Massimo Morgia, il calcio controcorrente

Abbiamo intervistato Massimo Morgia, decano degli allenatori nostrani e, soprattutto, un uomo innamorato del calcio che ancora si batte per un futuro diverso per questo sport.

Buonasera mister Morgia. Io partirei dalla sua lunghissima carriera prima da giocatore e poi da allenatore. C’è un posto a cui è rimasto più legato di altri tra quelli che ha girato?

“In realtà mi sento legato ad ogni posto dove sono stato, perché il calcio mi ha portato in giro per tutta Italia, dal nord al sud passando per il centro, e devo dire che ovunque mi sono sentito un ospite chiamato a fare il lavoro che ama. Giravo l’Italia e, dove molti vanno in giro pagando, io ho avuto la fortuna di farlo grazie al lavoro che amavo. Questo mi ha dato modo soprattutto di vincere tanti pregiudizi. Io, nato a Roma, ho girato da Bolzano a Marsala, e mi sono reso conto che in ogni angolo d’Italia ci sono nascosti gioielli meravigliosi.
Tuttavia, devo dire che per una città in particolare ho una predilezione. Nel 1976 sono stato acquistato dalla Lucchese, dove ho giocato per quattro anni diventandone capitano ed una bandiera. Qui ho conosciuto mia moglie, qui è nata mia figlia, qui vivo: Lucca è diventata la mia città. Tre o quattro volte mi è stato chiesto di allenare la Lucchese ma ho sempre rifiutato sapendo che il calcio è capace di distruggere ogni cosa ed io, da romantico quale sento di essere, non ho voluto mai mettere a rischio la mia famiglia e soprattutto il ricordo dell’unica maglia che mi sono sempre sentita cucita sulla pelle.”

In questo lungo Giro d’Italia che è stata la sua carriera, in quante categorie ha avuto modo di lavorare?

“Le ho fatte praticamente tutte, dalla Promozione alla Serie B a Livorno insieme a Walter Novellino. Ad essere del tutto franco ho respirato anche la Serie A, perché sono stato cinque anni a Pisa sotto la presidenza di Anconetani come allenatore della Primavera. Posso quindi dire di aver vissuto anche la massima serie.”

In 60 anni di professione ha incontrato quindi ogni tipo di presidente. C’è un tratto comune tra tutti loro? È un ruolo a cui la geografia e il tempo pratica dei cambiamenti?

“Dopo una vita intera a contatto con i presidenti, penso proprio che la loro sia la figura che più ha subito cambiamenti nel tempo. Il calcio, almeno nelle basi, è più o meno sempre quello. Sono cambiati la struttura delle società e i vertici. Quando ho cominciato la maggioranza dei presidenti era del posto, tifava in modo viscerale per le squadre che dirigevano, al punto da farne la loro vita più di quanto lo fossero le aziende che dirigevano da imprenditori. Ora questi sono animali estinti, non ce ne sono più di quella fattura. Soltanto la famiglia Agnelli con la Juventus ci riesce ancora, ma solo parzialmente. Questa rivoluzione ne ha poi trascinata con sé un’altra: quella che ha portato i giocatori a diventare i veri padroni, con tutto il contorno di procuratori e codazzi vari. Sono cambiate le fondamenta del calcio italiano.”

Insomma, possiamo dire che alla figura del presidente mecenate si è sostituita quella dell’uomo del capitale privato?

“Il movimento di capitali ha portato persone di posti lontani ad entrare nel nostro calcio, usandolo come trampolino per inseguire interessi economici in altri settori, visto che col pallone oggi è quasi impossibile generare dei guadagni. Sicuramente queste persone non sono legate alle squadre dalla passione e questo genera tante delle situazioni disastrose che si vedono ogni stagione. Al contrario, molti dei presidenti appassionati del passato ci hanno, in qualche caso, perfino rimesso le aziende perché totalmente assorbiti dalla squadra. Ne ho avuto un assaggio a Palermo con Giovanni Ferrara che veniva da una famiglia che produceva pasta e che col Palermo si è quasi rovinato. Lui è un esempio che ricordo sempre volentieri: il prototipo del presidente tifoso che mette la squadra davanti a tutto.”

