Questo racconto è tratto da “Fantasie calcistiche rioplatensi: Storie di fútbol tra fantasia e realtà” (2020) di Alessandro Sanna.

 

Pablo passeggiava nervosamente su e giù per il molo. La notizia che aveva appena letto sulla prima pagina del Clarín lo riempì inizialmente di entusiasmo. Di lì a poco invece, una volta venuto a conoscenza della realtà dei fatti, sarebbe stato pervaso da quel solito cambio di umore che gli avrebbe fatto percorrere la banchina come un’instanabile ala destra percorre la propria fascia.

Per chi frequentava le diverse zone portuali rioplatensi, Pablo era un personaggio conosciuto. Per tutti era el Payaso, unico soprannome possibile da attribuire a chi, un attimo prima, ha un sorriso stampato sulla faccia ma che, un attimo dopo, ha la pelle tirata da una smorfia nervosa e arrabbiata. Le guance piene, insieme ai capelli lunghi e ricci, facevano da contorno al tutto. Era fatto così.

Quella mattina, come tante altre volte gli era capitato, aveva sistemato il solito carico a terra. Dopodiché, si era preso un attimo per sé cercando un po’ di riposo prima di riprendere il lavoro.

Sedutosi su un gradino il suo sguardo vagava serenamente da un angolo all’altro del porto, da un’imbarcazione all’altra, tra quei tanti colori.

Ad un certo punto, però, l’attenzione fu totalmente rapita da un ragazzino che stava vendendo i quotidiani a una ventina di metri di distanza, proprio al confine tra l’area portuale e le vie cittadine.

Increible noticia señores y señoras, Rimet decide por una Copa Mundial en el 1930.

Nel bel mezzo del frastuono non riuscì a sentire nitidamente quelle parole ma, dato che era un po’ loco per il fútbol, gli bastò sentirne solamente due. In lui si attivò subito l’impulso di alzarsi in piedi e dirigersi a passo svelto verso il ragazzo. Parole magiche quelle che aveva pronunciato il giornalaio, parole che, nella sua mente, riecheggiavano sonoramente dando vita a mille scenari diversi.

Non diede per scontato, nemmeno per un secondo, che potesse non trattarsi di calcio. Tutti parlavano di calcio in Argentina e il primo campionato professionistico nazionale si sarebbe disputato non molto tempo dopo.

Man mano che Pablo gli si avvicinava, il ragazzino ripete più di una volta la sensazionale notizia. Metro dopo metro, quelle due, tre, quattro parole sentite in più, gli davano ulteriori elementi per capire realmente l’epicità di quel messaggio. Da appassionato quale era sapeva benissimo chi fosse Jules Rimet. Quando ebbe finalmente strappato letteralmente il quotidiano dalle mani del ragazzo poté avere conferma di ciò che, nei secondi, prima si era immaginato.

– Una Copa Mundial – pensò velocemente – devo assolutamente saperne di più – pensò ancora più velocemente, incalzando nel ragionamento la propria mente.

La mano rovistò frenetica nella tasca della giacca alla ricerca di qualche moneta. Il ragazzo, che in principio diede qualche segno di fastidio, fu ben lieto di notare che non avrebbe subito un furto.

In prima pagina, come un pugno nell’occhio, vi era la faccia di un sorridente ed elegante signor Rimet intento a stringere un trofeo.

La notizia era chiara e limpida, di lì a due anni avrebbe avuto inizio la prima edizione della Coppa Rimet.

Posò il giornale sul gradino nel quale si era seduto iniziando a fantasticare sulle squadre nazionali che avrebbero potuto partecipare al torneo, specialmente su quelle europee. Pablo non le conosceva benissimo ma erano vividi nella sua mente i racconti dei navigatori inglesi ed italiani che, durante l’anno, giungevano in città.

