare, che gli vale il premio di Rookie of the Year in coabitazione con Jason Kidd e la chiamata all’All-Star Game, dove è addirittura il giocatore più votato dai tifosi, anche se il record finale è decisamente perdente. L’anno successivo i Pistons centrano i playoff ma il progetto nel complesso non decolla: il front office commette numerosi errori, dalle free agency disastrose – dalle firme “pesanti” di Loy Vaught e Bison Dele alla mancata rifirma di Allan Houston – ai continui cambi di allenatore, che convincono infine Hill a cambiare squadra nel 2000.

È il primo grattacapo della carriera da presidente di Joe Dumars, a cui viene offerta la scrivania di GM un anno dopo il ritiro. L’ex Bad Boy riesce perlomeno a rifirmare Hill con un sign-and-trade, che lo porta a Orlando in cambio di due giocatori da rotazione senza grosse pretese, Chucky Atkins e Ben Wallace. Da lì in poi Hill avrà numerosi problemi fisici, mentre Wallace evolve nel totem difensivo attorno al quale Detroit costruirà le sue fortune qualche anno più tardi.

Nel 2001-02 i Pistons tornano ai playoff, uscendo contro New Jersey al primo turno, e durante l’offseason Dumars mette a segno tre mosse fondamentali: sceglie alla 23 l’ala piccola Tayshaun Prince, firma da free agent il playmaker Chauncey Billups – giocatore di grande talento, scelto alla 3 nel 1997 ma fin lì protagonista di una carriera più che discontinua – e infine spedisce a Washington Jerry Stackhouse, stella della squadra, in cambio della promettente guardia Rip Hamilton. Il nuovo assetto della squadra funziona splendidamente e porta i Pistons a scollinare quota 50 vittorie in stagione, anche se il viaggio nei playoff si ferma ancora una volta a causa dei Nets (0-4).

Questa sconfitta è il preludio per l’arrivo delle ultime, decisive, tessere del mosaico vincente: in estate arriva sulla panchina Larry Brown, reduce da grandi annate a Philadelphia, mentre a febbraio il mercato regala la più classica delle ciliegine sulla torta. Sfruttando una complessa trade a tre infatti arriva a Motown Rasheed Wallace, ala grande di immensa classe e tormentato profilo psicologico che, dopo sette anni vissuti tra alti e bassi a Portland, necessita di nuovi stimoli.

Sheed, già All-America ai tempi del college a UNC e All-Star in un paio di occasioni ai Blazers, è un giocatore tanto indiscutibile a livello cestistico – trattatore di palla sopraffino per il ruolo, ottimo rimbalzista e capace sia di intimidire in area che di segnare 20 punti con facilità – quanto problematico sul piano caratteriale: in campo litiga di continuo con gli arbitri – è di gran lunga il giocatore della storia NBA con più falli tecnici – e fuori ha una serie di abitudini pericolose, inclusa una notoria passione per la marijuana. Una fascite plantare ha cominciato a infastidirlo fisicamente e così Detroit se lo aggiudica per poco, aggiungendo ulteriore fisicità e tasso tecnico a una squadra che già funziona molto bene. La stagione si chiude sul 54-28 e nei playoff i Pistons sono un treno lanciato che travolge qualsiasi ostacolo, inclusi i favoritissimi Lakers in finale.

Quell’anno i gialloviola schierano ben quattro Hall of Famer – al duo Shaq-Kobe si sono aggiunti Karl Malone e Gary Payton, seppur a fine carriera – ma Detroit li asfalta con un basket duro, intenso e corale, in cui tutto il quintetto Billups-Hamilton-Prince-Wallace x2 è protagonista e dimostra che un’orchestra suona molto meglio di un gruppo di solisti. I Pistons del 2003-04 raccolgono idealmente il testimone dei Bad Boys di oltre vent’anni prima ed è curioso notare le notevoli somiglianze tecniche tra le due squadre, che sembrano la perfetta trasposizione cestistica della mentalità operaia, tosta e diretta, che permea il sottobosco culturale di questa zona degli States. L’anno successivo i Pistons si ripresentano alle Finals per difendere il titolo, perdendo questa volta 4-3 in un serratissimo confronto contro San Antonio, restando estremamente competitivi fino al 2008, anno in cui si chiuderà una striscia di sei finali di conference consecutive.

Contro ogni pronostico, i Pistons hanno portato a casa con merito l’anello nel 2004

 

Detroit Pistons – What’s next?

Tra il 2008 e il 2011 i Pistons perdono diversi protagonisti e sostanzialmente sbagliano tutte le scelte possibili per ricostruire un nucleo vincente. Nel 2009 la morte del proprietario storico Bill Davidson, artefice delle due epoche d’oro precedenti, li priva di un’altra certezza considerato anche il fatto che il passaggio di mano della società risulta estremamente complesso e si conclude solo nel 2011 con l’acquisizione da parte del milionario di origine mediorientale Tom Gores.

Sono anni di enorme difficoltà per la città di Detroit, che nel 2013 dichiara addirittura bancarotta: un debito stimato tra i 18 e i 20 miliardi di dollari porta a una serie di sacrifici dolorosi, tra i quali il taglio delle pensioni di oltre dodicimila dipendenti pubblici, con un periodo di amministrazione controllata chiuso soltanto a fine 2014. Sul fronte dell’auto non va molto meglio, con la General Motors che in crisi nera licenzia oltre il 15% dei propri dipendenti nell’ambito della riorganizzazione approvata dalla nuova CEO Mary Barra.

In questo ennesimo tentativo di rinascita assume un forte significato simbolico la scelta dei Pistons di tornare in città, con l’inaugurazione della Little Caesars Arena a Midtown Detroit nel settembre del 2017: l’obiettivo dichiarato è quello di contribuire alla riqualificazione urbanistica di uno dei centri più pericolosi e degradati del Paese, rinsaldando al tempo stesso il legame fra i Pistons e la città. Per la verità i risultati da quel momento sono stati più che deludenti, con i playoff che mancano proprio dalla stagione 2016-17, a dispetto della presenza in panchina di allenatori accreditati come Stan Van Gundy, Dwane Casey e Monty Williams.

Non sappiamo se Monty sia destinato in futuro a entrare nel pantheon rossoblù affiancando coach Daly e coach Brown, né se i lampi di talento di Cade Cunningham si tradurranno in una carriera da franchise player in Michigan. Ma se anche non toccasse a loro siamo certi che torneremo, prima o poi, ad ammirare una versione vincente dei Detroit Pistons. Motown cade, soffre, digrigna i denti e si rialza sempre: la speranza è che possa farlo anche nella pallacanestro, possibilmente con una squadra di talento ma tosta, cattiva e ribelle come le due che l’hanno preceduta. 

Detroit Pistons - Puntero

Cade Cunningham e Jaden Ivey, la speranza per un domani migliore nella Motown cestistica

 


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Di Roberto Murgia

Volevo essere un artista, sono finito a fare il direttore del personale in azienda. Vivo in città e sogno il mare, mi consolo esportando sardità sul Continente. Sanguino nerazzurro ma conosco molte altre pratiche sportive autolesionistiche.