Arkan, il boia che ha disonorato il calcio

Se è vero che il calcio si è spesso intrecciato con la geopolitica, raramente un personaggio più controverso di Arkan ne è stato protagonista. Ha usato lo sport per farsi una posizione che gli garantisse il potere e successivamente, una volta divenuto temuto e rispettato, lo ha usato per condizionare l’andamento delle competizioni calcistiche.

 

Chi è Arkan

Al secolo Željko Ražnatović, Arkan nasce nel 1952 a Brežice, città dell’odierna Slovenia in cui era dislocato il padre, ufficiale dell’aeronautica jugoslava. Sul suo soprannome si sono fatte molte illazioni ma la più accreditata, ripresa anche da una biografia scritta dal giornalista Marko Lopušina, fa riferimento ad un personaggio dei fumetti, una tigre. Che Arkan adora tanto da farne non solo il proprio nome di battaglia ma anche il simbolo di tutto ciò che lui stesso rappresenta. Un simbolo che ricorrerà spesso in guerra come nel calcio.

In gioventù fa il pasticciere, un lavoro che non ne soddisfa l’ego né le ambizioni. Il giovane Željko, infatti, è assetato di potere ed è senza scrupoli, tanto da iniziare presto ad arrotondare in maniera quantomeno discutibile. Lo fa con una serie di atti criminali e rapine in giro per l’Europa nel corso degli anni Settanta. Il denominatore comune delle sue attività fuorilegge è la sostanziale impunità: vero, si fa un po’ di carcere ma sempre per poco tempo, talvolta graziato a fronte di crimini che meriterebbero punizioni ben più ampie e tal altra organizzando una serie di evasioni talmente frequenti da far pensare a qualche basista nelle alte sfere.

E difatti le rapine si evolvono con il tempo in omicidi su commissione di cui talvolta il mandante è addirittura il governo, tanto che Arkan diventa un fido collaboratore della polizia segreta federale, la UDBA, che approfitta delle sue “qualità” per organizzare spedizioni punitive contro gli immigrati poco graditi al partito socialista. Nel 1990 si stabilisce a Belgrado, momento saliente della sua vita. Qua trova un lavoro apparentemente onesto come capo della sicurezza in una discoteca chiamata Amadeus ma, soprattutto, entra nel mondo del calcio come leader dei Delije, uno dei più famigerati gruppi ultras d’Europa, a rappresentanza della squadra principale della città, la Stella Rossa.

Arkan con i calciatori della Stella Rossa ai tempi dei Delije

 

Gli “eroi” della Stella Rossa

Il suo ruolo nei Delije nasce proprio dall’attività all’Amadeus. Un locale prestigioso nel quale conosce personalità di spicco del calcio locale e del mondo ultras, di cui guadagna il rispetto al punto da entrare nel gruppo dalla porta principale. Delije è un termine che sta per “Eroi”, un nome che racchiude i più temuti gruppi di ultras delle società sportive di Belgrado e che ben poco si addice alla levatura morale di chi ne fa parte e alle gesta che li contraddistingue.

La principale delle squadre governate da questi facinorosi, come detto, è la Stella Rossa, club di cui Ražnatović è anche tifoso. La proprietà è molto soddisfatta dei Delije e del lavoro svolto da Arkan nel direttorio, tanto da regalargli un negozio da utilizzare come covo per coordinare e organizzare coreografie e anche malefatte degli ultras. Ironicamente ma non troppo, il presidente Dzajić gli dona una pasticceria, anche con l’intento di destare pochi sospetti alla luce del passato professionale del leader degli “Eroi”. Il gruppo è avanti rispetto alla situazione geopolitica della Jugoslavia: ne fanno parte nazionalisti serbi che invocano la secessione esponendo bandiere e intonando canti tipici serbi.

Arkan sguazza in questo ambiente, al Marakana di Belgrado inizia ad organizzare con profitto atti di rappresaglia ed è tra i grandi protagonisti negli scontri del Maksimir di Zagabria del 13 maggio 1990 tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa, uno degli eventi che meglio rappresenta la situazione di forte tensione tra serbi e croati. Alla partita, che di fatto non si disputerà mai, si presenta con un abbigliamento che poco si addice ad un ultras, un simbolico doppio petto nero su camicia bianca. Un’eleganza non casuale, scelta per sottolineare l’importanza dell’evento, quasi una cerimonia che celebri l’atto di rappresaglia, finalizzato ad evidenziare la superiorità serba anche in territorio nemico.