Da un imprenditore del settore cerealicolo ad un’altro: Pasquale Casillo, patron del Foggia, altra squadra che annovera nel suo curriculum. La squadra di Zeman, suo grande ispiratore. Cosa ci dice del maestro boemo?

“Non ho avuto Pasquale Casillo come presidente ma l’ho conosciuto e devo dire che mi sarebbe piaciuto lavorarci assieme, visto quel che ne dicono i colleghi. Ho però avuto lo stesso direttore sportivo di Zeman, che è anche un amico personale: Peppe Pavone. Lui è uno degli artefici principali di quella squadra, costruita così sapientemente da riuscire a portare in campo un calcio rivoluzionario. Sono sempre stato un appassionato della proposta e dell’idea di calcio di Zeman. Purtroppo non ho mai avuto il piacere di conoscerlo e parlarci direttamente ma sul piano strettamente tecnico lui, insieme ad Orrico, sono stati quelli a cui più mi sono ispirato per l’intensità del gioco e la pressione offensiva che sapevano dare alle loro squadre. Quel 4-3-3 di una vita fa è ancora oggi il gioco più moderno e spettacolare che si sia visto. Anche sul piano comunicativo e morale entrambi per me sono stati fonti di insegnamento perché sempre diretti e mai banali, lontani dalle convenzioni e dal linguaggio calcese che è sempre stato di grande moda. Hanno, di fatto, preceduto Mourinho con la sua celebre frase: chi parla solo di calcio, non sa niente di calcio”.

Secondo lei, nel calcio di oggi, dove i dati a disposizione sono così tanti da poter sapere quasi in tempo reale tutto di qualunque giocatore del globo, è più o meno facile di allora assemblare una squadra come quel Foggia?

“È vero che oggigiorno ci sono tantissimi dati a disposizione, ma io penso fosse più facile costruire miracoli simili in passato. Zeman era uno molto avanti nei metodi e nelle idee ed è riuscito a traslarle dentro ad un sistema ingessato. Gli altri allenatori ci hanno messo del tempo a trovare le letture giuste e questo gli ha permesso di ottenere un calcio spettacolare e al contempo vincente. Però poi il mondo va avanti, si evolve sempre, quindi ora è un tantino più difficile trovare un’innovazione che abbia la stessa portata. Con i mezzi di cui dispongono oggi, tutte le squadre professionistiche possono analizzare ogni aspetto fino al più piccolo dettaglio, trovando quindi delle contromisure molto più velocemente. In questo senso, da ammiratore di Zeman, ritengo che la sua evoluzione sia Pep Guardiola. D’altro canto in Italia, Allegri, che è l’antitesi del calcio zemaniano, è secondo in classifica e Inzaghi, che non mi sembra esattamente un seguace di quell’idea ma che, anzi, mi sembra attentissimo a una dinamica prettamente di risultato e non al gioco, alla prestazione, è primo. Poi c’è De Zerbi, anche lui sicuramente fautore di una certa proposta di calcio, che ormai è uscito dagli orizzonti del calcio italiano e lì ha trovato affermazione. E questo è un segnale.”

Da qualche anno anche io lavoro nel calcio giovanile e noto che è molto difficile far passare concetti diversi dal mero ottenimento del risultato, tanto tra le varie società quanto ai giovani calciatori e ai relativi genitori. Pensa che sia un segnale del fatto che esiste una cultura dominante del risultato che non lascia spazio a null’altro?

”Ormai a tutti i livelli quello che conta è solo il risultato. È verissimo che nello sport conta enormemente, però deve esserci sempre un’estetica del risultato. Io alle mie squadre ho sempre detto che è importante vincere ma è parimenti importante farlo giocando bene, altrimenti poi si finisce per giustificare tutto e si perde di vista il miglioramento.”

