Mourinho a Roma ha fatto anche (tante) cose buone

In una non troppo fredda mattina di metà gennaio è arrivata la notizia che ha movimentato la giornata: Josè Mourinho è stato esonerato dalla Roma.

Una decisione probabilmente inevitabile ma al tempo stesso inattesa, esattamente come inatteso era stato il suo sbarco in giallorosso. Una sorta di cometa, che ha portato sulla panchina giallorossa uno degli allenatori più vincenti di sempre.

Un’avventura di due anni e mezzo con alti e bassi, capace di unire il tifo romanista fino a dividerlo oggi. Probabilmente, dire se sia andata bene o male è rimesso alla soggettività di chi lo ha vissuto ma è legittimo tentare di farlo.

 

Fulmine a ciel sereno

L’ingaggio di Mourinho è stato un fulmine a ciel sereno, al punto di far credere i tifosi si trattasse di una sorta di burla social.

La stagione 2020-21 è stata travagliata per la Roma di Paulo Fonseca. Due sconfitte a tavolino (alla prima di campionato a Verona per aver inserito in distinta un giocatore non incluso in lista A – Diawara – e negli ottavi di Coppa Italia contro lo Spezia per aver usato un sesto cambio, non previsto dalle regole federali, durante i tempi supplementari), molti infortuni che hanno guastato un cammino che fino a marzo era stato buono, ma anche un grande cammino europeo.

Un percorso deflagrato, tra infortuni ed incoscienza tattica, il 29 aprile, data del match di andata delle semifinali di Europa League in cui la Roma, dopo aver esaurito i cambi in 37’, dilapida il vantaggio per 2-1 all’intervallo a Old Trafford subendo un umiliante 6-2.

Passano tre giorni e la Roma cade anche a Genova in campionato, mettendo a repentaglio il settimo posto valido per partecipare alle coppe nella stagione seguente. Quindi, martedì 4 maggio ecco un doppio comunicato: al mattino Fonseca viene sollevato dall’incarico a partire dalla fine della stagione, nel primo pomeriggio viene annunciato Mourinho.

Lo Special One a Roma, dopo l’inimicizia degli anni duemila ma, soprattutto, dopo 25 trofei in carriera. A Roma si respira entusiasmo, Fonseca torna alla difesa a 4 per agevolare il lavoro futuro di Mou, i tifosi sognano sui progetti societari.

All’ultimo tuffo arriva il settimo posto che vale la qualificazione alla Conference League: la prima stagione di Mou è così pronta a partire.

La Roma annuncia sui social la firma di Mourinho

 

Mou unisce

L’arrivo di Mourinho si inserisce in un contesto storico di particolare suggestione per i tifosi: nell’estate precedente la Roma era stata acquistata dai Friedkin ma, causa Covid ed assenza di un ds vero e proprio, gli interventi sul mercato erano stati tardivi e avevano risolto i problemi di organico solo in modo parziale.

Per contro, sempre come strascico della pandemia, gli stadi erano stati vuoti per un’intera stagione. C’era voglia non solo di amare ma anche di far sentire alla squadra questa grande passione. Una mossa tecnica e mediatica come l’arrivo del tecnico di Setúbal aveva finito per unire il popolo giallorosso come non succedeva da anni.

Il periodo con lo Special One è stato redditizio per la proprietà e pieno d’amore per i tifosi, con una serie di 36 sold out consecutivi e, soprattutto, un tutto esaurito registrato in quasi tutte le partite disputate all’Olimpico (le uniche due partite in cui sono rimasti invenduti alcuni biglietti sono state Roma-Genoa, ottavo di finale di Coppa Italia 2022-23, e Roma-Frosinone nella stagione in corso).

I tifosi hanno sognato anche per la sua fama di allenatore esigente sul mercato. Nella sua prima stagione, la Roma investe 82 milioni per acquistare quattro calciatori, su tutti Abraham, chiamato a raccogliere l’eredità di Dzeko.

Un inizio incoraggiante, tre vittorie nelle prime tre giornate con tanto di corsa sfrenata di Mou sotto la Sud per festeggiare il gol-vittoria di El Shaarawy al 91’ contro il Sassuolo in un partita non banale anche solo per motivi statistici: si tratta infatti della panchina numero 1000 della sua carriera.

Ed ancora, dopo il clamoroso inciampo nel girone di Conference League nel 6-1 contro il Bodø/Glimt, una risurrezione in ambito europeo nata proprio con la rivincita contro i norvegesi e grazie all’immortale capacità di Mou di creare rivalità e inimicizie dal nulla, fomentando l’ambiente e finendo per unirlo.

Come accaduto nella disfida dialettica e anche fisica tra il tecnico norvegese Knutsen e il suo staff al termine dell’andata dei quarti di finale, in cui la Roma aveva perso 2-1. Da lì, la bolgia al ritorno, il 4-0, la qualificazione alla semifinale e il successo sul Leicester con il ritorno in una finale europea a 31 anni dall’ultima volta.