Appoggiato dal presidente Slobodan Milošević, Ražnatović si trova in piena sintonia con gli altri membri degli “Eroi”, sia sugli spalti, dove gli ultras della Stella Rossa mietono terrore in tutta Europa nel periodo di maggior splendore della squadra, che vincerà la Coppa dei Campioni nel 1991, sia al di fuori degli stadi. Tanto che su input del governo, già proiettato verso l’indipendenza serba, Arkan viene incaricato di organizzare milizie volontarie per le quali, utilizzando la sua pasticceria come quartier generale, si avvale di circa 3000 tra ex carcerati e membri dei Delije, convinti ad arruolarsi al servizio della futura Serbia contro gli ustaša croati. La Guardia Volontaria Serba diventa diretta emanazione della volontà del suo leader e cambia presto nome: nascono le Tigri.

Un’immagine attuale dei Delije, gruppo ancora attivo

 

Tigri di Arkan

La tigre è il simbolo di quella forza e maestosità che Ražnatović vuole trasmettere non solo come immagine propria ma, soprattutto, con l’efferatezza delle azioni sue e delle proprie milizie. Arkan diviene il più cruento boia della guerra dei Balcani. La prima iniziativa militare cui le Tigri prendono parte è il massacro di Vukovar, una battaglia di circa tre mesi in cui esse, assieme ad altre organizzazioni paramilitari, danno supporto alle truppe regolari jugoslave soffocando ogni difesa croata. Il computo finale sarà di 5.403 morti.

Di lì in avanti le Tigri diventano cruciali nello svolgimento delle operazioni belliche e di pulizia etnica, soprattutto in Bosnia. I numeri delle operazioni che coinvolgono le sue milizie sono terrificanti: oltre 20.000 morti solo a Prijedor e nei paesi limitrofi, 8.372 nel genocidio di Srebrenica, 800 a Banja Luka, 700 a Cerska, altrettante a Krasulja, 600 a Brčko, 450 a Bjieljina.

Alla fine, tra tutte le operazioni militari e le esecuzioni estemporanee, le impronte digitali di Arkan saranno impresse sul sangue di più di 50.000 morti, oltre che su un numero incalcolabile di stupri. Ma non sono solo le cifre a stupire, quanto le modalità: nelle fosse comuni vengono rinvenuti principalmente corpi di bambini e donne, scannati con dei coltelli da caccia e oggetto di stupri seriali. A Višegrad vengono uccisi circa 500 musulmani buttati dal ponte sulla Drina o, in taluni casi, bruciati vivi.

Nelle operazioni minori, Arkan si diletta a giocare con le future vittime. Ad esempio mettendone alcune in fila indiana per vedere quante ne avrebbe uccise con un solo colpo oppure seviziando il nemico e dandogli in pasto i suoi stessi occhi. Eppure viene considerato un eroe serbo. Cerca il consenso ma la gente lo teme, quale modo migliore che entrare nel mondo più nazionalpopolare che esista per farsi rispettare e aumentare la propria influenza? La scalata al potere della Tigre passa quindi dal calcio.

Una delle più famose immagini di Arkan: davanti alle sue milizie con in mano un cucciolo di tigre

 

Scelta dell’Obilić

L’attività criminale svolta negli anni ha fatto di Arkan un uomo potente e ricco, voglioso di affermarsi nel mondo del calcio per ampliare il proprio controllo sul territorio balcanico ma, al tempo stesso, di ripulire la sua immagine pubblica. L’idea originaria è acquistare la Stella Rossa ma il proprietario del club non è interessato a privarsi della più importante realtà del calcio locale.

Arkan sposta l’obiettivo su una squadra con un’altra connotazione “romantica”, il Prishtina FC, club della città natale della madre. Sebbene oggi faccia parte del sistema calcistico del Kosovo, di cui proprio Pristina è capitale, negli anni ’90 il club è una piccola realtà del calcio jugoslavo che viene dall’unica apparizione nella massima serie, nella stagione 1992-93.