Secondo lei, il fatto che questa mentalità totalmente centrata sul risultato sia ormai completamente penetrata in tutti i livelli del calcio, anche quelli più basici, è uno degli elementi che porta il movimento allo stato di inaridimento tecnico nel quale versa oggi?

“Può essere che il fatto di curare solo l’efficacia, e quindi il risultato, porti il movimento a trascurare altre cose fondamentali. Il calcio però è sempre stato uno specchio della vita: in ogni ambiente di lavoro vengono coltivati gli esecutori migliori, ossia quelli che svolgono un compito nel modo che gli viene ordinato, senza che ci mettano nulla di proprio. Questo uccide l’innovazione. Anche per questo i talenti che abbiamo devono spesso andare all’estero per affermarsi e, se per caso qualcuno ci riesce, qui viene considerato un miracolato. Tornando al calcio, all’Europeo ci saranno, a parte Spalletti, quattro allenatori italiani che sono dovuti andare all’estero per avere un’opportunità e dimostrare il proprio valore.”

A proposito di talento, lei ha lavorato con giocatori piuttosto importanti in carriera. Secondo lei, tra i tanti, chi è il più forte?

“Vincenzino Montella, che ho fatto esordire in primavera ad Empoli. Ma non mi limiterei a lui e direi anche Fabio Galante, che ho avuto sempre nella squadra toscana. Due parole le merita anche Mirko Taccola, che ho allenato a Pisa: arrivò da me che era una punta e io lo trasformai in difensore. Un’evoluzione riuscita talmente bene che la sua carriera lo ha portato fino all’Inter. Ho fatto anche esordire Acerbi, a Pavia, quando ancora era un ragazzino di 17 anni.”

Trovo molto interessante questo processo di trasformazione dei giocatori da ruoli offensivi a difensivi e viceversa, che spesso viene condotto da allenatori con una forte identità di gioco. Come si fa a convincere un giocatore ad abbracciare un cambiamento simile?

“Bisogna fare come fece con me Giacomino Losi. Io giocavo mediano o mezzala e lui, in Serie D alla Tevere Roma, mi ha fatto esordire a 18 anni da stopper. Lì per lì ci sono rimasto male perché mi piaceva giocare, toccare molto la palla e stare in mezzo al campo. Mi sentivo un po’ uno a cui piaceva costruire e invece mi sono trovato catapultato in un ruolo tutto diverso. Lui, da maestro di calcio, mi ha convinto che le mie attitudini da regista non fossero sufficienti per sfondare nel professionismo ma che avrei potuto mettere a frutto le mie doti da centrocampista se le avessi portate con me in un ruolo diverso, cambiandone l’interpretazione. Allo stesso modo ho fatto io con Taccola, direi con buoni risultati visto che ha fatto una carriera importante, e con tutti gli altri giocatori che pensavo ne avessero bisogno. Non conosco la percentuale precisa, ma credo che tantissimi dei difensori che oggi giocano con un qualche successo in Serie A sono stati centrocampisti oppure attaccanti quando giocavano nei settori giovanili. Questo succede perché adesso si cerca tanto di coinvolgere anche il difensore centrale in costruzione e se il difensore ha piedi più educati dei centrocampisti è ancora meglio. È un segnale che le qualità tecniche contano, anche nel 2023, più di quelle fisiche. Purtroppo, però, nei nostri settori giovanili i bambini sembrano tanti polli d’allevamento e vengono subito specializzati nel ruolo che si pensa potranno ricoprire da adulti. Capita anche che vengano messi in porta a 5 anni e che non ne escano più. Trovo francamente assurdo che, al giorno d’oggi, dove ai portieri si richiede di sapere giocare la palla come un giocatore di movimento, il nostro movimento non riesca a seguire questa linea e non produca più estremi difensori di élite”.

Mi viene in mente Luis Enrique che, durante qualcuna delle sue dirette, diceva che lui fino ai 18 anni imporrebbe a tutti gli allenatori di far giocare quasi ogni partita in un ruolo diverso ai giocatori per far imparare loro tutto quello che succede durante la partita nelle varie zone di campo, favorendo così la capacità di leggere le situazioni e la duttilità del calciatore. Lei cosa ne pensa?