E il trionfo a Tirana, il primo a 61 anni di distanza dalla Coppa delle Fiere, un amore che sembrava non dovesse finire mai.

Un sorridente Mourinho solleva il trofeo: la Roma vince la Conference League

 

Aspetti tattici

Nei suoi due anni e mezzo, il tecnico portoghese ha alternato la difesa a 4, all’inizio della sua avventura, e la difesa a 3 a partire da gennaio 2022 fino al termine del suo cammino nella Capitale, al fine di avere maggiori garanzie di solidità.

Inizialmente i benefici sono stati evidenti. Se è vero che la Roma non è mai risultata spettacolare, è altrettanto innegabile che Mourinho è notoriamente un risultatista che, con questa scelta tattica e filosofica, ha ottenuto quanto aveva in mente.

Merito di un atteggiamento già acquisito dalla squadra, rapida nelle ripartenze dopo la riconquista del possesso e corta tra i reparti, ma anche di due intuizioni tattiche: Mkhitaryan spostato in mediana e il giovane Zalewski, trequartista proveniente dalla Primavera, reinventato come quinto a sinistra.

Come già successo a Bergamo in regime di difesa a 4 (successo per 4-1 con il 28% di possesso palla) la Roma è capace di dominare anche con un possesso palla in grave deficit, circostanza portata alle massime conseguenze proprio contro il Bodø/Glimt (4-0 con 18 tiri verso la porta ma solo il 39% di possesso palla).

Nel cammino ad eliminazione diretta, la Roma fa dell’Olimpico una fortezza, con appena un gol subito, da fuori area, negli ottavi contro il Vitesse: in sette partite, 10 gol fatti (uno a partita tranne nel già menzionato 4-0 ai norvegesi), solo 4 subiti, possesso di palla medio del 36,7% (con picchi al ribasso del 32% nell’andata della semifinale a Leicester e del 33% in finale) e coppa alzata sotto il cielo di Tirana.

Un atteggiamento che, meno armonico nella conduzione e nella proposta offensiva, si è rivisto anche nel cammino europeo del secondo anno, culminato nella discussa finale di Budapest contro il Siviglia.

In nove incontri, lo score risulta identico: 10 gol fatti, 4 subiti di cui solo uno in casa, stavolta ai quarti contro il Feyenoord, possesso palla medio del 38,1% ma con il picco negativo del 23% in casa della Real Sociedad, pur con un solo rischio sostanziale per la porta di Rui Patricio.

Due grandi cammini europei, il secondo dei quali anche al netto di grossi problemi infortuni, che nel complesso hanno determinato una scelta netta: la coperta è parsa troppo corta per puntare contemporaneamente al piazzamento in campionato ed alla competitività in Europa e, sul suolo nazionale, la Roma ha deluso, con due sesti posti consecutivi.

Se è vero che, fino ai problemi di infortuni, la Roma era in piena zona Champions League nella stagione 2022-23, è altrettanto palese che, per i piani economici e di sostenibilità avviati dalla proprietà, il piazzamento in Champions, mai arrivato, sarebbe stato vitale.

Il roboante 4-0 sul Bodø/Glimt raccontato dai canali social giallorossi

 

Tra proprietà e comunicazione

Il rapporto con la proprietà, altalenante, ha contribuito a determinare la rottura e a rovinare anche alcuni aspetti tattici.

Il FFP ed il conseguente settlement agreement stipulato dalla proprietà (da valutare se questo accordo castrante possa essere un’argomentazione contro i Friedkin in questa diatriba) hanno delimitato i poteri di spesa, ma d’altro canto l’assenza di investimenti ha fortemente condizionato il progetto tecnico.

A seguito del primo mercato piuttosto oneroso, nell’estate del 2022 la Roma ha attinto da prestiti e parametri 0, investendo meno di 9 milioni, comprensivi del costo dei prestiti onerosi. Cifra più o meno confermata anche l’anno seguente, pur a fronte di una cessione, quella di Ibañez, che ha fruttato 30 milioni di euro.

Il tutto con un lavoro da acrobata del ds Tiago Pinto, che ha dovuto adattarsi e pescare ciò che poteva per poter attingere a calciatori competitivi. E dove c’è qualità e gratuità, evidentemente manca altro, in primo luogo la tenuta fisica di alcuni calciatori, arrivati a Roma in condizioni fisiche già precarie.

Aspetto che Mou non ha mai omesso di rimarcare, talvolta evidenziando come alcuni giocatori fossero a Roma proprio perché fisicamente non affidabili, talaltra sottolineando come la rosa fosse eccessivamente corta.

Ma a minare maggiormente il rapporto è stata la mancanza di supporto da parte della proprietà a difesa della Roma. Perché, se è vero che la storia di Mou racconta di un uomo avvezzo alla polemica, dall’altra è innegabile che, oltre al fascino esercitato sulla piazza, lo Special One si sia sempre speso, talvolta con metodi creativi, per tutelare la sua società e la sua familia, come lui chiamava la squadra, da quel “rumore dei nemici” da lui in passato citato e talvolta attirato.