Il primo atto è l’epurazione degli albanesi dalla squadra. I risultati non arrivano e Arkan si stufa rapidamente, cedendo la squadra e preferendo stabilirsi a Belgrado, dove staziona il potere. E per farlo acquista un club cittadino, l’FK Obilić del quartiere Vračar, divenuto in seguito un comune autonomo interno alla città metropolitana di Belgrado. Si tratta di una squadra minore, mai arrivata al professionismo fino al 1987 ma in parziale ascesa in quegli anni, tanto da raggiungere la finale di Kup Maršala Tita nel 1995, valsa la qualificazione in Coppa delle Coppe nonostante la sconfitta in finale contro la Stella Rossa, già vincitrice del campionato e qualificata in Champions League.

La scelta della squadra non è casuale, anche il nome smuove i sentimenti della Tigre: ad ispirarlo è il riferimento a Miloš Obilić, eroe della battaglia della Piana dei Merli di ben seicento anni prima, una denominazione che nel dopoguerra spinge il governo ad intervenire per evitare commistioni con la politica, tanto da cambiare denominazione in FK Čuburac – sotto-quartiere di Vračar in cui ha sede la squadra – fino al ripristino del nome dedicato all’eroe di guerra Miloš Obilić nel 1952.

Monumento equestre dedicato a Miloš Obilić

 

Scalata poco limpida

Nel 1996 l’Obilić gioca in seconda serie. Stiamo parlando di una Jugoslavia diversa da quella pre-bellica, che unisce i soli territori di Serbia, Montenegro e Kosovo, con questi ultimi due che solo in seguito diventeranno indipendenti. Dal 1992 quella serba è una lega molto meno competitiva, in cui furoreggiano due squadre di Belgrado, Stella Rossa e Partizan. Tuttavia la nuova conformazione ha dato a diversi club la possibilità di avvicinarsi ad obiettivi prima non raggiungibili e l’Obilić è tra questi, risultando uno dei principali beneficiari dell’ascesa data dalla riduzione qualitativa e quantitativa delle contendenti.

L’asso nella manica è ovviamente rappresentato da Arkan. Nella stagione 1996-97 il club gialloblù domina il campionato di seconda divisione, vinto con 15 punti sulla seconda. Se state immaginando che il dominio sia generato dagli investimenti del nuovo e ricchissimo proprietario, vi state sbagliando di grosso. L’Obilić rimane una squadra mediocre ma con un forte potere di indirizzo delle partite: gli ultras dei Vitezovi – i cavalieri – altro non sono che ex soldati delle Tigri, già volti noti dei Delije che per soldi e ideali di stampo razziale hanno rinnegato la Stella Rossa per seguire il loro leader.

Gli avversari diventano mansueti a fronte delle minacce di conseguenze fisiche riservate dai tifosi gialloblù, a loro volta molto solerti nel fungere da accompagnatori dell’arbitro fino allo stadio ed anche in campo con indicazioni sulle modalità migliori per dirigere il match e sui possibili effetti in caso contrario. A ciò si aggiunge anche la presenza ingombrante di Arkan: all’epoca la UEFA permetteva ai club di emettere delle licenze proprie per lo staff, ragion per cui il proprietario sedeva in panchina durante i match, condizionando decisamente avversari ed arbitri.

Zoran Arsić, un passato da centrocampista dello Spartak Subotica ed una carriera agonistica abbandonata presto, ha conosciuto personalmente la furia del presidente dell’Obilić una volta avviata la carriera come arbitro professionista. In un’intervista televisiva ha raccontato che durante un match dei gialloblù la Tigre è riuscita ad arrivare nel suo spogliatoio a fine primo tempo nonostante la presenza della polizia, prendendolo a schiaffi e puntandogli una pistola in bocca.

Una presenza che in ogni caso si percepisce anche prima di arrivare sul manto erboso. I muri esterni dello stadio sono tappezzati di immagini delle Tigri e talvolta anche delle loro malefatte belliche, un tentativo di condizionare gli avversari che mal si sposa con l’asserito intento del presidente di ripulire la propria immagine pubblica.