Nella sua mente però, così come in quella di tanti suoi connazionali, la Selección non aveva rivali. Dopotutto gli inglesi ne avevano dato lo spunto, gli italiani ne avevano indotto l’allegria, ma il calcio, quello vero, quello dalla viscerale passione e slegato dai dettami tattici europeisti, lo avevano inventato loro, gli argentini.

Non aveva dubbi, solo le sudamericane avrebbero dato del filo da torcere alla Selección, ma solo perché il calcio è imprevedibile e, spesso, non sono i più forti a vincere. Se non fosse stato così avrebbero sempre vinto loro, gli argentini.

Nell’anno in cui si sarebbe disputata la prima Coppa Rimet, Pablo avrebbe compiuto quarant’anni. Chiunque lo conosceva sapeva benissimo che quel numero aveva solo ed esclusivamente una valenza anagrafica.

Nonostante il suo aspetto fisico dicesse il contrario, Pablo era un eterno bambino. Ora di anni ne aveva trentotto e, da quasi quattro, si era trasferito a Buenos Aires. Aveva infatti raggiunto lo zio Alfonso, colui il quale, dopo la dipartita di mamma Carmela, si era prodigato al fine di garantire un futuro a quel bambino un po’ troppo cresciuto, incolpevole dell’essere nato con qualche rotella fuori posto.

La famiglia era originaria di Concordia, cittadina di provincia sulle rive del Río Uruguay, verso nord, a poche ore di navigazione dal triplice confine con Uruguay e Brasile.

Come tutti i contesti fluviali dell’epoca, anche Concordia basava la propria economia sia sulla pesca sia sulla produzione agricola. Il commercio dei prodotti locali rappresentava quindi un’opportunità più unica che rara per assorbire le influenze esterne, specialmente quelle che arrivavano dalle sponde rioplatensi.

Fu proprio così che, da adolescente, Pablo si approcciò a quello strano sport che, secondo i racconti dello zio, alcuni immigrati inglesi avevano portato in città. Fu proprio Alfonso che portò a Concordia il primo pallone, al quale ne susseguirono tanti altri data l’impaziente voglia di tutti i bambini di cimentarsi con quel nuovo e simpatico gioco. Nessuno forse si sarebbe mai immaginato di quanto poi, il fútbol, sarebbe stato presente e avrebbe scandito la loro vita.

Già dai suoi primi anni di età zio Alfonso fu per Pablo la figura maschile più presente e significativa. Papà Antonio venne a mancare troppo presto e Carmela si ritrovò a crescere da sola un figlio che, man mano che passavano gli anni, mostrava alcuni segnali che non lo rendevano uguale a tutti gli altri. Con i suoi racconti e i suoi regali fu proprio Alfonso a rendere più serena la vita del nipote.

Dallo zio ereditò quindi la passione per il fútbol ma, a causa degli scarsi mezzi di informazione dell’epoca, risultava particolarmente difficile riuscire a seguire con l’enfasi da tifoso ciò che succedeva sui campi di calcio delle città più a sud. A quei tempi nutriva solamente una simpatia per il Boca Juniors, squadra operaia fondata poco tempo prima da un gruppo di giovani italiani. Erano ancora poco conosciuti ma in breve tempo avrebbero iniziato ad affermarsi sui più blasonati club di matrice britannica.

Quella simpatia si trasformò in una vera e propria passione quando, negli anni successivi, Pablo si trasferì a Buenos Aires proprio nel quartiere popolare di La Boca, nei pressi dell’area portuale.

C’era però una squadra che nel suo cuore aveva un posto speciale. Un amore nato per caso e figlio forse di quelle fissazioni che si insinuano nella mente dei ragazzini come lui. La vera squadra del cuore, quella che lo sarebbe stata per tutta la vita, non era il Boca. Nella mente di Pablo le squadre di club dividevano. Per lui invece il fútbol era unione, passione per gli stessi undici calciatori.

La nazionale argentina era per Pablo l’essenza del fútbol. Un intero Paese unito sotto quei colori, dentro quella camiseta albiceleste che, una volta indossata, diventava un tutt’uno con la pelle di chiunque in Argentina amasse quello sport. Praticamente l’intera popolazione.