“Penso sia giusto. Un giocatore deve essere, in teoria, in grado di saper fare tutto e invece, come dicevo prima, sin da bambini si cerca la specializzazione: la linea proposta da Luis Enrique va nella direzione esattamente opposta. Emblematica è la questione dell’allenamento dei portieri, a cui ho già accennato prima. Nella quasi totalità dei casi sono allenati da appositi preparatori, in prevalenza ex portieri, che li addestrano ad un calcio che non esiste più: è uno dei motivi per cui non riusciamo a fare passi avanti in un ruolo che si evolve in continuazione. Per la mia generazione di allenatori, quasi tutti con un passato da giocatore, è stato fondamentale, per svegliarci e farci aggiornare, l’arrivo sulla scena di Maifredi e di Sacchi che a calcio non hanno mai giocato, perlomeno a certi livelli. Oggi il portiere non deve più badare a quei sette metri delimitati dai pali. È un giocatore aggiunto quando è la sua squadra ad avere la palla, e deve essere padrone come minimo di tutta l’area di rigore. Solo loro sono oggetto di allenamenti specifici con personale dedicato: questo non succede per i difensori o per gli attaccanti. È giusto che i portieri curino la loro tecnica specifica, ma dovrebbero essere allenati anche col resto del gruppo.”

Sembra che col passare del tempo gli oratori e gli spazi di gioco per i ragazzi diminuiscano sempre più. È un trend che risponde ad un luogo comune o lo nota anche lei che ha girato lo Stivale in lungo e in largo?

“Assolutamente sì. Infatti, in questo momento storico, la maggior parte dei giocatori che emergono vengono dal Sud, perché lì ancora resiste qualche spazio in cui ragazzi si trovano a giocare ogni giorno, anche in mezzo alla strada. Quello è il luogo della sperimentazione per antonomasia, che migliora i giocatori molto più di quanto i due allenamenti a settimana non possano fare.”

Certamente, anche rispetto a soli 15 anni fa, il calcio spontaneo e fantasioso si sta ulteriormente desertificando. Andrebbe, secondo lei, riportato questo concetto all’interno delle società sportive?
“Credo sia necessario. Io quando entro nelle società voglio lavorare anche a livello giovanile e
questo è quello che cerco di insegnare e di spiegare a tutti. Dobbiamo diventare il luogo del calcio spontaneo se vogliamo formare bene i giocatori di domani.”

Lei è quindi uno di quei responsabili che rimette la chiesa della tecnica al centro del villaggio.
“Certamente sì, perché va trasmessa la cultura della cura dell’individualità e non quella del vincere la partita o della capacità di stare tatticamente bene in campo.”

Lei dimostra di essere rivoluzionario nell’approccio al calcio giovanile. Quando io stesso mi confronto con istruttori di venti o trent’anni spesso li sento parlare di risultato e quasi mai di prestazione. Pensa che questo sia dovuto alla cultura calcistica che ha formato questi istruttori?

“Senza dubbio questo incide. Non sono nati in società di strada e questo modello è tutto ciò che hanno conosciuto. Di certo manca un’adeguata formazione a riguardo. Lo scorso anno ho fatto il responsabile tecnico per una squadra di Promozione (la Meridien, ndr). Io credo che chi sta a contatto con i ragazzi giovani debba prendersi cura dell’individuo, non solo sotto l’aspetto tecnico ma anche sotto l’aspetto umano perché, se sicuramente non possiamo fare di tutti degli ottimi giocatori, possiamo e dobbiamo fare di tutti degli ottimi uomini. Questo obiettivo diventa quasi impossibile da raggiungere se l’unico traguardo che si rincorre è il risultato. Si guarda il dito del proprio ego e si perde di vista la luna: la crescita del ragazzo, a 360 gradi. Se uno vuole atteggiarsi da Guardiola o da Mourinho, allora il settore giovanile non è il posto giusto per lui. Noi dovremmo sostituire il prete dell’oratorio, diventando in primo luogo educatori e di conseguenza aggregatori sociali in grado di costruire una comunità e non solo una squadra di calcio. Di certo, ad ogni modo, non bisogna sentirsi allenatori fatti e finiti.”