I match, soprattutto allo Stadion Miloš Obilić, sono una farsa senza competitività, in cui l’unico spettacolo è rappresentato dalla presenza in tribuna di Ceca, al secolo Svetlana Veličković, seconda moglie di Arkan. Una avvenente star della musica folk locale che dà un tocco di colore alle tribune, grazie ai suoi look stravaganti fatti di pacchiani ma costosissimi abiti colorati, uno schiaffo alla povertà in un Paese alle prese con il dopoguerra ed un’inflazione devastante.

Svetlana Veličković in Ražnatović, in arte Ceca, in tribuna con una delle sue mise più sobrie

 

Calcio in agitazione

L’arrivo di Arkan sulla scena calcistica locale si inserisce in un periodo di grande tensione. Non solo bellica e geopolitica ma anche sociale, a causa di un incremento della criminalità organizzata. Il calcio viene travolto in pieno da una spirale di delinquenza, con la malavita locale molto attiva nel condizionamento dei match, soprattutto tramite il calcioscommesse. Come se ciò non bastasse, le dirigenze dei vari club vivono costantemente nel terrore, dal momento che tra il 1995 e il 2005 ben undici presidenti di club professionistici verranno assassinati. In questo clima, l’ascesa dell’Obilić diventa ancora più semplice: i malavitosi che condizionano le partite altri non sono che “compagni di merende” di Arkan, incontrati nel corso della sua fruttuosa carriera criminale, fondata non solo sulle rapine ma anche sullo spaccio di alcool e sigarette e sul contrabbando di auto sportive.

Curiosamente, a dispetto di un passato in cui ha lucrato nel settore, l’atteggiamento di Arkan nei confronti degli alcolici è severo e pertanto suona piuttosto incoerente. In un periodo storico in cui il consumo di alcool sta dilagando in maniera preoccupante, questo diventa un nemico del presidente. Se è vero che ha costituito parte della sua fortuna economica, è altrettanto vero che rappresenta un pericolo nella gestione di un gruppo, esattamente come lo era stato al tempo dei Delije e delle Tigri. Anche se violenti, gli atti criminosi e le missioni di rappresaglia venivano perpetrati sempre nella piena coscienza e consapevolezza da parte dei crudeli ma lucidissimi esecutori.

E così se uno dei suoi calciatori venisse sorpreso a bere alcolici rischierebbe perfino la fustigazione, secondo un codice interno dall’etica discutibile che già in passato aveva suscitato dei malumori, ovviamente sopiti innanzi al timore nei confronti di Arkan. Basti pensare che, durante la stagione dominata tra i cadetti, il presidente ha deciso di partire con il pullman senza caricare la squadra dopo una sconfitta, costringendo i calciatori a 25 km a piedi per rientrare a Belgrado.

La Tigre è temuta dai propri calciatori e dagli avversari, oltre a far parte della schiera di amicizie di chi sta condizionando il calcio, quindi ha vita estremamente facile: può definire accordi con chi tenta di orientare i risultati delle partite e, a sua volta, con la spregiudicata condotta finalizzata ad alterare il normale andamento del campionato, può fare un assist e far arricchire tanti vecchi amici. In un clima del genere, tra il terrore degli avversari e la benevolenza nei confronti dell’Obilić, per arrivare al successo è solo questione di tempo. Ma il presidente vuole vincere subito.

In panchina, Arkan esulta con il suo staff

 

Massimo alloro

Al ritorno in massima serie i Vitezovi sono già competitivi, pur rimanendo una squadra di basso livello tecnico e senza elementi di spessore. La cosa non stupisce, una vittoria dell’Obilić al primo anno in Prva Liga darebbe all’impresa quei contorni favolistici e leggendari che il suo presidente cerca. Ma che non si sposano con i mezzi utilizzati per raggiungere il fine.

Il motivo è presto detto. Siamo ai massimi livelli, serve una condotta da Serie A non solo sul campo ma anche per trovare i risultati, lo spettacolo poco edificante della stagione precedente non basta più. Le minacce diventano sempre più articolate ed efficaci, tanto che le squadre avversarie sono abituate a recarsi nel quartiere Vračar con molte defezioni, quasi sempre riguardanti i calciatori migliori in rosa.