Mentre la mente produceva idee, scenari, veri e propri film in merito alla notizia appena letta, la lingua non era da meno. Se c’era una cosa che Pablo adorava fare era parlare, e siccome lo conoscevano in tanti, in una ventina di minuti aveva già raccontato a destra e a sinistra la grande novità. Ciò che però aveva omesso, era un dettaglio non poco importante. Dettaglio che, nella frenesia di chi non aveva né tempo né forse pazienza di rispondergli seriamente, vagava ancora lì nell’aria, in attesa che qualcuno lo cogliesse.
Pablo era amico di tutti ma allo stesso tempo non era amico di nessuno. Qualcuno lo prendeva in giro per quel suo essere un po’ stralunato, tutti gli volevano bene ma in pochi lo prendevano sul serio. Di rado qualcuno andava oltre il caloroso saluto iniziale e, per questo motivo, passava molto tempo da solo, soprattutto durante il turno di lavoro. L’unico suo vero amico era Román, un ragazzo della sua stessa età, molto più taciturno. Parlava poco ma quando lo faceva lasciava il segno. I due non si incontravano molto spesso, giusto qualche episodio ogni tanto tra una banchina e l’altra.

Quel giorno, in quegli stessi istanti, anche Román stava approfittando di qualche minuto di pausa. Pablo lo vide e, come suo solito e come il suo carattere gioviale gli imponeva, gli si avvicinò di corsa. Senza dubbio Román non aveva la minima intenzione di bruciarsi quella meritata pausa parlando, anzi ascoltando, le notizie e gli aneddoti dell’amico. Ma non si poteva non voler bene al Payaso e quindi, armato di pazienza, si preparò ad accogliere di fronte a lui il dirompente entusiasmo di Pablo che correva sventolando il quotidiano come se fosse una bandiera.

– Román, Román, Román! – esclamò affannosamente.-

Hola Pablito, penso di sapere di cosa mi vuoi parlare – lo anticipò in modo da far durare quella conversazione il tempo necessario.

– La Copa Mundial Román, sicuramente la vinceremo noi, solo noi possiamo vincere. Stavolta gliela faremo vedere noi a los Charruas.

– Lo spero Pablito, il calcio è imprevedibile proprio perché altrimenti vinceremmo sempre noi. Il fútbol è nostro ma lasciamo giochino anche gli altri – disse lasciandosi andare anche a qualche parola in più del suo solito.

– Poi comunque giocheranno in casa e avranno tanto pubblico dalla loro parte. Sarà ancora più bello batterli – continuò con improvviso fervore Román, preso anch’egli dalla propria passione.

Pablo lo ascoltava molto attentamente ma, in genere, quando il suo interlocutore parlava velocemente faceva sempre fatica a tenere il filo. Sentì tutte le parole che uscirono dalla bocca dell’amico ma, di tutte quelle dette, ne capì realmente solo due o tre. Quelle due tre parole, però, viaggiarono talmente veloci dalle orecchie al cervello di Pablo che rimbombarono talmente forte da fargli spalancare le palpebre. Román aveva colto quel dettaglio che in quei minuti era rimasto sospeso nell’aria.

L’Uruguay avrebbe giocato quel mondiale in casa. Ciò che infatti Pablo non si era premurato di leggere, preso dall’euforia della notizia, era proprio che la FIFA aveva assegnato all’Uruguay l’organizzazione del torneo. La federazione uruguaiana, a differenza di quella argentina, aveva da tempo promosso la propria candidatura. Il 1930 sarebbe stato l’anno del centenario dalla fondazione della Republica Oriental del Uruguay.

Ma questo Pablo non poteva saperlo.

Proposta che fu poi decisamente integrata dalla volontà di costruire lo stadio più grande al mondo: el Estadio del Centenario de Montevideo. Pablo non poteva sapere nemmeno questo.

