Il più grande wrestler di tutti i tempi è italiano

Il legame tra l’Italia e il wrestling è profondo molto più di quanto siamo portati a pensare. I lottatori raccontati da Dan Peterson nei primi anni novanta sull’allora Fininvest e l’età dell’oro con Smackdown trasmesso su Italia Uno (anni duemila) sono entrambi passaggi fondamentali per la diffusione della disciplina nel nostro Paese, ma ben prima un giovane abruzzese emigrato negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, Bruno Sammartino, era riuscito a imporsi come l’attrazione principale degli show dell’allora WWWF, oggi WWE. In oltre trent’anni di carriera Sammartino stabilì un record ancora oggi imbattuto riuscendo a far registrare 188 soldout al Madison Square Garden, più di qualsiasi altro performer, inclusi tutti i cantanti e gli attori di fama mondiale che ci possono venire in mente.

 

Bruno la leggenda

I fattori che contribuirono al successo “The living legend of professional wrestling” furono molteplici. In primo luogo il talento innato per lo stile di lotta tipico dei decenni ’60-’70-’80 basato sul giusto equilibrio tra forza bruta e resistenza e che concedeva poco allo spettacolo se per spettacolo si intendono acrobazie aeree e colpi ad effetto a cui ci hanno abituato i lottatori dell’ultimo ventennio (pesi leggeri in stile Rey Mysterio, giusto per citare un nome mainstream). Sammartino aveva inoltre un’etica professionale ferrea: la sua affidabilità dentro e fuori dal ring è testimoniata dal fatto che la federazione più importante al mondo gli affidò la cintura di campione dei pesi massimi per 4040 giorni, primato ad oggi mai eguagliato. E nemmeno sfiorato da wrestler divenuti icone mondiali come Hulk Hogan, The Rock e John Cena.

Un ulteriore aspetto che contribuì al suo successo, di solito il meno celebrato negli States, è la connessione che riuscì a creare con il pubblico straniero: lo Stallone italiano infatti era infatti un idolo non solo per gli italo-americani ma pure per i messicani, gli irlandesi, i sudamericani, gli olandesi e in generale per tutte le comunità che affollavano le metropoli degli Usa. Bruno ce l’aveva fatta partendo da Pizzoferrato, un paesino di montagna in provincia di Chieti da dove era scappato con la famiglia durante l’occupazione nazista. Era una delle prime incarnazioni commerciabili del sogno americano. La sua ascesa nel mondo dello sport-entertainment era andata di pari passo con la scalata sociale e quindi le vittorie avevano una doppia valenza: accrescevano la sua gloria personale ma erano anche il riscatto di milioni di migranti arrivati a New York e non solo a caccia di una nuova vita.

Su Youtube, specie sul canale della WWE, sono presenti molti incontri di Bruno Sammartino

 

La lotta con l’orangotango

«Poco prima di diventare un lottatore professionista – spiegò in un’intervista dopo il ritiro – lavoravo come manovale. In quel periodo stavamo costruendo un grande edificio a Pittsburgh. Nonostante fossi uno degli operai più giovani, chiamavano sempre me quando c’era da spostare del materiale molto pesante: avevo una forza fuori dal normale. Guadagnavo due dollari l’ora. Un giorno in cantiere arrivò un tizio che mi offrì di sfidare un orangotango: se avessi resistito per cinque minuti, avrei guadagnato 50 dollari. Accettai subito. Dopo un quarto d’ora ero stremato, l’orango mi stava colpendo continuamente alla faccia. A un certo punto mi alzai, gli diedi un pugno allo stomaco con tutta la forza che mi era rimasta in corpo: lui andò ko e io tornai a casa con una cifra enorme per l’epoca».

 

Passaggio di consegne

Lo Stallone Italiano rappresentava l’immagine del ragazzo perbene che ce l’aveva fatta, che sul ring eliminava uno dopo l’altro i cattivi di turno: Killer Kowalski, Gorilla Monsoon, George “The Animal”, fino a Larry Zbysco, l’allievo che osò sfidare il maestro. Sammartino fu il numero uno della WWE nella categoria pesi massimi, lui che era alto un metro e 78 e nella sua carriera oscillò tra i 111 e i 129 chili.

Nell’estate del 1987, con una carriera trentennale alle spalle, l’eroe dei due mondi fece coppia in un incontro tag team con Hulk Hogan. Vinsero, ovviamente, e Bruno di fatto passò il testimone al biondissimo americano destinato a diventare l’icona della lotta libera, come a quel tempo veniva impropriamente chiamato il wrestling in Italia. Sammartino avrebbe potuto continuare a sfruttare la propria popolarità, lottando ancora per qualche anno o assumendo un ruolo diverso negli show (commentatore, manager di un lottatore) ma decise di sparire dalle scene.

Senza troppi giri di parole dichiarò più volte di essere contrario al nuovo modo di sceneggiare i match, con meno azione e più parole (“Io non lotto con ragazzi che indossano maschere o cose del genere, è umiliante. Mi rifiuto di andare al tappeto contro un albero di Natale”). Prese anche posizioni durissime contro le droghe e le sostanze illecite che in quel periodo avevano invaso gli spogliatoi. Ci aveva visto lungo visto che pochi anni dopo la WWE, allora WWF, venne travolta da quello che è passato alla storia come lo scandalo steroidi. Si trattò del primo (ma non ultimo) periodo in cui la federazione di Stamford finì nell’occhio del ciclone per aver chiuso entrambi gli occhi davanti a wrestler che in pochi mesi avevano stravolto la propria muscolatura non soltanto grazie all’impegno in palestra.

 

Eroe dimenticato

Dal 2013 lo Stallone Italiano fa parte della hall of fame della WWE. Ad introdurlo fu il suo amico di vecchia data Arnold Schwarzenegger. Poche settimane prima di ricevere il più alto riconoscimento del wrestling mondiale, il sindaco di Jersey City, New Jersey, gli aveva consegnato le chiavi della città. A maggio dello stesso anno era stato dichiarato il “Bruno Sammartino Day” ad Allegheny County, Pennsylvania. Nella memoria degli italiani Sammartino è poco più di un fantasma: Pizzoferrato, il paese natale in cui volle tornare, commosso e travolto dai ricordi, pochi mesi prima di morire, gli ha dedicato una statua. Tutto qui. Eppure per milioni di appassionati in giro per il mondo Bruno è un’icona senza tempo. Un esempio di forza sul ring, un uomo e un immigrato benvoluto e rispettato. Impegno, dedizione e amore per la disciplina sono i tre termini di un climax che lo ha reso immortale.

«Ai miei primi incontri il pubblico era formato soprattutto da emigrati: greci, spagnoli, tanti italiani. Si rivedevano in me, nella mia storia. Ero uno come loro, uno che lottava. A vedermi combattere venivano talmente tante persone che anche gli americani dovettero accettare il fatto che Bruno Sammartino era diventato qualcuno. Una volta al mese riempivo il Madison Square Garden, ventiduemila spettatori paganti,  ma io non ho mai dimenticato da dove vengo».

L’introduzione dello Stallone italiano nella hall of fame della WWE, nel 2013

 

Il tributo della WWE a Sammartino realizzato a pochi giorni dalla morte, nel 2018

 


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Di Vincenzo Corrado

Giornalista professionista, scrittore e altre cose che andavano di moda prima dell'intelligenza artificiale. Nato al mare e cresciuto tra la nebbia: avrei preferito il contrario.