Se per caso non bastasse, gli spogliatoi degli avversari vengono “abbelliti” dalla presenza di gas sedativi, così da rendere i calciatori in campo un po’ più morbidi. I risultati sono evidenti: c’è solo una squadra abbastanza forte e potente da tenere il passo, la Stella Rossa. Per non rischiare nulla, i suoi calciatori sono soliti cambiarsi nel pullman e non rientrare negli spogliatoi all’intervallo durante i match allo Stadion Miloš Obilić, tanto da essere riferiti episodi di calciatori biancorossi che orinano a bordo campo nell’intervallo pur di evitare le potenziali conseguenze al rientro negli spogliatoi. Le altre squadre, fatta eccezione per il Partizan che non compete per il titolo ma resta di categoria superiore, sono pressoché sparring partners che terminano ad oltre 30 punti di distanza.

A spuntarla alla fine della contesa è proprio l’Obilić, che vince il suo primo titolo totalizzando 86 punti, con un +2 sulla Stella Rossa. Sarà l’unico campionato della storia della neonata federazione serba a finire nelle mani di una squadra diversa dal duopolio Stella Rossa-Partizan.

La squadra di Arkan perde solo una volta (2-1 in casa col Partizan) e subisce poche reti a causa dell’atteggiamento rinunciatario degli avversari, ovviamente indotto dalle minacce pre-gara. In attacco, pur non raggiungendo la prolificità della Stella Rossa, è sufficiente Zoran Ranković, un ex signor nessuno che a 29 anni, alla prima stagione in massima serie, realizza 23 gol e sfiora il titolo di capocannoniere.

L’Obilić sfiora addirittura il double ma vi rinuncia per un accordo non esattamente da gentiluomini. Arrivato a giocarsi la finale contro il Partizan, baratta la vittoria del trofeo per un successo in campionato contro i bianconeri, da par loro ben felici di contribuire a dare un dispiacere agli odiati rivali cittadini. Arkan si è preso la gloria anche nel calcio ma non senza ombre. E le cose sono destinate a precipitare rapidamente.

La premiazione della squadra, assieme al presidente: l’Obilić è campione nazionale

 

Fuori dai confini

Che il fenomeno Obilić sia un modello tutt’altro che virtuoso è noto a tutti all’interno dei confini serbi, ma anche al di fuori le cose iniziano a scricchiolare presto. Tutti sanno chi è Arkan ma nel 1998 il calcio serbo non ha esattamente la copertura televisiva ed informativa che permetterebbe una lucida analisi sulla stagione agonistica, ragion per cui il dubbio che l’andamento del campionato sia figlio esclusivamente del valore dell’organico e della ricchezza del proprietario può anche sussistere.

Ma il 1998 è anche l’anno dei mondiali francesi e la Jugoslavia – che è tale solo nominalmente, come già detto si tratta della selezione di Serbia e Montenegro – è regolarmente qualificata, alla prima partecipazione dopo lo scioglimento del 1992. Se è vero che il commissario tecnico Slobodan Santrač può pescare su un ampio bacino di calciatori che militano all’estero, è altrettanto vero che il fatto che tra i convocati per la spedizione iridata non figuri neanche un calciatore dell’Obilić, nonostante una rosa quasi integralmente composta di calciatori serbi, stupisce un po’. Anche all’estero inizia ad insinuarsi il sospetto che la squadra sia meno valida di quanto dica la classifica finale della Prva Liga.

Ad aprire gli occhi definitivamente è il calciomercato. Nell’estate del 1998 il colpo della squadra di Arkan è l’arrivo di un giovane tornante scuola Stella Rossa di nome Nikola Lazetić, che negli anni successivi vedremo anche in Italia con le maglie di Chievo, Lazio, Siena, Genoa, Livorno e Torino. La trattativa con il Vojvodina, ça va sans dire, è molto facile. Il giocatore tuttavia non pare entusiasta dell’Obilić, che vede in lui il tassello necessario per tentare il bis e fare bella figura in Europa. Il ragazzo è poco convinto? Poco male, gli uomini di Arkan sanno come persuaderlo. Viene organizzata una spedizione nella quale alcuni ex membri delle Tigri rapiscono il giocatore, lo infilano in un baule e gli regalano un viaggio non proprio da privilegiato per i circa 100 km che separano Novi Sad da Vračar.