Quella notizia lo lasciò interdetto per un istante. Román, che ben conosceva le mille sfaccettature caratteriali dell’amico, rimase qualche secondo in silenzio. Proprio quando stava per aggiungere qualcosa, el Payaso abbassò lo sguardo verso il giornale, lo aprì e cercò disperatamente la pagina con l’articolo, come ad esorcizzare il possibile scherzo. Una volta trovata la pagina corretta lesse attentamente quelle poche righe, si accorse che Román non lo stava assolutamente prendendo in giro, alzò lo sguardo e se ne andò. Román sorrise, sapeva che quella reazione non nascondeva nulla di preoccupante. Pablo era fatto così, come un pagliaccio, un attimo era felice, un attimo dopo era triste.

Da quel momento ebbe inizio il frenetico e nervoso andirivieni lungo la banchina, sbottando a più non posso parole più o meno incomprensibili. Ad un orecchio attento sicuramente non sarebbero sfuggite né la parola Charruas, né la parola Uru e nemmeno qualche colorita imprecazione tra una e l’altra.

C’è una caratteristica di Pablo che ancora però non è stata svelata. Tutti sapevano quanto egli fosse scaramantico. Da quando si era trasferito a Buenos Aires, quattro anni prima, e aveva iniziato a tifare per gli Xeneises, non c’era partita casalinga in cui, con lo stesso paio di calzini, uno giallo e uno blu, non fosse nel bel mezzo di quella che poi sarebbe diventata la Doce. Calzini fortunati raccontava in giro. I due campionati vinti dal Boca da quando quei
calzini entravano allo stadio ne erano la prova.
Non si è mai riuscito a capire da dove arrivasse questo suo atteggiamento così folkloristico. Nessuno in famiglia era come lui. Non passava mai sotto una scala, non appena vedeva un gatto nero cambiava strada e non maneggiava mai uno specchio per paura che cadendogli dalle mani avrebbe affrontato sette anni di sventura.

Gran parte della vita di Pablo girava attorno al fútbol ed in particolare attorno alla nazionale. Di conseguenza, era proprio in ambito calcistico che la sua forte superstizione si palesava maggiormente.
Ad esempio, nonostante fossero passati più di dieci anni, non aveva ancora digerito la sconfitta della sua amata Selección nel Campionato Sudamericano del 1916, disputatosi in Argentina. Il torneo rappresentò la prima edizione di quella che, successivamente, venne denominata Coppa America. Il motivo per il quale fu l’Argentina ad organizzare quel torneo risale ad un altro torneo, disputato sei anni prima e organizzato dalla stessa Argentina per il festeggiamento del centenario della sua indipendenza.

In quegli anni Pablo non era ancora el Payaso e non aveva ancora imparato a gestire le difficoltà nel relazionarsi con gli altri.

Praticamente tutti, a Concordia, fatta eccezione per mamma Carmela e zio Alfonso, lo consideravano fuori di testa.

Anche i suoi coetanei, quelli con i quali aveva tirato i primi calci al pallone, lo evitavano. Qualche giorno dopo i festeggiamenti per la ricorrenza della Rivoluzione di Maggio, Alfonso entrò nella stalla della fattoria di mamma Carmela.

– Pablo, lascia in pace quella vacca e vieni qui – disse Alfonso concitato e tenendo una maleta nella mano destra.

– Zio stai già partendo?

– Si Pablo e tu, se vuoi, puoi venire con me ad assistere al torneo di fútbol più importante che il mondo abbia mai visto.

L’incontenibile euforia iniziale lasciò presto spazio a un po’ di malinconia.

– Ho tante faccende da sbrigare qui – aggiunse mestamente Pablo.

– Non ti preoccupare ho già parlato con tua madre ed è d’accordo con me. Sarà solo per due settimane e poi nel frattempo potrai sbrigare per lei alcune commissioni giù in città.

Nemmeno il tempo di ascoltare le ultime parole che di corsa andò a riempire una valigia stravecchia trovata nell’armadio.