Mourinho, il suo staff e alcuni calciatori dell’organico hanno creato un clima difficile e pesante, capace di attrarre critiche ma anche di distogliere il focus dal rendimento della squadra nei momenti peggiori, scagliandosi contro nemici a scelta tra i calciatori avversari e, soprattutto, la classe arbitrale.

Senza entrare nel merito degli episodi e delle polemiche con alcuni elementi della classe arbitrale (vedi Serra e Chiffi) più o meno condivisibili, il legame tra Mou e la Roma è stato messo a dura prova a Budapest. Dove Mou è stato allenatore, motivatore e anche società.

A fronte di un arbitraggio oggettivamente insufficiente, lo Special One si aspettava il supporto da una proprietà rimasta muta, in una partita che ha privato la Roma del secondo trofeo continentale consecutivo e, al tempo stesso, dei proventi dati dalla partecipazione alla Champions League, che avrebbero garantito un’altra dimensione al mercato estivo e, probabilmente, alla rosa giallorossa.

A Budapest, Mou sbraita contro l’arbitro Taylor

 

Epilogo amaro

La metà della stagione in corso ha visto una Roma deludente, ad oggi sicuramente al di sotto del valore effettivo del proprio organico, al netto dei consueti problemi fisici di alcuni suoi calciatori.

Lo spogliatoio è sembrato logoro e a ciò ha contribuito la partenza di Matić, non senza polemiche da parte di Mourinho che ne è stato il maggior sostenitore, e l’infortunio di Smalling, con parole tutt’altro che al miele da parte del tecnico circa la sopportazione del dolore da parte del difensore inglese.

Dal punto di vista motivazionale, il grande comunicatore pare aver perso improvvisamente il tocco, additando spesso i suoi giocatori come poco professionali e non all’altezza della situazione, nonché incapaci di sopperire all’assenza di Dybala.

Va precisato, tuttavia, che la Roma del suo primo anno, senza Dybala, era più bella da vedere e più efficace, godendo della coralità dei suoi interpreti e della maggior centralità di un Pellegrini che, con l’arrivo della Joya, ha visto scendere radicalmente il proprio rendimento, oltre che della presenza di Abraham, capace di staccarsi dal reparto offensivo e legare il gioco in maniera più continua di quanto oggi faccia Lukaku.

La scelta di accentrare la produzione offensiva sull’argentino è stata di Mourinho che, ancorché affidatosi al giocatore tecnicamente migliore della rosa, non ha tenuto debitamente conto, a livello tattico, di quell’endemica fragilità di Dybala che lui stesso ha utilizzato sul piano comunicativo per giustificare il rendimento della squadra.

Allo stesso modo, pur riconoscendo il suo status di unica voce a difesa della Roma, non è mai emerso un mea culpa dalle parole del tecnico. Anche a fronte di piani tattici errati, quale la scelta eccessivamente attendista e la produzione offensiva totalmente assente in alcuni match di cartello, o di scelte discutibili a livello di modulo.

Ancorché conosciuto come allenatore da difesa a 4, anche nei momenti peggiori Mourinho non ha mai vacillato e si è costantemente affidato all’impianto con tre centrali, pur con scelte cervellotiche e al netto delle defezioni nel reparto.

A titolo di esempio, si pensi all’applicazione tattica nel recente derby perso in Coppa Italia quando, a fronte delle sostituzioni effettuate al 58’, ha preferito insistere sulla difesa a 3 impiegando due calciatori fuori ruolo (Bove quinto di destra e Kristensen braccetto) anziché passare ad un 4-3-1-2 più congeniale per i calciatori sul terreno di gioco.

Quell’atteggiamento difensivo e compatto che tanto ha fruttato nei suoi primi due anni ha smesso di funzionare con i nuovi interpreti: nono posto con appena 29 punti conquistati in 20 giornate, secondo posto in un comodo girone di Europa League, eliminazione senza lottare contro una Lazio priva di alcuni titolari in Coppa Italia ed un bottino misero di una vittoria e tre pareggi nei dieci incontri, Coppa Italia compresa, contro squadre che precedono la Roma in classifica.

Troppo poco per scongiurare un esonero apparso inevitabile. Ma non abbastanza per cancellare ciò che Mourinho è stato per la Roma: un condottiero in cammini continentali ormai dimenticati, una granitica certezza cui non sarà più possibile aggrapparsi.

Abbraccio con senatori e “bambini”: la gioia dopo la semifinale di Europa League contro il Bayer Leverkusen

 


Ascolta Catenaccio, il podcast di Puntero. Puoi trovarlo su Spotify, oppure ti basta cliccare qui sotto.

 

catenaccio

Di Manuel Fanciulli

Laureato in giurisprudenza e padre di due bambini, scrivo di sport, di coppe e racconto storie hipster. Cerco le risposte alle grandi domande della vita nei viaggi e nei giovedì di Conference League.