Questa sua riflessione mi suggerisce un problema di terminologia che nasconde una certa visione delle cose. Tutti dicono di essere allenatori quando operano a livello giovanile e mai si utilizza la parola educatore. Questo forse indica come la funzione educativa sia fondamentalmente trascurata e forse nemmeno considerata parte del ruolo.

Guardi, per me bisognerebbe chiamare allenatore la guida del gruppo solo dalla Juniores in poi. Prima di questa categoria e relativa età la parte formativa è più importante. Noi sul campo siamo davvero un riferimento per il ragazzo e rappresentiamo, al pari di scuola e famiglia, le figure che più possono influenzarne il percorso di crescita. Dobbiamo esserne consapevoli, perchè se questo messaggio non viene assorbito dagli adulti che vanno sul campo è impossibile che i ragazzi  lo capiscano. Il problema però è ancora più a monte: mancano anche dei buoni responsabili, che sono coloro che dovrebbero accertarsi che i loro educatori seguano davvero determinati concetti e li trasmettano ai ragazzi.  Dopo l’esperienza alla Juve Stabia avevo smesso di fare l’allenatore, anche se poi ho ripreso per una parentesi in Serie D, ma da allora ho sempre assunto incarichi che mi permettessero di lavorare in doppia veste ed essere coinvolto nel settore giovanile. Così è stato a Siena e a Pistoia come a Mantova.”

Questo è molto raro nel calcio italiano. Difficilmente vediamo un allenatore che arriva sulla panchina e diventa anche la guida del settore giovanile. La prima squadra e le giovanili sono percepite come due mondi che procedono in parallelo senza mai toccarsi.

“Questo è vero ma io la vedo diversamente: questi mondi io voglio farli coincidere. Il mio scopo è essere l’allenatore che allena gli allenatori. Non mi interessa essere un responsabile amministrativo o un direttore sportivo, voglio creare una cultura. Quando dico questo penso all’Ajax o al Barcellona, che sono sulla cresta dall’onda da trent’anni a questa parte. Non può essere un caso che, oltre ai giocatori, producano allenatori con peculiarità proprie ma che nascono da una metodologia comune a tutti, dai piccolini alla prima squadra. In Italia normalmente succede che ogni allenatore fa quello che vuole e non c’è continuità nel lavoro.”

Restando sulla cultura, è possibile che l’aura messianica che circonda la figura dell’allenatore lo renda incapace di relazionarsi ad un sistema con logiche più grandi di lui e della sua specifica squadra?

“Sicuramente questo è un elemento rilevante. La cultura di un certo tipo di calcio comunque viene da lontano. Anche se sembra rivoluzionario, viene da Cruijff, sono concetti che hanno 50 anni. E dietro al giocatore c’erano le idee del suo allenatore, Rinus Michels. Poi, dopo la fine della sua storia all’Ajax, Cruijff le ha portate in Spagna. Da quella cultura sono nati tantissimi allenatori, compreso Guardiola, che hanno lasciato e stanno lasciando il segno nel calcio di oggi. Se non si lavora tutti con la stessa filosofia, non si crea un ambiente educativo a livello giovanile. Il giocatore deve sentire che c’è un metodo comune a tutti quelli che appartengono alla stessa società e che ne forgia gli elementi distintivi.”

Il metodo è dunque la Stella Polare. È mai stato così a suo parere in Italia ?