Salutata Carmela, con un caloroso abbraccio, raggiunse Alfonso nella carrozza.
Ci vollero quasi tre giorni per raggiungere Buenos Aires, navigando prima lungo il fiume e successivamente sfruttando la nuovissima rete ferroviaria. La città sembrava quasi snobbare l’evento, il fútbol richiamava sempre più persone ma ci sarebbero voluti anni prima di vedere decine di migliaia di spettatori assiepati in attesa di una partita.
La Copa Centenario Revolución de Mayo era già in corso quando giunsero in città. A contendersela i padroni di casa, i cugini uruguagi e la nazionale cilena. Quest’ultima era la vittima sacrificale e perse entrambe le sue partite. La prima, contro la Celeste e la seconda contro la Selección proprio nel giorno in cui Pablo, per la prima volta, mise piede non solo a Buenos Aires ma in uno stadio di fútbol. Per l’esordio dell’Argentina, i presenti al Estadio Gimnasia y Esgrima erano poco più di duemila. A Pablo questo interessava poco anzi forse non interessava per nulla, l’importante era che lui fosse lì. Si era portato a presso due piccoli portafortuna, un sole sbiadito in ottone e una zampa di coniglio imbalsamata che, secondo la tradizione, presagiva buona sorte. L’Argentina vinse sonoramente quell’incontro proiettandosi, e Pablo con lei, verso la partita decisiva contro los Charruas.

La settimana seguente ben ottomila persone riempirono gli spalti del Gimnasia y Esgrima. La Selección vinse per quattro reti a uno e un felicissimo Pablo tornò a casa festante prima di dormire quanto serviva per affrontare un lungo e solitario viaggio di ritorno verso Concordia.

Passarono, appunto, sei anni prima di arrivare alla vigilia del Campionato Sudamericano del 1916. L’Argentina, campione della Copa Centenario,si apprestava ad organizzare il torneo per la gioia di Pablo che, in qualche modo, riuscì a convincere Carmela e Alfonso a replicare il viaggio. Per lui era una questione di vita o di morte.

L’atmosfera che si respirava in città era decisamente differente da quella percepita sei anni prima. La popolarità del fútbol era sempre più crescente e stavolta, tra le concorrenti ai nastri di partenza della competizione, figurava anche il Brasile. Il campionato lo vinse l’Uruguay per avere totalizzato un solo punto in più dei rivali argentini.

Pablo, a oltre dieci anni di distanza, faceva fatica a digerire quella sconfitta e incolpava di ciò la cattiva sorte. Cattiva sorte che egli cercò in tutti i modi di scacciare. Va detto che a differenza delle partite del 1910, disputatesi all’Estadio Gimnasia y Esgrima, l’ultima partita dell’edizione del 1916, quella che avrebbe assegnato la vittoria finale, venne disputata ad Avellaneda, nello stadio Colon y Alsina, casa del Racing Club.

– Zio dobbiamo andare o faremo tardi per comprare i biglietti, ci vuole mezz’ora a piedi per raggiungere lo stadio – esclamò Pablo a cinque ore dal fischio di inizio.

– Ma no Pablo non possiamo andare a piedi. Viene una carrozza a prenderci tra venti minuti. Ad Avellaneda ho un contatto che ci farà entrare immediatamente allo stadio – disse Alfonso non curandosi che quella notizia avrebbe potuto cambiare il labile umore del nipote.

– Avellaneda? Come ad Avellaneda? Ma non lo sanno che devono giocare al Gymnasia y Esgrima? – protestò – dobbiamo avvisare tutti se vogliamo vincere e cambiare stadio, tornare nello
stadio di sei anni fa – incitò Pablo ottenendo in cambio dallo zio una sonora risata.

– Ah Pablo questa scaramanzia alla fine ci farà perdere davvero le partite. Dai andiamo che è quasi il momento.

Il suo livello di superstizione non aveva eguali al mondo.