Un’esperienza mistica, capace chissà come di schiarire le idee di Lazetić, che si convince a firmare con i gialloblù. Ma le voci sull’inusuale trasferimento iniziano a circolare e anche la UEFA guarda con sempre maggiore sospetto la proprietà.

Lazetić in azione durante la sua avventura italiana

 

UEFA nemica

Il 1998 è l’anno dell’approdo in Champions League della squadra di Arkan, impegnata ai preliminari contro gli islandesi dell’ÍBV. L’avvicinamento all’impegno non è agevole e, dopo mesi di controlli sulla società, viene segnato da una dura presa di posizione della UEFA: un criminale di guerra non può detenere la proprietà di un club che gioca le coppe, ne va del buon nome della federazione. Arkan reagisce con diplomazia. Apparentemente. L’Obilić è ormai una realtà in vista, quindi sembra facile trovare un compratore, il club interessa a tanti, VIP inclusi. E infatti viene ceduto ad una star della musica. Già, peccato che la star in questione altro non sia che la moglie Svetlana, con il marito che di fatto rimane il vero burattinaio.

Come detto, la diplomazia è solo apparente. La Tigre non ama sentirsi umiliata e il provvedimento della UEFA, ritenuto ingiusto, lo tocca nel profondo. Decide quindi di ripagare con la stessa moneta i vertici della federazione e di punire il presidente UEFA Lennart Johansson. Visto il personaggio, il ripagare con la stessa moneta diventa un concetto forse un po’ generoso, gli uomini del presidente vengono inviati in spedizione punitiva a Vienna con l’intento di assassinare Johansson. Fortunatamente, non è chiaro come, la UEFA subodora qualcosa e prova a metterci una pezza. Dapprima assegna una scorta al suo presidente, quindi pianifica la strategia più sicura con il capo delle guardie del corpo, invitandolo ad uscire in un momento di traffico intenso per non lasciare vita facile ad eventuali attentati, riuscendo a far desistere i tirapiedi del presidente serbo.

Sul campo, superati gli islandesi, il cammino si ferma al terzo turno preliminare innanzi al Bayern Monaco, una squadra probabilmente troppo forte per il club serbo anche senza gli occhi della UEFA addosso e con i trucchetti utilizzati all’interno dei confini nazionali. L’Obilić retrocede in Coppa UEFA, dove al primo turno è chiamata ad affrontare l’Atletico Madrid. Finita qua? Macché. Dopo il 2-0 in Spagna, i Colchoneros di Arrigo Sacchi vengono accolti in Serbia da una presenza poco rassicurante: mentre si allenano fa invasione un cucciolo di tigre, mascotte dei Vitezovi, prontamente catturata e resa inoffensiva, in un mix di sentimenti che vanno dallo sgomento alla paura. La notizia viene immediatamente battuta dalle tv spagnole e la troupe televisiva al seguito dell’Atletico racconta la faccenda con toni divertiti e canzonatori, facendo dell’ironia anche su Arkan e persino sulla moglie del presidente.

Un affronto che non viene preso bene. Il presidente raduna alcuni suoi uomini per un compito meno cruento rispetto a quello pensato per Johansson ma di rapida esecuzione: invia i suoi scagnozzi nell’albergo in cui alloggia l’inviata spagnola rea di aver osato scherzare in maniera eccessiva con lui e fa consegnare un pacco alla reception, invitando gli addetti a recapitarlo alla giornalista. Nel plico ci sono delle foto della medesima inviata scattate poco prima e un messaggio che funziona perfettamente come monito per il futuro, con cui ricorda alla audace cronista che dove arriva una macchina fotografica può farlo anche un fucile. La vicenda si chiude, fortunatamente, senza altre ritorsioni. Per la cronaca, l’Atletico vince anche in Serbia, terminando l’avventura europea dei Vitezovi. Ma l’Obilić rimane un problema da risolvere.