“Assolutamente sì. In Italia, fino all’avvento di Sacchi, c’era un metodo, grazie al quale abbiamo vinto 3 Mondiali. Il 6 era il libero, il 5 e il 2 i marcatori, il 4 il mediano, il 3 il fluidificante, il 7 l’ala tornante, l’8 la mezzala destra, il 10 la mezzala sinistra, il 9 il centravanti, e l’11 la seconda punta. Tutti, da nord a sud, insegnavano questo tipo di calcio, che produceva valore, tecnico e formativo, all’interno del sistema. Proprio per questo gli allenatori allora erano costretti a curare la tecnica e le singole individualità in quanto il lavoro tattico era uguale per tutti fin da bambini. Oggi, invece, i calciatori in erba sono allenati ed istruiti più sui concetti tattici che su quelli tecnici ed individuali: è il risultato dell’assenza di un fil-rouge tattico comune a tutti. Infatti, il catenaccio e contropiede è stato, anche all’estero, un tratto distintivo e riconoscibile del calcio italiano. Un segno particolare così forte che spesso lo si chiama “calcio all’italiana”. Oggi questa identità comune è andata completamente persa e infatti nei nostri settori giovanili vediamo una grande frammentazione di proposte. Da quello che gioca a tre in difesa col braccetto, a quello che utilizza la mezza punta passando per il 4-3-3.”

Seguendo il doppio filo del suo discorso sul ruolo degli educatori nei settori giovanili e sull’identità calcistica perduta, non posso non chiederle cosa ne pensa del fatto che ora per lavorare in un settore giovanile dai Giovanissimi in poi serva il patentino, che è a tutti gli effetti un titolo abilitante. Non è controproducente rispetto al suo discorso sul ruolo da preti di oratorio dentro le società?

“Io non mi vergogno di dire quello che penso. Questa professionalizzazione è inutile e allontana di molto il calcio di base dai suoi scopi. È quasi esclusivamente una questione di tornaconto per la Federazione visto che i corsi, oltretutto, si pagano e pure tanto. Non ha senso che questo tipo di interessi siano messi davanti a quelli del calcio e dei tantissimi praticanti dello sport più diffuso in Italia.”

A livello internazionale, anche giovanile, l’Italia fa infatti sempre più fatica ad affermarsi. Probabilmente si è fermato quel meccanismo che porta a produrre qualità, ma questa non sembra una grande preoccupazione per chi governa il calcio.

“Questo perché non si coltiva più la base e la classe dirigente non è attenta. Quando abbiamo vinto l’ultimo Mondiale nel 2006, la metà dei giocatori in quella rosa aveva trascorsi in Serie C. Ora non è più così. In azzurro ci arrivano quasi esclusivamente ragazzi che escono da grandi settori giovanili e che poi iniziano a girare l’Italia in prestito. Un danno per le società piccole, che non riescono a procurarsi risorse per conto proprio. Anche nel caso dei prestiti gratuiti il danno rimane. Una volta i vivai dei club di Serie C rappresentavano una risorsa fondamentale mentre ora, con la progressiva trasformazione di queste società in piccole succursali dei club di Serie A, il settore giovanile diventa una risorsa di secondo piano, spesso poco curata e valorizzata. Tutto questo è assurdo, dal momento che di certo non ci possiamo aspettare un lavoro profondo da questo punto di vista dai grandi club come Inter, Milan o Juventus che di fatto non hanno interesse a costruire un settore giovanile in grado di produrre giocatori: anche per loro, avere giovani forti è una mera questione di vincere il campionato di categoria. Bisogna necessariamente tornare a lavorare sui territori con realtà molto più locali, che sappiano raccogliere e valorizzare il talento del posto per costruire i giocatori di domani con logiche differenti da quelle odierne, e tornare a vedere la Serie C come una fucina di giocatori destinati poi ad arrivare ai vertici nazionali ed internazionali.”

Lei stesso, con questa riflessione, mi suggerisce la domanda con la quale chiudiamo questo viaggio nel calcio: è favorevole alle seconde squadre dei club in Lega Pro ?

Sarei favorevolissimo se facessero un campionato a parte tra di loro. Se vogliamo tornare a quel fenomeno nazional-popolare che era la Serie C, che si giocava dal Trentino alla Sicilia con un vero significato per il calcio locale, io vieterei addirittura i prestiti dalla Serie A, così da costringere le società a guardare al territorio e a quello che offre, rendendolo terreno fertile per una nuova fioritura del talento.”

 


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