Quel giorno Alfonso andò ad Avellaneda ad assistere al pareggio a reti inviolate che proclamò la Celeste campione. Pablo invece raggiunse solitario el Estadio Gymnasia y Esgrima nel vano tentativo di boicottare la sorte davanti all’unico spettatore di una partita che si giocava lì vicino, ma nello stadio sbagliato.

Il successivo Campionato Sudamericano si disputò l’anno seguente in Uruguay, con la nazionale di casa che bissò il successo ottenuto dodici mesi prima. Pablo le tentò tutte ma ogni suo sforzo non portò al risultato sperato. Uruguay campione e Argentina seconda, sconfitta per una rete a zero nella partita conclusiva. Due anni dopo, nella terza edizione svoltasi in Brasile, furono anche in quel caso i padroni di casa ad alzare il trofeo. Pablo, in un attimo di follia, arrivò quasi a maledire quella fede così forte verso la nazionale del proprio paese. Fino a quel momento in due edizioni su tre, a vincere fu la nazionale del Paese ospitante. Solo l’Argentina non riuscì a vincere in casa. Maledetto stadio sbagliato.

La superstizione di Pablo raggiunse però il suo apice nei due anni successivi, nei quali si susseguirono due differenti edizioni del torneo sudamericano. Stavolta era il Cile ad ospitare la competizione. Le provò tutte anche stavolta. Sicuro che anche in questo caso a vincere sarebbe stata la nazionale ospitante, riuscì a convincere zio Alfonso a portarlo con sé per qualche giorno a Buenos Aires. Non c’erano cileni a Concordia ma, forse, in città ne avrebbe trovato almeno uno.
L’obiettivo della missione era semplice: trovare un cileno e fare in modo che gli capitasse qualcosa che attirasse su di lui la sventura, calcisticamente parlando, più nera. In principio trovò in soffitta un piccolo specchio ma, dare lo specchio ad una persona facendo in modo che gli cadesse sembrava un’impresa ardua. Allora gli balenò in testa un’altra idea.

– Troverò un cileno al porto, gli offrirò un bel bicchiere di vino e farò in modo che gli si rovesci addosso – pensò deciso l’astuto Pablo.

Inutile dire che nei due giorni passati in città, di cileni non vi fu traccia.

Il Cile non vinse quel torneo ma non lo vinse nemmeno l’Argentina. Non c’è due senza tre, Uruguay campione con un punto di vantaggio sulla Selección. Maledetto stadio sbagliato.

– I tuoi trucchetti hanno funzionato a metà Pablito – lo prese in giro lo zio.

– Vedrai che l’anno prossimo ci riuscirò e vinceremo noi – concluse.

Appena terminava un’edizione, la sua mente laboriosa era già al lavoro per mettere a punto il diabolico piano per l’edizione successiva. La vita di tutti i giorni però incombeva e passarono quindi alcuni mesi prima che il nuovo piano potesse prendere forma. Pablo sapeva di dover cambiare qualcosa.

Da quando aveva saputo che l’edizione del 1921 si sarebbe giocata nuovamente in Argentina decise che stavolta non sarebbe andato a Buenos Aires. L’ultima volta non aveva portato bene.

Passò le giornate a pensare a qualcosa a cui ancora non aveva pensato. Per esempio non si era mai concentrato sul portare sfortuna al nemico principe della sua Argentina: la Celeste, e non aveva mai preso in considerazione l’elemento scaramantico per eccellenza: il gatto nero.

L’illuminazione gli arrivò come un lampo in un fresco pomeriggio di agosto, a pochi mesi dall’inizio della competizione.

Stava facendo due passi per riporre degli attrezzi nella stalla quando un gatto dal colore nero attraversò una recinzione a una decina di metri di distanza. La sera a cena non toccò cibo e a stento disse qualche parola. Ogni tanto capitava, ormai mamma Carmela lo conosceva bene. La mattina seguente Alfonso arrivò a Concordia.

– Zio so cosa devo fare. Quest’anno vinceremo il nostro Campionato.