Stefan Effenberg, ex Fiorentina, esulta per il gol siglato all’Obilić con la maglia del Bayern

 

Torna la guerra

A livello nazionale, invece, l’Obilić sembra essere quello dell’anno precedente, ossia una serissima candidata per il titolo che fonda la propria forza su un baluardo solido, quello della corruzione di arbitri ed avversari. Ne nasce un nuovo duello decisamente avvincente per il titolo, stavolta contro il Partizan che, guidato da un giovane Mateja Kežman, si trova avanti di 2 punti rispetto agli ancora imbattuti Vitezovi. A Vračar si sogna il bis per il titolo ma accade l’imponderabile: il 24 marzo 1999, mentre il paese è di nuovo alle prese con problemi di natura bellica, nello specifico legati alla rivendicata indipendenza del Kosovo, la NATO scende in campo pesantemente. Falliti i negoziati di pace con il governo jugoslavo parte l’operazione Allied Force, una serie di bombardamenti aerei che nel giro di pochi mesi determineranno la fine della contesa.

Nel mentre il campionato di calcio è ovviamente sospeso. Una sospensione che diventa definitiva neanche due mesi dopo, con l’assegnazione del titolo al Partizan. E a livello di autorevolezza del club alcune cose sono irrimediabilmente cambiate: la Corte Penale Internazionale ha rinviato a giudizio Arkan, ritenuto giustamente responsabile di genocidio. La Tigre viene scaricata dal potere in Jugoslavia, persino da Milošević, che tenta di scongiurare le medesime accuse prendendo le distanze dai tirapiedi di un tempo. Le fondamenta su cui è stato costruito il breve regno dell’Obilić smottano pericolosamente e la situazione che si è delineata diventa terreno fertile e invitante per il pugno duro della UEFA.

Un giovanissimo Kežman con la maglia del Partizan

 

Fine dei giochi

Il secondo posto garantirebbe la qualificazione alle coppe europee. Il condizionale è d’obbligo, perché la UEFA coglie la palla al balzo e sfrutta l’avviso di garanzia emesso nei confronti di Arkan per escludere immediatamente l’Obilić dalle coppe europee, ancorché il proprietario risulti formalmente la moglie. In campionato la stagione inizia bene e la squadra va a caccia del secondo alloro, per riscattare il mancato successo della stagione precedente. Sicuramente i Vitezovi giocano una prima parte di stagione all’altezza dell’obiettivo che si sono prefissati ma a gennaio le cose cambiano drasticamente.

È il 15 gennaio del 2000 quando Arkan si trova all’Intercontinental Hotel, un luogo a lui caro per avervi organizzato il banchetto delle nozze con la moglie Svetlana, innanzi ad oltre 700 invitati tra cui giornalisti e politici di tutto il mondo. Si trova nella hall assieme a tre guardie del corpo. Ed assieme a loro c’è anche Dobrosav Gavrić, un giovane ex poliziotto che si è lasciato sedurre dalla malavita serba. Scarica il caricatore contro Arkan, uccidendo lui e due delle tre guardie del corpo. La morte della Tigre rappresenta la fine, per l’Obilić: nel corso della stagione i gialloblù, fin lì imbattuti, perdono sette partite e scendono in classifica fino al terzo posto finale, cui seguirà un altro podio e un quarto posto.

Quindi il declino. Ceca, moglie di Arkan e ormai plenipotenziaria nella gestione della società, viene accusata, oltre alla detenzione di armi non dichiarate nel proprio appartamento, di aver distratto oltre 5 milioni di euro dalle casse del club a seguito della cessione di alcuni calciatori, una frode punita con scarsa severità: 18 mesi di domiciliari e una multa di poco più di un milione di euro, meno di quanto incassato. La squadra non ha più le fondamenta di un tempo e tracima nei bassifondi del calcio serbo, arrivando addirittura a giocare in ottava serie, senza mai più riassaggiare il professionismo.

Un’immagine tratta da un match contro la Stella Rossa

 

Italia e Mihajlović

Un filo ha sempre legato Arkan e l’Italia sin dalla gioventù del macellaio serbo, dai primi approcci con la vita criminale con il complice Carlo Fabiani al periodo da “ospite” di San Vittore, a Milano. Era italiano anche uno dei dei legali di fiducia di Ražnatović, Giovanni Di Stefano, che nel tempo ha curato non meglio precisati interessi della Tigre nel nostro Paese.