– Pablito cosa ti sei messo in testa stavolta? La fortuna è importante ma bisogna essere bravi a mettere la palla in rete.

– Zio so cosa devo fare – replicò senza troppi giri di parole e se ne andò.

Concordia sorgeva sulla sponda occidentale del Río Uruguay, che per ovvi motivi, Pablo chiamava solo ed esclusivamente el Río. Il fiume segnava il confine naturale tra i due Stati. Esattamente di fronte, sulla riva orientale del fiume, sorgeva la città di Salto, già allora il più importante centro abitato uruguagio dopo Montevideo.

Nei giorni successivi qualcosa di strano cominciò ad accadere tra le vie di Concordia e di quelle dei villaggi vicini. Anche questa volta il piano era tanto semplice quanto di difficile attuazione. Non ne parlò con nessuno, fatta eccezione per Alfonso che, incuriosito dalla frenesia da spionaggio delle operazioni del nipote, riuscì a corromperlo in cambio di qualche aneddoto sulle ultime partite del Boca.

– Va bene zio ti racconto tutto – disse finalmente Pablo prima di proseguire – sto attirando tutti i gatti randagi della zona e quelli neri li sto portando qui. Devo trovarne tredici.

Alfonso lo guardò incredulo ma non capiva l’intento del nipote.

– Pablo, ma il gatto nero non porta male? – chiese dubbioso.

– Si, proprio per quello ho questo in tasca – disse Pablo sventolando un corno rosso datogli da un marinaio italiano qualche anno prima a Buenos Aires. Alfonso ancora non capiva.

– Ma cosa ci devi fare con i gatti?

– Li porterò a Salto e li libererò lì – concluse fermo e fiero Pablo, sbattendo il pugno sul tavolo della cucina.

Lo sguardo incredulo di Alfonso è difficile da descrivere.

Ne aveva visto e sentito tante ma una cosa del genere gli mancava.

Sapeva bene che nulla e nessuno poteva distogliere il nipote dal portare a termine la sua missione.

Nel giro di qualche settimana una colonia di tredici gatti neri scorrazzava felice per i campi della fattoria. Mancavano ancora un paio di settimane all’inizio del torneo. Nell’incredulità più totale, Alfonso, da buon complice, era riuscito a mettersi d’accordo con un suo amico di infanzia. Un pescatore della zona, che gli doveva qualche favore, avrebbe accompagnato Pablo in barca fino a Salto insieme alla sua allegra compagnia felina.

Fu così che all’alba del giorno in cui la Selección vinse per uno a zero contro il Brasile la partita inaugurale del Campionato, un temerario Pablo detto el Payaso, sbarcò con il suo complice sulla sponda opposta del fiume Uruguay. Sempre con il corno rosso in tasca, aprì le due gabbie di legno che aveva costruito e, con l’aiuto di qualche succulenta esca, liberò i gatti per le vie della città.

Il finale della storia lo scrisse poi la nazionale Argentina che vinse quel torneo, il suo primo Campionato Sudamericano, nell’edizione più nefasta per la Celeste.

Negli anni successivi la vita di Pablo prese una strada diversa. La morte della madre, la vendita della fattoria e il trasferimento a Buenos Aires non gli davano più il tempo di architettare ingegnosi piani. Ma, chissà, forse all’alba della prima Coppa Rimet, a qualcosa di scaramantico si poteva anche pensare.

 


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catenaccio

Di Alessandro Sanna

Insegnante, tifoso del Cagliari ed esperto di calcio sudamericano. Ho scritto per la Rivista Sottoporta. Collaboro con Carlo Pizzigoni a "La Fiera Del Calcio". Conduco su Twitch la trasmissione "Boxtobox" e sono autore del podcast "Que Viva el Fútbol". Ho scritto due libri: "Fantasie calcistiche rioplatensi: Storie di fútbol tra fantasia e realtà" e "¡Que viva el fútbol!: Storie, aneddoti e cronache delle più accese rivalità sudamericane"