A livello calcistico, l’argomento che più ha fatto discutere è stata l’amicizia con il compianto Siniša Mihajlović, peraltro nativo di Vukovar, città in cui Arkan ha perpetrato alcuni dei suoi più efferati crimini. I due ebbero un confronto a muso duro durante alcuni scontri tra i tifosi della Stella Rossa ed i giocatori del Vojvodina, squadra di cui Mihajlović faceva parte. La sera Arkan convocò a casa sua il calciatore che, a distanza di anni, rivelò di aver avuto paura di essere ucciso. E invece scoprì un amico, una persona diversa dal criminale di guerra, da cui Siniša non ha mai preso le distanze fino in fondo, considerandolo un eroe serbo.

Nei miei anni a Belgrado l’ho frequentato per circa duecento sere l’anno, eravamo grandi amici. Quando morì, pubblicai il famoso necrologio che mi ha attirato tante critiche: era per il mio amico Zeljko e non per il comandante Arkan. Ha fatto cose orrende che non condividerò mai ma non posso rinnegare un rapporto che fa parte della mia vita, altrimenti sarei un ipocrita.

Un eroe serbo, come lo ha definito in quel famoso necrologio. Non l’unico momento in cui l’Italia è rimasta scossa da una celebrazione postuma della Tigre. Ha destato ancora più scalpore lo striscione dedicato ad Arkan dalla Curva Nord della Lazio. “Onore alla Tigre Arkan, un messaggio contestato, attribuito proprio ad un’iniziativa di Mihajlović – che ha sempre affermato la sua estraneità – e capace di scontentare il compagno di squadra croato Alen Bokšić.

Sono molto amareggiato e deluso perché quella scritta viene dai miei tifosi. Hanno reso onore a quello che tutto il mondo considera un criminale di guerra contro il mio popolo. Davvero non si rendono conto di quello che ha fatto.

E anche se Bokšić si è dimostrato comprensivo con il compagno per il necrologio, dichiarando che forse avrebbe fatto lo stesso anche lui con un suo amico, l’opinione pubblica italiana si è indignata per la celebrazione di un personaggio con tale curriculum.

Lo striscione delle polemiche

 

Dopo la morte di Arkan

Le parole di Mihajlović non sono casuali né un fenomeno isolato: ancora oggi Arkan è considerato un eroe per il popolo serbo, in particolare per quei connazionali che hanno vissuto come minoranze in Croazia o Bosnia, esattamente come Siniša a Vukovar. La sua tomba presso il cimitero Novo Groblije di Belgrado è meta di un pellegrinaggio costante e anche nei pressi dello Stadion Miloš Obilić figura un murale a lui dedicato. Un passato fatto di sangue e crudeltà, molto spesso gratuita, da cui parte del popolo serbo non ha mai ritenuto di doversi affrancare.

A causa della morte prematura, né Arkan né il suo mandante Milošević, morto in carcere a L’Aja, hanno mai conosciuto il verdetto della Corte Penale Internazionale nei loro confronti. La moglie Ceca è rimasta una star, divenendo anche giudice di X Factor Serbia a dispetto della condanna per frode. Anche la figlia Anastasija è divenuta una cantante di successo in patria ma i legami con i Vitezovi sono venuti meno. Come già detto, dell’FK Obilić non è rimasto che l’involucro, ormai il club è ridotto ad un livello dilettantistico e ne rimane solo il ricordo, quello dell’unico club capace di spezzare l’egemonia di Stella Rossa e Partizan ma anche di perpetrare una delle più grandi farse della storia dei campionati di massima serie in Europa.

Il murale dedicato ad Arkan all’esterno dello Stadion Miloš Obilić

 


Puntero è gratis e lo sarà sempre. Vive grazie al sostegno dei suoi lettori. Se vuoi supportare un progetto editoriale libero e indipendente, puoi fare una piccola donazione sulla piattaforma Gofundme cliccando sulla foto qui sotto. Grazie!

 

Sostieni Puntero

Di Manuel Fanciulli

Laureato in giurisprudenza e padre di due bambini, scrivo di sport, di coppe e racconto storie hipster. Cerco le risposte alle grandi domande della vita nei viaggi e nei giovedì di Conference League.